ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 25 novembre 2018

“Nolumus hunc regnare super nos!”

FESTA DI CRISTO RE
Quella disconosciuta regalità sociale di Cristo

Lo spostamento della festa di Cristo Re all'ultima domenica del Tempo ordinario (nella Forma straordinaria resta all'ultima domenica di ottobre) vuole sottolineare il suo significato escatologico. Ma così si è oscurata la regalità sociale di Cristo, evidentemente ritenuta anacronistica.



Domani, ultima domenica del Tempo Ordinario, secondo il calendario della Forma Ordinaria del Rito Romano, cade la festa di Cristo Re. Per la Forma straordinaria, questa festa è invece collocata nell’ultima domenica di ottobre. Come mai questa disparità di calendario, trattandosi di una festa di recente istituzione? Se si riprende il testo dell’enciclica Quas primas, dell’11 dicembre 1925, che stabilisce la celebrazione di questa festa quotannis e ubique, si può notare che il giorno prescelto è proprio quello «dell’ultima domenica di ottobre, domenica precedente la festa di Tutti i Santi». Pio XI ne spiegava la ragione col fatto che, cadendo questa domenica quasi al termine dell’anno liturgico, avrebbe fatto sì che i misteri della vita di Cristo potessero ricevere un coronamento da questa solennità; parimenti, per il fatto che si tratta della domenica precedente la solennità di Ognissanti, si sarebbe messa in evidenza e celebrata «la gloria di colui che trionfa in tutti i santi e in tutti gli eletti».

L’idea si spostare la festa all’ultima domenica dell’anno liturgico iniziò ad essere dibattuta nel 1950, secondo le memorie del cardinal Antonelli. Nonostante una raccomandazione della Congregazione per la Dottrina della Fede di mantenere la festa nell’ultima domenica di ottobre, il Consilium, all’interno del lavoro di revisione dell’anno liturgico, preferì spostarla, adducendo la motivazione di una migliore sottolineatura del suo significato escatologico.

Una dichiarazione di uno dei grandi artefici della riforma liturgica, don Pierre Jounel, che apparteneva al Coetus 18bis, incaricato della revisione delle orazioni e dei prefazi della Messa, può forse aiutare a leggere un po’ meglio cosa si nascondeva dietro questa enfatizzazione del senso escatologico della festa: «Di fronte al crescente ateismo e secolarizzazione della società, [Pio XI] volle riaffermare la suprema autorità di Cristo sugli esseri umani e sulle loro istituzioni. Alcuni punti dell’Ufficio lasciavano intendere che il compositore ancora sognava una possibile Cristianità…».

Per questo motivo, l’obiettivo dei riformatori voleva essere quello di enfatizzare maggiormente «il carattere cosmico ed escatologico della regalità di Cristo. La festa è ora […] assegnata all’ultima domenica del Tempo Ordinario, al di là del quale vediamo l’inizio dell’Avvento con la sua prospettiva del ritorno del Signore nella gloria». Spostare la festa alla fine dell’anno liturgico era uno dei modi per affievolire la portata sociale, da vivere qui ed ora, della regalità di Cristo. In realtà l’Ufficio, la cui innodia esamineremo tra poco, non faceva altro che “tradurre” liturgicamente quanto Pio XI aveva scritto nell’enciclica. Secondo il Pontefice, la celebrazione della festa avrebbe richiamato «al pensiero di tutti che la Chiesa […] richiede per diritto proprio, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero d’insegnare, di reggere e di condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio».

L’altro grande obiettivo di questa festa, era quello di ammonire le nazioni «che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti» e di esortare affinché «la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principi cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia infine nel formare l’animo dei giovani alla sana dottrina e alla santità dei costumi». In altre parole, Pio XI voleva contrastare quella tendenza laicista oggi imperante che spinge la fede nell’ambito privato e grida all’ingerenza ogni volta che la Chiesa ricorda i doveri dei singoli e delle società nei confronti di Dio. I testi liturgici originari della festa di Cristo Re, e in particolare l’innodia, rimasti ormai solo nella Forma Straordinaria del Rito Romano, sottolineavano appunto che Cristo non è Re solo delle singole anime, ma delle intere nazioni e della società e che il bene della società è appunto quello di riconoscere concretamente questa signoria.

Lo spostamento della festa all’ultima domenica del Tempo Ordinario pare dunque voler indicare che la regalità di Cristo è solo escatologica, ha a che fare con la sua venuta nella gloria e non con questo tempo. La conferma di quanto affermiamo, la troviamo lampante nella riforma degli inni dell’Ufficio, composti da p. Vittorio Genovesi.

Partiamo dall’inno dei Vespri, Te saeculorum Principem. La sesta e la settima strofa sono state interamente omesse “per brevità”, secondo Dom Anselmo Lentini, relatore del Coetus 7, che si occupò appunto della revisione degli inni. Motivazione teologicamente pregnante... Quando andiamo a vedere il testo di queste due strofe, ci si accorge che in realtà la ragione è quella di cancellare ogni riferimento alla dimensione sociale della regalità di Cristo: “Te nationum praesides / Honore tollant publico / Colant magistri, judices, / Leges et artes exprimant” (Che i capi delle nazioni, ti rendano pubblico onore; che i maestri ed i giudici ti onorino, le leggi e le arti ti manifestino); “Submissa regum fulgeant / Tibi dicata insignia: / Mitique sceptro patriam / Domosque subde civium” (Risplendano le insegne regali, a te sottomesse e dedicate: assoggetta la nostra patria e le case dei cittadini al tuo mite scettro/sovranità).

La stessa sorte è toccata all’inno del Mattutino (nel Breviario riformato, il Mattutino è divenuto Ufficio delle letture), Aeterna Imago Altissimi, dal quale è stata cancellata la sesta strofa: “Tibi volentes subdimur / Qui jure cunctis imperas / Haec civium beatitas / Tuis subesse legibus” (A te, che giustamente tutto governi, ci sottomettiamo volentieri; questa è la felicità dei sudditi: di sottomettersi alle tue leggi). Anche in questo caso, la ragione addotta per la soppressione di questa strofa è stata la brevità. Il peggio è capitato all’inno delle Laudes, Vexilla Christus inclyta, che è stato integralmente soppresso e sostituito dall’inno Iesu, Rex admirabilis, una composizione, quest’ultima, molto bella, ma che non ha alcun riferimento alla regalità sociale di Cristo. La soppressione integrale si è resa “necessaria” per il fatto che tutto l’inno, e non solo qualche strofa, celebrava l’importanza che tutte le genti riconoscessero il regno di Cristo, che non si instaura tramite la forza, ma mediante l’attrazione dell’amore crocifisso (Alto levatus stipite / Amore traxit omnia). In questo riconoscimento si trova la pace e l’ordo civicus trova la sua stabilità. “Servat fides connubia / Juventa pubet integra / Pudica florent limina / Domesticis virtutibus” (La fedeltà custodisca i matrimoni / la gioventù maturi nella purezza / le case caste fioriscano di virtù domestiche).

Domanda: non è che l’eliminazione di queste aspirazioni dai cuori dei fedeli e dei sacerdoti, e di queste invocazioni al buon Dio hanno contribuito a portarci nella situazione odierna, in cui la società civile non riconosce più Dio e la libertas Ecclesiae, in cui addirittura pare che la Chiesa stessa firmi accordi in cui accetta di essere soggetta a governi atei? Non è che forse queste modifiche, secondo il noto principio lex orandi, lex credendi, hanno portato alla pacifica ammissione, da parte degli stessi cattolici, in primis vescovi e cardinali, che la fede sia questione individuale, privata, ma che poi, a livello pubblico, Dio non dev’essere nemmeno nominato?

Il bisturi dei liturgisti ha proseguito nella sua azione intenzionale di rimuovere qualsiasi riferimento alla regalità sociale di Cristo, ma qui non è possibile farne un’analisi completa. Ci basti almeno far riflettere che questa operazione avrà forse messo maggiormente in luce la regalità escatologica di Cristo, ma ha certamente occultato quella sociale, che era precisamente l’obiettivo dell’istituzione della festa di Cristo Re, di fronte al laicismo imperante. La liturgia della festa celebrava quanto Pio XI insegnava nella Quas primas: «Non vi è differenza fra gli individui e la società domestica e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quanto lo siano gli uomini singoli. E’ lui solo la fonte della salvezza privata e pubblica».
Non si tratta di trionfalismi, o di voler realizzare una Cristianità medievale che non esiste più (la quale, pur con tutti i suoi limiti e difetti, non era poi così male…), ma di riconoscere che la signoria di Cristo sulla società gli spetta di diritto e che essa è la nostra salvezza. La celebrazione di Cristo Re dei singoli e della società è qualcosa che il cuore dei cristiani non può non desiderare, per amore di Lui e per il proprio bene. Ma ora, per questione di “brevità”, non si può più fare (almeno nella Forma Ordinaria). Che la società riconosca Cristo: che altro può auspicare di meglio chi ha a cuore il bene della società stessa? Nelle ultime strofe di ogni inno, prima della revisione, si cantava: “Jesu, tibi sit gloria, / Qui sceptra mundi temperas” (A te, Gesù, sia gloria, che moderi i poteri del mondo). Questi versi sono stati rimaneggiati, perché, spiega Lentini, “l’immagine degli scettri ormai sembrava anacronistica”.

A parte il fatto che l’immagine dello scettro è biblica; ma, scettro o non scettro, la fede ha sempre riconosciuto che il potere del mondo, se non riconosce Qualcuno che gli sta sopra, se non entra nell’ottica di non essere il padrone assoluto della vita e della morte, finisce per essere dispotico. Penso che, alla luce di quello che stiamo vivendo, non siano gli sceptra mundi ad essere anacronistici, ma le motivazioni di chi ha optato per queste asportazioni liturgiche. «Il potere, infatti – diceva Sant’Ambrogio, nell’orazione funebre in onore dell’Imperatore Teodosio -, si abbandonava senza ritegno al vizio e, come bestie, i sovrani si contaminavano in sfrenate libidini e ignoravano Dio. La croce del Signore li frenò e li distolse dalle cadute dell’empietà, fece loro alzare gli occhi perché cercassero in cielo Cristo. Deposero la museruola dell’incredulità, accolsero il morso della devozione e della fede, seguendo Colui che dice: Prendete sopra di voi il mio giogo; il mio giogo, infatti, è dolce e il mio carico leggero”.

Possiamo almeno porci seriamente la domanda se quanto accaduto ad Alfie e a Charlie c’entri con tutto questo? Se il dilagare di una cultura di morte, di dominio, di disprezzo dei piccoli non abbia per caso a che fare col fatto che non vogliamo che Cristo venga a regnare su di noi (cf. Lc. 19, 14)?

Luisella Scrosati

25 Novembre 2018
http://www.lanuovabq.it/it/quella-disconosciuta-regalita-sociale-di-cristo
"Chiodi per De Vecchis": minacce web al senatore che ha riportato i crocifissi in classe

Si è innescata una vera e propria "rappresaglia social" contro il senatore leghista che ha riportato i crocifissi nelle aule di una primaria di Fiumicino

“Ci si dovrebbe sdraiare lui sulla croce, ce lo vedrei bene”. Questo è solo uno dei tanti commenti apparsi nei giorni scorsi sulla pagina Facebook del senatore leghista William De Vecchis.
La sua colpa? Più d’una a quanto pare. In primis quella d’aver denunciato la presunta sparizione dei crocifissi da alcune aule di una scuola primaria di Fiumincino. E di aver inaugurato un vero e proprio giallo che si è concluso con la smentita della preside. Secondo la dirigente scolastica, infatti, non si sarebbe verificata nessuna rimozione ma, più semplicemente, i crocifissi in dotazione alla scuola non sarebbero sufficienti per tutte le classi. In secondo luogo, al senatore del Carroccio è stata anche addebitata la decisione di aver riportato in aula i crocifissi mancanti acquistandoli di tasca propria. Insomma, ce n’è abbastanza per far ribollire il sangue dei laicisti da tastiera che, stando a quello che racconta De Vecchis, avrebbero inaugurato nei suoi confronti una vera e propria “rappresaglia social”.
Non solo “offese generiche”, spiega il senatore a Il Giornale.it, perché c’è anche chi scrive che lo vorrebbe vedere “sdraiato sulla croce” e chi reclama “qualche chiodo in più per De Vecchis”. “Che il mio gesto avrebbe diviso gli utenti – prosegue De Vecchis – me lo aspettavo ed ero pronto alle critiche e al confronto anche acceso, ma mai mi sarei immaginato che qualcuno arrivasse ad augurarmi il martirio”. Nonostante questo, però, chiarisce che non intende “denunciare nessuno”. Perché si tratta solo di “pagliacciate di pessimo gusto che sono l’ennesima dimostrazione di quanto sia basso il livello di certi interlocutori”. La sua risposta migliore allora sarà quella di continuare questa “battaglia di civiltà” estendendo il suo intervento “a tutte le scuole di tutto il Comune di Fiumicino”.
Decisamente più civile sul piano dialettico è stata la reazione di Roberto Grendene, responsabile nazionale delle campagne dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, impegnato da anni per “liberare” i luoghi istituzionali dai simboli religiosi. Per Grendene “il crocifisso a scuola fu imposto solo col fascismo” e non sarebbe quindi esatto identificare la sua presenza come un elemento della nostra tradizione.
Nel frattempo, una cordata di senatori del Carroccio (Massimo Candura, Roberto Marti, Cesare Pianasso, Gianfranco Rufa, Paolo Saviane, Cristiano Zuliani) ha speso parole di solidarietà nei confronti del collega. “Chi crede nel confronto leale e democratico – scrivono – non può tollerare le offese, gli insulti e le intimidazioni”. Poi l’auspicio “che tutte le forze politiche condannino affermazioni così minacciose e deliranti” e la consapevolezza che “se questi leoni da tastiera pensano di fermare la Lega e le sue battaglie con questi mezzucci si sbagliano di grosso”.

Rapporto 2018 sulla libertà religiosa nel mondo. Dall’India la peggior sorpresa



Nelle quasi 900 pagine del suo ultimo rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, reso pubblico nei giorni scorsi, la fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre ha certificato un generale aggravamento della mancanza di libertà.
Rispetto al 2016, anno del precedente rapporto, in ben 17 dei 38 Stati classificati di “persecuzione” o di “discriminazione” la situazione è decisamente peggiorata. E vi sono tra questi alcuni dei paesi più popolosi del mondo: Cina, India, Indonesia, Pakistan, Russia, Nigeria… Col risultato che quasi due terzi della popolazione mondiale, il 61 per cento, vive oggi in paesi in cui la libertà religiosa è sotto attacco.
E tra le fedi, quella cristiana continua a essere la più colpita. Un cristiano su sette vive oggi in un paese classificato di “persecuzione”.
Il rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre fornisce della situazione di ogni paese una descrizione precisa, che comincia tracciando il quadro giuridico relativo alla libertà religiosa vigente in quel dato paese e prosegue con una rassegna dei fatti li accaduti negli ultimi due anni che contraddicono tale libertà.
I 21 paesi classificati di “persecuzione”, nei quali la libertà religiosa è più conculcata, sono i seguenti, in ordine alfabetico:
Afghanistan, Arabia Saudita, Bangladesh, Cina, Corea del Nord, Eritrea, India, Indonesia, Iraq, Libia, Myanmar, Niger, Nigeria, Pakistan, Palestina, Siria, Somalia, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan, Yemen.
Mentre questi altri sono i 17 paesi classificati di “discriminazione”, cioè di oppressione della libertà religiosa un gradino sotto la precedente:
Algeria, Azerbaigian, Bhutan, Brunei, Egitto, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Laos, Maldive, Mauritania, Qatar, Russia, Tagikistan, Turchia, Ucraina, Vietnam.
Ebbene, dei 38 Stati dei due elenchi, quelli in cui il rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre ha registrato negli ultimi due anni un aggravamento degli attacchi alla libertà religiosa sono:
Brunei, Cina, India, Indonesia, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Libia, Maldive, Mauritania, Myanmar, Niger, Pakistan, Somalia, Tagikistan, Turchia, Yemen.
Ai quali – si legge nel rapporto – sarebbero da aggiungere, per il motivo che lì la mancanza di libertà religiosa “è già così grave da non poter peggiorare”, questi altri cinque paesi:
Afghanistan, Arabia Saudita, Corea del Nord, Eritrea, Nigeria.
Sono solo due i paesi in cui il rapporto ha registrato un relativo “miglioramento” rispetto ai precedenti standard: l’Iraq e la Siria. Che comunque restano tuttora tra i paesi classificati di “persecuzione”.
In Iraq, in particolare, è un buon segno il ritorno nelle loro case, a Mosul e nella piana di Ninive, di decine di migliaia di cristiani in precedenza fuggiti sotto gli attacchi dello Stato Islamico. Molte delle loro case sono state ricostruite proprio grazie ad Aiuto alla Chiesa che Soffre. Ma ad alcuni è anche accaduto di ritrovare le proprie case occupate da estranei, con falsi titoli di proprietà.
Il guaio è – fa notare il rapporto – che tutte queste sofferenze delle comunità di fede sono largamente trascurate dai governi e dai media occidentali, ove “la libertà religiosa scivola in basso nelle classifiche dei diritti umani, eclissata da questioni come gender, sessualità e razza”. Il caso in Pakistan della cristiana Asia Bibi, assolta dalla pena capitale per blasfemia dopo nove anni di prigione ma tuttora in pericolo di vita con la sua famiglia al pari di tanti cristiani di quel paese, minacciati da folle fanatiche musulmane, è anch’esso avvolto da questa generale “indifferenza”, nell’attesa che qualche paese le dia asilo.
*
Volendo cogliere, tra tutti i paesi esaminati nel rapporto, i maggiori elementi di novità, certamente colpisce il caso della Cina, con la quale il Vaticano ha firmato un accordo proprio mentre là si registra una recrudescenza dell’ostilità nei confronti di tutte le fedi, non solo la cristiana cattolica, con regolamenti ancor più restrittivi, con distruzioni di luoghi di culto e con “almeno 100 mila musulmani detenuti a tempo indefinito in campi sovraffollati di rieducazione”.
Ma la sorpresa maggiore che riserva il rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre riguarda il secondo paese al mondo per popolazione, l’India.
A detta del pool internazionale di analisti che ha redatto il rapporto del 2018, infatti, è proprio l’India il paese in cui si è registrata la più forte variazione – in peggio – rispetto ai precedenti standard, già molto negativi.
Nella cosiddetta “più grande democrazia del mondo” non c’è una religione di Stato. Ma da quando l’ultimo censimento ha registrato un calo del numero degli induisti, si è fortemente accentuata, per reazione, l’ostilità verso le minoranze musulmane e cristiane, con l’entrata in vigore in un numero crescente di Stati della federazione di leggi punitive delle conversioni a religioni diverse dall’induista.
L’avvento al potere nel 2017 del Bharatiya Janata Party, d’impronta fortemente nazionalista e che identifica l’essere indiano con l’essere induista, ha incoraggiato il dilagare delle aggressioni contro le altre religioni da parte di estremisti indù, molto spesso con l’acquiescenza delle forze di sicurezza.
Secondo il Persecution Relief, un forum ecumenico che studia la persecuzione anticristiana, nel 2017 sono stati registrati 736 attacchi, spesso mortali, in netto aumento rispetto ai 348 dell’anno precedente. Il pretesto delle aggressioni è talora dato dal consumo di carne bovina, in violazione, a detta degli estremisti indù, delle regole che proteggono le vacche sacre.
E tutto questo nell’indifferenza del mondo occidentale, dove continua a valere l’idea che induismo sia sinonimo di pacifismo.
Settimo Cielo di Sandro Magister 25 nov

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