EX-AGENTE MOSSAD AMMETTE DI AVER UCCISO STUDENTI IN EUROPA
Tzipi Livni ex-ministro esteri israeliano ha rivelato di aver praticato sesso con diversi personaggi arabi mentre lavorava per il Mossad ''per avere informazioni segrete e concessioni politiche in favore di Israele''
Ha anche confessato omicidi nei paesi europei le cui vittime erano studiosi arabi.
In un recente incontro con il quotidiano britannico 'The Times'
Lvini ha detto che non era svantagioso usare il sesso o l'omicidio per il bene di Israele.
Ha detto di essere orgogliosa di quello che fa.
Fonte :
http://12160.info/page/admits-murder-in-europe-sex-for-secrets
Ha anche confessato omicidi nei paesi europei le cui vittime erano studiosi arabi.
In un recente incontro con il quotidiano britannico 'The Times'
Lvini ha detto che non era svantagioso usare il sesso o l'omicidio per il bene di Israele.
Ha detto di essere orgogliosa di quello che fa.
Fonte :
http://12160.info/page/admits-murder-in-europe-sex-for-secrets
Le bestie da soma d’Israele
Storie
di «donkey workers», i lavoratori illegali palestinesi nei cantieri
israeliani. L’espansione delle colonie attira manovalanza disperata dai
Territori Occupati
Pablo Castellani - NenaNews
Hebron, 11 marzo 2017, Nena News –
Un gruppo di uomini osserva un punto lontano. Hanno tra i 17 e i 25
anni, indossano abiti da lavoro, parlano poco. Alle loro spalle un pick
up con il motore al minimo, nell’aria regna il silenzio. Guardano il
muro israeliano con i suoi 700 chilometri di cemento e recinzioni, la
“Linea verde” tra Israele e Cisgiordania. Aspettano il momento giusto:
qui, solo una recinzione impedisce ai giovani di passare dall’altra
parte.
Oltre la
rete una superstrada e poi il paesaggio desertico si trasforma in una
scena collinare verdeggiante e rigogliosa. Da lì inizia Israele. Il
gruppo inizia a correre velocemente verso la recinzione. Alcuni
scavalcano da soli, altri tirano il bagaglio e poi passano oltre aiutati
dai compagni. Cadono dall’altra parte e si lanciano a testa bassa
nell’autostrada fino al guard rail per poi sparire tra gli alberi di un
boschetto. Pochi istanti e di loro non c’è più traccia, sono passati. Nella scena torna il silenzio.
Ci troviamo
nel governatorato di Hebron, in un villaggio che confina direttamente
col muro di separazione: si è consumato un evento che si ripete
quotidianamente in tutta la Palestina. Il
fenomeno dei palestinesi che entrano in Israele per andare a lavorare
come irregolari nei cantieri. Tra di loro si definiscono donkey workers,
bestie da soma, la forza lavoro occulta di Israele.
L’immigrazione
illegale, secondo il Population and Immigration Authority israeliano,
coinvolge ogni anno circa 17mila persone che entrano in Israele dai
Territori Occupati, ma il numero potrebbe essere più alto. Secondo
fonti palestinesi e indipendenti, potrebbe riguardare 50mila persone
per la sola Cisgiordania, che lavorano o vivono senza permesso oltre la
Linea Verde.
Secondo
B’Tselem, centro di informazioni israeliano per i diritti umani nei
Territori Occupati, sono «decine di migliaia i palestinesi disperati
disposti a correre il rischio di entrare in Israele senza permesso. Ogni
settimana migliaia di questi lavoratori sono catturati dalle forze di
sicurezza israeliane». Questa zona è particolarmente interessata dagli
attraversamenti per via della sua posizione geografica privilegiata: il
muro ancora in costruzione sorge poco distante.
Attraverso
strade dissestate, i pick up dei trafficanti fanno avanti e indietro
per portare i lavoratori. Il punto di raccolta è in uno spiazzo del
villaggio, dove ad ogni ora del giorno e della notte si
radunano uomini in attesa del proprio turno per scavalcare, sperando di
essere fortunati come chi li ha preceduti. Quando si raggiunge il numero
minimo per un viaggio, si parte.
Riusciamo
ad ottenere un incontro con alcuni lavoratori pochi istanti prima che
salgano sui pick up, in un edificio adiacente l’area di raccolta. Un
sottoscala spoglio di mobili, qualche sedia, materassi negli angoli.
Nessuno rivela il proprio nome, ma sono disposti a raccontare la loro
esperienza.
I
donkey workers sono diretti in varie località di Israele per lavorare,
soprattutto nei cantieri e nell’agricoltura: «Tutti quelli interessati a
dirigersi in una determinata zona si organizzano con una macchina», ci
dicono. Secondo uno studio ufficiale israeliano del settembre
2015, la maggior parte dei lavoratori irregolari sono impiegati nel
settore dell’assistenza (caregiving), mentre un migliaio lavorano nei
cantieri.
Tuttavia
anche questi numeri sono sottostimati: secondo il sindacato indipendente
israeliano Wac Maan, il numero di cantieri israeliani aperti nel
biennio 2014/2015 era di 13mila. Con la sua prolifica industria del
mattone e la costruzione continua di insediamenti illegali nei Territori
Occupati, Israele ha bisogno di manovalanza.
Ciò che
spinge i lavoratori palestinesi ad andare all’interno di Israele o negli
insediamenti è lo sfruttamento che subiscono nei propri cantieri e il
basso reddito all’interno dei Territori Palestinesi, schiacciati da una
crisi economica senza via di uscita a causa dell’occupazione israeliana e
dell’inattività dell’Autorità Palestinese.
La
paga è alta per lo standard di un palestinese: gli stipendi medi di un
operaio in Cisgiordania si aggirano sui 50/60 shekel (10 euro) al
giorno, «mentre in Israele puoi fare 200, 300 shekel (50 euro)».
Il costo
del trasporto è variabile ma non certo economico: può andare da 100 fino
a 500 shekel se si intende raggiungere un luogo molto a nord, per cui
si tende ad aggregare più persone nello stesso posto per abbassare il
costo del viaggio e ad allungare il periodo di permanenza, da un paio di
settimane fino ad alcuni mesi. A
carico dei lavoratori ci sono anche i costi di vitto e mantenimento.
«Non è semplice – ci dice uno di loro – A volte torniamo con le tasche
vuote, perché abbiamo dovuto coprire le spese».
I rischi
cui queste persone vanno incontro sono tanti: «Non possiamo girare
liberamente per Israele – raccontano – per cui dobbiamo nasconderci
quando finisce il turno. Dormiamo
dove lavoriamo, nei sotterranei, sui tetti o vicino al cantiere, nelle
foreste, qualsiasi luogo dove nascondersi. Costruiamo un muro finto nei
cantieri e poi lo buttiamo giù al mattino. Facciamo tutto ciò
che serve per nasconderci dalla polizia. Se ci arrestano, ci lasciano in
cella per diversi giorni e se ci va bene ci ributtano al confine».
Secondo
B’Tselem, la procedura per gli irregolari arrestati dalle forze di
sicurezza israeliane va dalla multa all’incarcerazione fino al
respingimento. Accanto alle procedure ufficiali, però, B’Tselem denuncia
l’esistenza di una serie di «protocolli informali» che comportano
«abusi ed umiliazioni» per i palestinesi catturati.
In
molti casi, continua l’organizzazione, «i palestinesi sono vittime di
aggressioni violente e gravi maltrattamenti da polizia e soldati. Anche
se le autorità israeliane condannano ufficialmente tale comportamento,
nella stragrande maggioranza dei casi non riescono a perseguire i
responsabili e, tra le omissioni e questi comportamenti, il fenomeno
resiste».
L’esistenza
di lavoratori irregolari sfruttati nei cantieri è ben conosciuto in
Israele e, sulla carta, si cerca di contrastarlo. A marzo 2016,
la Commissione Affari Interni della Knesset (il parlamento israeliano),
ha approvato un progetto di legge che mira ad arrestare l’afflusso di
lavoratori illegali dai Territori Occupati: il datore di lavoro
israeliano potrebbe essere punito fino a quattro anni nel caso abbia
assunto un manovale per più di 24 ore, eppure questo provvedimento non
sembra essere applicato alla lettera dalle forze di polizia.
In caso di
incidenti sul lavoro, il destino di queste persone è infausto: nella
migliore delle ipotesi gli operai devono trovare il modo di raggiungere
un ospedale palestinese con le proprie gambe, in quanto il costruttore
non gli garantisce assistenza. «Piuttosto avviene il contrario! –
spiegano – In caso di incidenti, all’arrivo della polizia, il datore di
lavoro nega di conoscere il lavoratore infortunato, e spesso la passa
liscia».
Uno
degli intervistati, rimasto in silenzio e con il volto nascosto per
tutto il tempo, mostra una mano mutilata: ha avuto, ci dice, un
incidente sul lavoro con una sega elettrica circa sei mesi
prima. Il costruttore lo ha lasciato senza provvedere al primo soccorso.
Un altro interviene mostrando anche lui i segni di un grave incidente.
Il suo datore di lavoro lo ha portato fino ad un ospedale palestinese,
assicurandogli che avrebbe pagato l’assicurazione.
«Quando
sono uscito – ci dice – il mio capo ha negato ogni coinvolgimento».
Entrambi dopo quella esperienza hanno cambiato mestiere e sono passati
dalla parte dei trafficanti: «Si rischia meno e si guadagna di più».
Secondo B’Tselem, «i
datori di lavoro israeliani sfruttano il disagio dei palestinesi, in
particolare i lavoratori che non hanno permessi per entrare e
soggiornare in Israele, per pagare bassi salari e fornire condizioni
squallide, negando i diritti previsti dalla legge».
La
Coalizione contro gli incidenti sul lavoro, organizzazione di avvocati,
lavoratori e attivisti per i diritti umani, insieme al Wac Maan, ha
denunciato una condizione di enorme irregolarità sui luoghi di lavoro.
Secondo queste organizzazioni, nel 2015 solo 17 ispettori del lavoro
hanno vigilato su 13mila cantieri aperti: circa 750 cantieri per
ispettore, una media impossibile da sostenere.
Una
situazione di irregolarità che ha portato a un incremento degli
incidenti mortali sul lavoro: nel 2014 è stato di 11,53 ogni 100mila
lavoratori.
Al
di fuori dell’edificio si è creato un gruppo di uomini davanti ai pick
up. C’è numero sufficiente per un viaggio verso le recinzioni ed è il
momento di partire. Li salutiamo. In pochi istanti lo spiazzale
si svuota, i pick up lasciano dietro di loro una scia di polvere. E nel
villaggio torna il silenzio.
http://www.vocidallastrada.org/2017/03/le-bestie-da-soma-disraele.html
Siria: cinque minuti di verità sugli schermi degli Usa
La narrazione dell’ostaggio e il silenzio stampa
Theo Padnos, il protagonista dell’intervista che segue, è un giornalista statunitense di Atlanta, rapito in Siria nel mese di ottobre del 2012 e durante due anni prigioniero di al-Nusra, fronte siriano di al-Qaïda. Fu liberato nell’agosto 2014 per intercessione del Qatar. Fox news è il canale televisivo ‘’all news’’ più visto in assoluto negli USA, subito prima della CNN. L’autore dell’intervista a Theo Padnos è il rinomato giornalista Tucker Carlson, conduttore del seguitissimo programma di attualità politica ‘’Tucker Carlson Tonight’’, che va in onda dal 14 Novembre 2016.
Questi elementi, uniti all’altalenante, o ambiguo, atteggiamento dell’incipiente amministrazione Trump, soprattutto negli affari internazionali e mediorientali in particolare, dovrebbero aver suscitato l’interesse nei commentatori della nostra stampa mainstream per un’intervista che si può definire strabiliante, proprio per il contesto in cui si svolge. Invece nulla. Silenzio assoluto. Che il timore di veder rovinare le loro narrazioni mendaci sulla Siria li stia mandando sempre più in confusione?
Maria Antonietta Carta
Theo Padnos, ostaggio statunitense sopravvissuto all’ordalia terroristica in Siria, consegna un impressionante messaggio alla combriccola USA-UK per il ‘cambio di regime’ in Siria.
21st Century Wire, 7 Marzo 2017
Un piccolo miracolo. Un raro momento di verità sui media mainstream. Nascosto sotto i volgari e sensazionalistici titoli in prima pagina ed i finti intrighi russi a Washington della scorsa settimana, il conduttore di FOX News Tucker Carlson ha diffuso una breve ma sorprendente intervista a Theo Padnos, giornalista americano che, per due anni (2012 – 2014), fu prigioniero in Siria dei terroristi di Al-Nusra, alias Al-Qaïda, sostenuti da USA-UK e dalle Monarchie del Golfo.
Nel corso degli ultimi sei anni, durante la presidenza di Barack Obama, funzionari statunitensi inadempienti, come Hillary Clinton e John Kerry, hanno occultato la vera natura dei cosiddetti “ribelli moderati” in Siria – etichettandoli ripetutamente come legittimi ‘combattenti per la libertà’ ‘per una democrazia embrionale in Siria’. Padnos cancella l’inganno delle istituzioni governative statunitensi e dei media su questo tema, e ristabilisce la verità sulla violenza perversa dei cosiddetti “ribelli ‘, molti dei quali nemmeno siriani.
“Assassinano la gente per strada e utilizzano bambini come torturatori. Stanno distruggendo la società di quel Paese.”
“Alcuni sono interessati al denaro, altri al potere e altri ancora amano le armi. Per tutti loro, la jihad è una stagione meravigliosa (…). Hanno le chiavi di pick-up nuovi fiammanti e del buon cibo gratis …”
” Laggiù, stanno edificando un vero e proprio arcipelago carcerario, con una moltitudine di prigionieri e una moltitudine di persone che a loro non piacciono. ”
“Alcuni sono interessati al denaro, altri al potere e altri ancora amano le armi. Per tutti loro, la jihad è una stagione meravigliosa (…). Hanno le chiavi di pick-up nuovi fiammanti e del buon cibo gratis …”
” Laggiù, stanno edificando un vero e proprio arcipelago carcerario, con una moltitudine di prigionieri e una moltitudine di persone che a loro non piacciono. ”
“Un incredibile asse del potere per molti giovani uomini che nella loro esistenza non ne hanno avuto nessuno fino ad ora. Nelle regioni non controllate dal governo siriano, si sta sviluppando una situazione pericolosa.”
L’intervistatore chiede poi a Padnos un giudizio sul governo di Assad, e alla CNN o alla NBC una risposta simile non si è mai sentita da alcuno degli ‘esperti’ che, sin dallo scoppio delle ostilità nel 2011 e per tutti questi anni, hanno sostenuto pienamente il cambio di regime:
“Il regime di Assad? In questo momento, circa 16 milioni di persone vivono in condizioni di sicurezza. Le scuole, le Università, e gli ospedali funzionano, e i vigili regolano il traffico nelle strade. Certo, non è la Svizzera – non è una società perfetta – penso che loro stessi lo ammettano. Chiunque voglia la pace in Siria saprà riconoscere e rispettare la pace che hanno in questo momento, anziché pregiudicarla e danneggiarla in qualunque modo – come ha fatto l’amministrazione Obama inviando missili e ogni genere di armi ai “ribelli ‘- il che mi è sembrato indecente perché ha distrutto la pace che c’era.”
L’intervistatore chiede poi a Padnos un giudizio sul governo di Assad, e alla CNN o alla NBC una risposta simile non si è mai sentita da alcuno degli ‘esperti’ che, sin dallo scoppio delle ostilità nel 2011 e per tutti questi anni, hanno sostenuto pienamente il cambio di regime:
“Il regime di Assad? In questo momento, circa 16 milioni di persone vivono in condizioni di sicurezza. Le scuole, le Università, e gli ospedali funzionano, e i vigili regolano il traffico nelle strade. Certo, non è la Svizzera – non è una società perfetta – penso che loro stessi lo ammettano. Chiunque voglia la pace in Siria saprà riconoscere e rispettare la pace che hanno in questo momento, anziché pregiudicarla e danneggiarla in qualunque modo – come ha fatto l’amministrazione Obama inviando missili e ogni genere di armi ai “ribelli ‘- il che mi è sembrato indecente perché ha distrutto la pace che c’era.”
” Sussiste la realtà di ’enclave’ dei ribelli. Queste ’enclave’ non sono tranquille, certo che no. Sono state distrutte. Guarda, è una guerra civile. Nelle ’enclave’ dei ribelli vive solo una minoranza della popolazione. La maggior parte dei Siriani vivono in una relativa calma sotto il regime di Assad. Sì, questo è preferibile ai bombardamenti e alle crocifissioni nelle strade a cui si assiste, all’assassinio di cittadini, alle torture e all’imprigionamento indiscriminato che [i terroristi ‘ribelli’] esercitano.
Trad. Maria Antonietta Carta
Trad. Maria Antonietta Carta
Fonte: Ora Pro Siria
http://www.controinformazione.info/siria-cinque-minuti-di-verita-sugli-schermi-degli-usa/#
Per i bambini di Mossul, la Goracci non piange. Chiediamoci perchè.
“Non abbiamo né pane né acqua”, dice la donna: “Facciamo appello alle organizzazioni umanitarie, che ci invino aiuti, soprattutto pane e acqua, e anche beni come gas, combustibile, generatori elettrici”. E’ una delle forse centomila persone fuggite da Mossul, sottoposta ai bombardamenti americani dall’ottobre scorso per “liberare Mossul da Daesh”. L’operazione è stata chiamata “Inherent Resolve”, che sarebbe “determinazione innata”. Gli americani però, agli sfollati non offrono alcun aiuto umanitario. Migliaia di sfollati si affollano nel villaggio di Hammam al-Alil, 30 chilometri a Sud di Mossul, dove non è nemmeno in allestimento un campo-profughi provvisorio: mancano tende, tutti i generi di prima necessità; i fuggitivi non hanno denaro – la donna che parla, insegnante, non riceveva lo stipendio da due anni nella città occupata dall’IS – né piccoli beni da scambiare per il cibo e l’acqua. Non c’è nemmeno un qualche serbatoio dove raccogliere l’acqua. “L’aiuto umanitario non arriva fino a noi. I pacchi sono aperti, saccheggiati e poi richiusi”. La situazione igienica è ovviamente critica. La catastrofe umanitaria è imminente.
Questa assenza internazionale ha un motivo: il silenzio dei media. Le ONG sono assenti, perché il caso non è mediatico. Nulla di simile alle lacrime sparse su Aleppo Est bombardata dai russi spietati, che colpivano gli innumerevoli ospedali pediatrici di una città che, occupata da Daesh, era piena di bambini. Eppure ci sono bambini anche con gli sfollati di Mossul, oltre 50 mila secondo l’Unicef.
E in pericolo imminente. Niente: qui niente convogli Onu guidati dal valoroso Staffan de Mistura, niente Caschi Bianchi premiati ad Hollywood che tiravano fuori i bambini di Aleppo dalle macerie e li fotografavano. E nessuna lacrima della inviata della Rai, la animosa Goracci: le ha spese tutte per singhiozzare su “L’ultimo ospedale di Aleppo eliminato” dai cattivi russi (era sempre l’ultimo rimasto), per i bambini affamati e senza medicinali, che richiedevano assolutamente una tregua, perché Daesh si potesse riorganizzare.
Intendiamoci, la Goracci c’è stata a Mossul: ai primi di novembre, embedded nelle truppe irachene . Ha fatto i servizi d’ordinanza su un quartiere liberato, le necessarie foto-opportunity. Poi basta. I bombardamenti americani stanno ammazzando civili, donne e bambini di Mossul, ma cò non interessa più.
Il perché è spiegato in un saggio dal titolo Shadow Wars, Guerre-Ombra, scritto dal professor Christopher Davidson: il quale non esita a chiamare esplicitamente l’ISIS un “patrimonio strategico” per l’amministrazione Obama. Uno “strumento da utilizzare contro i nemici”.
“IS, patrimonio strategico per gli Usa”
Magari i lettori del nostro blog lo sapevano già. Ma il punto è che il professor Davidson non è un alternativo: cattedratico di studi medio-orientali alla Durham University britannica, è consulente della NATO, del Parlamento Britannico, della British Petroleum (BP) e dei ministeri degli esteri di Olanda e Nuova Zelanda. Secondo l’Economist, è “uno degli universitari meglio informati sull’area del Medio Oriente”. Il suo libro quindi è discusso e recensito sui media anglo-americani.
Davidson racconta come l’operazione che sta “liberando Mossul” secondo i media, stia facendo anche un’altra cosa: “La concentrazione degli aerei dell’operazione Inherent Resolve nei cieli della maggior parte dei territori occupati dallo Stato Islamico”, hanno costretto “le forze russe a restringere il perimetro dei loro attacchi nel Nord-Est della Siria”. In altre parole, coma ha confermato anche la rivista TheArabist.net, la Russia “è stata ostacolata nella sua capacità di bombardare Daesh, perché la coalizione diretta dagli Stati Uniti ha messo in essere una zona di esclusione aerea effettiva” a protezione del Califfato
Davidson riconosce che, “a un anno dall’inizio di Inherent Resolve nei cieli”, di Irak e Siria durante l’estate del 2015, “lo Stato Islamico appare più libero che mai di percorrere la maggior parte del suo territorio. I suoi convogli, a volte formati da centinaia di veicoli ad ogni spostamento” raggiunsero nel 2015 “gli avamposti del governo di Assad a Palmira”, e “in Irak […] riuscirono a impadronirsi di Ramadi […] ancora una volta avendo attraversato un territorio largamente allo scoperto”, semidesertico. “Abbiamo continuamente sentitole forze irachene e curde lamentare che gli attacchi aerei del comando americano erano largamente inefficaci, colpendo spesso costruzioni vuote e installazioni non occupate […] In Irak, le autorità hanno parimenti denunciato che Daesh riceveva avvertimenti preventivi”.
Davidson ritiene che anche l’ultima e più recente “riconquista” di Palmyra da parte di 4 mila guerriglieri di Daesh, nel dicembre 2016, “meriterebbe un’inchiesta approfondita”. Ciò perché l’aviazione americana aveva avvertito i russi (come di routine per evitare “incidenti” fra le due aviazioni) che “il Pentagono s’era ‘riservato’ quella data dell’8 dicembre per occupare lo spazio aereo di Palmyra” perché intendeva lanciare “il più vasto bombardamento dell’anno” contro le fonti petrolifere di finanziamento di Daesh. Di fatto, la US Air Force s’è accanita contro un convoglio di autobotti vuote e senza autisti (lo ha precisato Usa Today: http://www.usatoday.com/story/news/world/2016/12/09/airstrike-syria-united-states-coalition-islamic-state/95210166/
“I russi erano stati informati che si dovevano tenere alla larga di Palmyra e della sua periferia, mentre i combattenti di Daesh avanzavano liberamente in direzione della città”. Il che ci dice che gli Usa hanno aggiunto ai loro crimini di guerra e contro l’umanità, anche la voluta distruzione della zona archeologica più preziosa della Siria, al solo scopo – si direbbe – di azzerare una fonte di onesti guadagni turistici futuri per la nazione.
Allungherei troppo a riferire tutte le altre volte in cui la zona di esclusione aerea di fatto imposta dagli Usa sopra Daesh ha reso possibile, anzi agevolato, le puntate offensive e le conquiste dello Stato Islamico. Dato il continuo sorvolo di droni e aerei da ricognizione, “i pianificatori di Inherent Resolve hanno certo una conoscenza precisa dei movimenti dell’IS da trenta mezzi[…]. Secondo le mie fonti in Irak e Siria, che vivono per lo più nelle zone occupate da Daesh, è impossibile spostare imponenti colonne di combattenti da un luogo all’altro senza essere osservati”.
Per esempio nel giugno 2016, quando un convoglio di centinaia di veicoli in uscita dalla città di Falluja, lo stato iracheno chiese agli americani di usare la forza aerea per distruggerlo. Il CENTCOM (il comando delle operazioni nell’intero Medio Oriente) addusse “il cattivo tempo” e”la protezione dei civili” per non fare nulla: i militanti di Daesh avevano con loro donne, bambini, famiglie o scudi umani che fossero. Alla fine è stata la piccola aviazione irachena a neutralizzare il convoglio.
La preoccupazione umanitaria del CENTCOM si è manifestata vivamente anche nell’agosto 2014,quando non ha voluto incenerire le centinaia di camion-cisterna che portavano il greggio rubato da Daesh ai turchi (al figlio di Erdogan), motivando con la sua paura di “colpire dei civili” fra gli autisti delle cisterne. Una delicatezza che dormiva nel vent’anni precedenti, quando la conquista dell’Irak ha prodotto 4 milioni di morti, quasi tutti civili, e l’uso abbondante di uranio impoverito, che ha conseguenze catastrofiche sulla discendenza degli iracheni e dei siriani, senza contare la disgregazione della società tutto sommato avanzata e civile instaurata da Saddam Hussein, con i servizi pubblici regolari e la sicurezza mantenuta fra sciiti e sunniti. Adesso, poi, la viva ansia umanitaria del Pentagono è tornata nel sonno verso la popolazione civile dello Yemen: perché la “coalizione” anti-IS, oltre a garantire la esclusione aerea a protezione di Daesh in Irak e Siria (Davidson ci spiega che l’aviazione francese ha tirato “una bomba al giorno in una regione grande come la Gran Bretagna”, perché Hollande combatte sì l’IS, ma, ha detto, “Non voglio fare il gioco di Assad”), affianca l’Arabia Saudita nella sua guerra contro gli Houti. Dove il massacro di civili dal cielo è quotidiano, e la loro uccisione per fame e distruzione delle poche infrastrutture è cosa fatta – ma senza strappare una lacrima al TG3.
“Le scuole sono state colpite 800 volte. Perché fare questo, se non per uccidere più gente possibile?” si lamenta Kim Sharif, direttrice del Centro per i diritti dell’Uomo nello Yemen. Anche gli americani non sono stati di meno: “Quando i Navy Seals sono atterrati a Shabwah un mese fa, hanno sparato a tutto quello che si muoveva: le vittime sono state solo donne e bambini”. L’impresa è stata motivata come la necessità di debellare, in Yemen, una base di Al Qaeda. Va a sapere: di fatto hanno ammazzato 25 persone, di cui 10 bambini e 9 donne.
Ma sono milioni i civili che rischiano di morire per fame. In Yemen sta già avvenendo la catastrofe umanitaria fra le più spaventose del secolo. Senza una lacrima della Goracci, della Merkel, della Mogherini, dell’ONU.
Il professor britannico evoca come nacque Inherent Resolve: agosto 2014, l’uccisione del giornalista americano James Foley.
Sgozzato, o almeno così pare, in un video da un tizio mascherato da jihadista a volto coperto, con un accento così fortemente londoniano, che verrà chiamato Jihadi John. In esso, Jihadi John minaccia direttamente il presidente Obama. Scoperto dal SITE di Rita Katz e amplissimamente diffuso dai media tv, il video costringe Obama a lanciare l’operazione di “degradare e infine eliminare” l’IS. Primo effetto della “risoluzione inerente”, precisa Davidson, è questo: Usa, Regno Unito e Francia devo sospendere i tagli programmati alla difesa e anzi aumentare l’armamento . e la vendita agli altri alleati della coalizione anti-IS, specie i sauditi.
Grazie a ciò “le più grandi imprese americane hanno conosciuto un boom importante, le loro azioni hanno abbattuto record storici. Raytheon ha visto la sua quotazione passare da 75 […] a 125 dollari a fine 2015. Nello stesso periodo, l’azione Northrop Grumman passò da 95 dollari a uno stupefacente 186,20 dollari. [..] a inizio del 2015, l’amministratore delegato di Lockheed Martin informò un esperto di Deutsche Bank che ogni riduzione di vendite di armi “non era certo prossima ad accadere”, a causa della “instabilità del Medio Oriente” e delle opportunità di affari corrispondenti. Questa regione restava “una zona di crescita” per la sua impresa”.
Nel settembre 2013, Obama proclama che Assad ha superato la linea rossa “gasando il suo stesso popolo”: la reazione russa – che induce Assad a consegnare tutto il suo arsenale chimico all’Onu – e il voto contrario del parlamento britannico, del tutto inaspettato, costringono Obama a rinunciare all’invasione diretta della Siria. E’ allora che viene lanciata, come ha raccontato lo stesso New York Times solo nel gennaio 2016,
la vasta operazione clandestina della Cia per formare, armare, stipendiare e istruire decine di migliaia di mercenari anti Assad: “Timber Sycamore”, costata “diversi miliardi di dollari”, in gran parte versati dall’Arabia Saudita, che è anche la più insaziabile compratrice delle armi americane (sulla carta è la seconda potenza militare del mondo, prima di Russia e Cina). Secondo l’esperto Joshua Landis, i vari stati impegnati hanno dedicato 15 miliardi di dollari allo scopo di rovesciare Assad. Cifra da ritenere per difetto, perché le avventure estere dell’Arabia Saudita (e del Katar) non vengono certo iscritte nei bilanci formali.
L’ingenuo lettore può piangere al pensare che con quelle cifre si poteva sviluppare la Siria, coprire d’oro i siriani invece di ammazzarli e farli ammazzare, per non dire del risollevare le sorti degli americani che abitano sotto le tende avendo perso il lavoro e, quindi, la casa ipotecata da mutuo. “Lo Stato Islamico esiste come struttura politica la cui utilità supera i guadagni militari e politici che conseguirebbero alla sua sconfitta, e non solo per gli Stati Uniti ma per le monarchie del Golfo […]. Lo Stato Islamico combatte gli sciiti in Siria e Irak”. Si aggiunga che le reti islamiste di arruolamento per la guerra santa in Siria e Irak hanno, per le petromonarchie, di “emasculare i sollevamenti popolari che minacciavano le monarchie del Golfo” dal 2011.
E in fondo, questo razionale è validissimo anche per il capitalismo terminale trionfante: consumare e vendere enormi quantità di materiali, scongiurando quindi la riduzione della produzione industriale, senza allo stesso tempo aumentare il potere d’acquisto degli americani, e dei lavoratori occidentali in genere, che devono essere tenuti a stecchetto, precari, minacciati di disoccupazione. La Goracci non ci piangerà sopra, perché lei “lavora per la Rai”,dove i giornalisti non conoscono austerità né stecchetto.
Siria ha abbattuto caccia Israele? Ciò cambia le cose. Erdogan cambia ancora cavallo.
Israeliani lo negano. Damasco lo conferma: nella notte del 17, i suoi S-200 hanno abbattuto un caccia che aveva colpito “armamenti destinati a Hezbollah”.
Certo è che le sirene d’allarme, come per un attacco aereo imminente, hanno suonato alle 2 del mattino in Israele, o per meglio dire nella colonia giudaica Aqwar presso il Giordano, mentre le esplosioni di missili lanciati dalla anti-aerea siriana facevano tremare i cieli di Sion. Il ministro giudaico della Difesa, la bestia Avigror Lieberman, a caldo ha ringhiato: “La prossima volta che i siriani useranno il loro sistema a/a contro i nostri aerei, glielo distruggiamo senza la minima esitazione”. Poi, Mosca “ha chiesto spiegazioni” all’ambasciatore di Israele, convocandolo (‘s’era appena insediato) e da allora la stampa ebraica ha cominciato a scrivere che lo Stato ebraico “non desidera altre tensioni”. Gli israeliani hanno dovuto lanciare missili Arrow, del sistema antimissile che è concepito per parare missili balistici; gli strateghi militari israeliani ammettono a mezza bocca che “i missili siriani sono efficienti”: e sono S-200. Figuratevi gli S-400.
Anche il discorso di Hassan Nasrallah, il 18 marzo, pronunciato in ricordo della nascita di Fatima, ha avuto un certo tono particolare: “L’Asse della Resistenza trionfa in Siria, Israele è presa dal panico”.
L’ambasciatore siriano all’ONU Bashar Jaafari ha dichiarato che all’ambasciatore sionista convocato, “è stato detto che quel gioco è categoricamente finito”. Effettivamente è difficile credere che Damasco abbia potuto prendere una tale decisione – rispondere all’incursione israeliana – senza l’accordo preventivo degli alleati russi e iraniani.
Se Netanyahu credeva di aver quasi convinto Putin ad abbandonare siriani e iraniani, o ad averlo minacciato a sufficiente ventilando una escalation della tensione che Mosca non avrebbe potuto altro che subire, arretrando e cedendo, deve riconsiderare le cose.
Naturalmente ciò è l’inizio di un aggravamento improvviso della crisi nell’area, dove russi e Marines si sfiorano praticamente coi gomiti nella Siria del Nord.
Ed Erdogan? “Condanna l’annessione russa della Crimea”.
L’altra novità del giorno è l’ennesimo voltafaccia di Erdogan. Sabato, ha fatto comunicare al suo ministero degli Esteri che “la Turchia non riconosce l’adesione della Crimea alla Russia”, in “flagrante violazione del diritto internazionale”, e “continua a sostenere l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina”.
Ecco che Erdogan è tornato ad avere qualcosa in comune con Angela Merkel.
Il motivo di questo ritorno dell’ostilità di Erdogan con Putin pare essere l’accordo recentemente stretto fra le truppe di Damasco e i curdi siriani combattenti a Manbij, attraverso la mediazione russa – che ha assicurato i crudi di essere pronta ad aiutarli di fronte alla Turchia. A quella condizione i curdi hanno accettato di cedere il controllo di Manbij all’armata siriana regolare; cosa che ha bloccato le mire di Erdogan su quella zona.
E pensare che solo due giorni prima il ministro turco della Difesa, Fikri Isik, aveva dichiarato che Ankara stava cercando di comprare da Mosca il sistema anti-aereo S-400, promettendo al venditore che non li avrebbe integrati nel sistema NATO. Mosca non ha detto subito no, forse in attesa del prossimo cambiamento di idee dell’ottomano.
Il quale frattanto non solo ha insultato Berlino e gli olandesi chiamandoli nazisti, ha incitato gli immigrati turchi in Europa a fare 5 figli per affogare demograficamente gli europei, ma ha interrotto la collaborazione NATO tra lui egli altri paesi UE. Per lui, adesso, la NATO consiste nella Turchia e i paesi non-UE.
Inutile sottolineare il contributo che una tale scheggia impazzita può dare alla trasformazione del già pericoloso conflitto medio-Orientale in una terza guerra mondiale.
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