ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 11 ottobre 2012

Ma davvero?..agiografia per polli da cortile..? (dei gentili)

Quando Ratzinger voleva abolire il latino

Padri conciiliari nella Basilica di San Pietro
PADRI CONCIILIARI NELLA BASILICA DI SAN PIETRO

Il futuro pontefice all’inizio dell’Assise era su posizioni progressiste da cui poi si distaccò. Oggi rilegge criticamente alcuni documenti dell’epoca

ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO

I quasi tremila vescovi che l’11 ottobre 1962 sciamavano rivestiti dei loro paramenti attraverso piazza San Pietro inaugurando il Concilio Ecumenico Vaticano II nato dalla coraggiosa intuizione dell’anziano Giovanni XXIII, «non potevano e non volevano creare una fede diversa o una Chiesa nuova, bensì comprenderle ambedue in modo più profondo e quindi davvero “rinnovarle”». Lo scrive Benedetto XVI, che da teenager teologico prese parte al Vaticano II, prima come esperto del cardinale di Colonia e poi come perito. Il testo inedito di Ratzinger, una prefazione ai suoi scritti sul Concilio, viene anticipato da «L’Osservatore Romano» nel numero speciale dedicato al cinquantesimo dell’evento che ha marcato la vita della Chiesa del XX secolo.
Il mondo viveva i suoi «Golden Sixties», il boom economico, l’inizio della società dei consumi, la televisione, il mito della «nuova frontiera» di Kennedy. La Chiesa respirava quell’ottimismo lasciandosene influenzare. A Roma, cinquant’anni fa, il professor Ratzinger  fu vicino ai vescovi nordeuropei che mal digerivano gli schemi conciliari confezionati dalla Curia romana. «Indubbiamente – racconterà il futuro Papa – il rinnovamento biblico e patristico, che aveva avuto luogo nei decenni precedenti, aveva lasciato solo poche tracce in questi documenti; essi davano quindi l’impressione di rigidità e di scarsa apertura, di un eccessivo legame con la teologia scolastica, di un pensiero troppo professorale e poco pastorale». 

Il Vaticano II prese la sua strada, tra discussioni e non poche difficoltà, finendo per cambiare il volto del cattolicesimo, anche grazie a un Papa come Paolo VI, capace di compiere il «miracolo» di condurre in porto l’assise praticamente all’unanimità. La liturgia si rinnovò, venne approfondita la collegialità episcopale, fu dato impulso all’ecumenismo, si riconobbe la necessità di una maggiore responsabilità dei laici nella Chiesa. 

Il giovane Ratzinger era convinto assertore della necessità di una riforma liturgica, e riteneva che fosse necessario «forzare il muro del latino» affinché la liturgia tornasse ad essere annuncio e invito alla preghiera, ripulita dalle «cose superflue» e ampliata nella selezione dei testi biblici per «soddisfare le necessità della predicazione». Ma prima ancora della fine del Vaticano II, concluso nel dicembre 1965, era cominciata una lenta e progressiva presa di distanze del futuro Pontefice dalle correnti teologiche progressiste. «Ogni volta che tornavo a Roma – scriveva Ratzinger – trovavo nella Chiesa e tra i teologi uno stato d’animo sempre più agitato. Sempre più cresceva l’impressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva assomigliare a un grosso parlamento ecclesiale, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio».

Tanto che «nella Chiesa cattolica, quanto meno a livello della sua opinione pubblica, tutto appariva oggetto di revisione, e persino la professione di fede non pareva più intangibile, ma soggetta alle verifiche degli studiosi».
«Non sono cambiato io, sono cambiati gli altri», dirà Ratzinger a questo proposito. In effetti, mai prenderà le distanze dal Concilio e dalle sue riforme e chi oggi lo presenta come un Papa intenzionato a riportare indietro le lancette dell’orologio della storia sbaglia di grosso. Criticherà, invece, le spinte in avanti che nella bufera del post-concilio finivano per mettere tutto in discussione, compreso il Credo, rifacendosi allo spirito del Vaticano II ma senza più alcun ancoraggio ai suoi testi. 

Oggi, cinquant’anni dopo, nello scritto pubblicato da «L’Osservatore Romano», Benedetto XVI riconosce che il Concilio, proprio nel suo slancio di apertura al mondo, non fu in grado di chiarire bene ciò che era «essenziale e costitutivo dell’età moderna». E così scrivendo, il Papa muove un appunto alla costituzione conciliare «Gaudium et spes», ricordando che due temi chiave del rapporto con la modernità – la libertà religiosa e il dialogo tra le religioni – furono affrontati dal Concilio in due documenti «minori», le dichiarazioni «Dignitatis humanae» e «Nostra aetate». Anche a quest’ultimo testo, incentrato sul rapporto con gli ebrei e con le altre fedi il Papa teologo fa una velata critica, perché «esso parla della religione solo in modo positivo» e ne «ignora le forme malate e disturbate».

Affermazione più che comprensibile nella nostra epoca, di fronte al fenomeno del fondamentalismo. Il Vaticano II, insomma, risentì dell’ottimismo degli anni Sessanta. Ma fu un evento decisivo per svecchiare la Chiesa da incrostazioni e sovrastrutture, e rilanciare quell’evangelizzazione ritenuta da Ratzinger così drammaticamente urgente da fargli indire l’Anno della Fede che comincia oggi.

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