Il Cristianesimo si estinguerà quando l‘ultimo cristiano sarà stato ammazzato, come ad alcuni sembra di poter evincere dalla oscura profezia di San Malachia, o, meno drammaticamente, quando l’ultimo cristiano avrà perso per sempre la fede?
Quando l’ultimo Papa sarà stato passato per le armi e quando l’ultimo fedele avrà smesso di credere nel Vangelo di Gesù Cristo, qualcuno potrà scrivere la parola “fine” su questo slancio gigantesco dell’anima umana, che ha sostenuto milioni di persone nel corso di due millenni, che ha ispirato santi, artisti, filosofi, che ha dato un significato all’umile esistenza dei più emarginati e derelitti, e all’ombra del quale sono state perpetrate anche violenze e ingiustizie, sono stati commessi inganni e tradimenti?
Per tentar di rispondere a questa domanda, bisogna anzitutto separare il concetto di “Cristianesimo” da quello di “cristianità”, e, più ancora, da quello di “chiesa”: il Cristianesimo è la promessa che si esprime nel Vangelo, la cristianità è quella parte del genere umano che ha creduto e che crede a tale promessa; la Chiesa, poi, e specialmente la Chiesa cattolica, è un tentativo di organizzare quei credenti alla luce della promessa, animati dalla fede che, dove ci sono due o tre persone che si riuniscono in nome di Cristo, lì c’è anche Lui.
Se dovessero morire o abiurare tutti i credenti, finirebbe la cristianità, e ovviamente finirebbe anche la Chiesa, o almeno finirebbe la Chiesa visibile – perché, per i credenti, la Chiesa non è formata solo dai vivi, ma anche da quanti ci hanno preceduto, dai santi e dalle presenze angeliche; non finirebbe, però, il Cristianesimo. Così, se ci è lecito un paragone profano, si può dire che sia finita la manifestazione storica dell’arte bizantina o di quella gotica; ma l’arte bizantina e quella gotica, in se stesse, non sono finite, perché esisteranno finché ci saranno le loro opere, finché ci saranno persone in grado di vederle e di apprezzarle, finché sopravvivrà il loro ricordo.
Ma, si potrebbe chiedere, il Cristianesimo sopravvivrà solo come ricordo, come memoria di una cosa passata; come una delle tante manifestazioni della vita spirituale dei nostri antenati, come un grande sogno, una grande illusione, una lunga e inutile parentesi nella vicenda millenaria dei popoli e delle civiltà, nella marcia faticosa e, a volte incomprensibile, del progresso – ammesso e non concesso che esista quella cosa che fu chiamata “progresso” a partire dal XVIII secolo?
Questa è la domanda che, fra gli altri, si è posta lo scrittore cattolico inglese Graham Greene (1904-91), conosciuto e amato da un vasto pubblico per aver scritto romanzi come «Il treno d’Istanbul» (1932), «Una pistola in vendita» (1936), «Il potere e la gloria» (1940), «Il nocciolo della questione» (1948), «La fine dell’avventura» (1951), «Il nostro agente all’Avana» (1957), che hanno avuto svariate trasposizioni teatrali, cinematografiche e televisive (e, se possiamo dare un giudizio personale, il più bello di tutti è lo struggente, umanissimo «La fine dell’avventura», che ebbe anch’esso, in Italia, una notevole riduzione televisiva, nel 1969, per la regia di Gianfranco Bettetini e che fu interpretato da attori del calibro di Raoul Grassilli, Tino Carraro e Mila Vannucci).
Graham Greene si è posta quella domanda in uno scritto minore, in un abbozzo narrativi contenuto nei poco conosciuti «Saggi cattolici»; e se la è posta, ovviamente, da scrittore, ma anche da cattolico, cioè da uomo di fede che si interpella su una questione centrale del suo credere.
Vale la pena di riportare questa pagina quasi sconosciuta, specialmente al pubblico italiano, dello scrittore inglese (G. Greene, «Catholics Essaies», in: «I grandi utopisti», testi scelti a cura di Maurilio Adriani, EDIPEM, Novara, 1975, pp. 257-8):
«… C’è una storia che in altri tempi io ho avuto intenzione di scrivere, una creazione fantastica in forma di melodramma, che si situa in un avvenire remoto – poniamo due secoli – quando il mondo intero sarà governato da un partito unico, organizzato con una efficacia della quale ancor oggi non siamo in grado di renderci conto.
Il sipario si leva su di un alberguccio di infimo ordine, a New York o a Londra non ha molta importanza,.è sera tardi; un vecchio stanco, abbattuto, privo di qualsiasi elemento che lo distingua, con addosso un impermeabile logoro ed in mano una valigia tutta sconquassata, arriva al bureau dell’albergo e prende una camera. Dopo aver dato il suo nome, sale la scala con passo stanco (l’albergo è troppo povero per disporre di un ascensore) e scompare. Il detective incaricato della sorveglianza controlla il registro e dice all’impiegato:
- Lei ha visto chi è quell’uomo?
- No.
- È il Papa.
- E che cosa è, il Papa? -, chiede l’impiegato.
Il cattolicesimo è stato liquidato definitivamente, Unico superstite, il Papa, eletto trent’anni prima dall’ultimo conclave che si sia riunito (in segreto, credevano i suoi membri, ma in realtà sotto il controllo di una polizia ancora più segreta)e destinato a regnare su di una Chiesa che virtualmente ha già cessato di esistere. Dopo il conclave i cardinali hanno incontrato la sorte degli altri preti: un muro bianco ed un plotone d’esecuzione. Ma il Papa ha avuto l’autorizzazione a vivere. Egli riceve perfino una magra pensione dallo Stato poiché è utile in questo: che vale a illustrare fino a qual punto la Chiesa è morta, anche perché resta sempre la possibilità che un sopravissuto potrà tradirsi cercando di comunicare con lui. Ma di superstiti, non ce ne sono più. Roma è già un secolo che è stata ribattezzata.
Io descriverò quest’uomo da poco, questo Papa umile, vagante miserabilmente di qua e di là, senza uffici di sorta, animato dalla vaga speranza di poter un giorno, da qualche parte riposta, imbattersi in un segno rivelatore della sopravvivenza della fede e di non essere più oppresso dal terrore che quello che aveva insegnato come una cosa eterna possa forse morire con lui. Inutile appesantire il discorso con la narrazione dei suoi inutili vagabondaggi e dei suoi disinganni, tutti segnalati e catalogati al quartier generale della polizia mondiale. Ma alla fine il Capo si stancava di questo giuoco. Egli intendeva vedere la fine del suo uomo, e nonostante che non avesse che cinquant’anni, mentre il papa già da tempo da parecchio tempo aveva varcato la settantina, ai Capi capitano degli incidenti, e non voleva rinunciare ad occupare nella storia il posto dell’uomo il quale, il dito appoggiato sul grilletto di un revolver, aveva messo fine al mito cristiano.
Alla fine dunque di questa storia mai scritta, il papa era condotto da alcuni poliziotti fino alla stanza segreta del Capo, dalle pareti impenetrabili alle ai rumori come alle pallottole; e là, nel silenzio opaco il Capo, dopo aver offerto al papa una sigaretta, rifiutata, ed un bicchiere di vino, accettato, gli dichiarava che stava per morire, lì e immediatamente. L’ultimo cristiano, l’ultimo uomo al mondo che avesse ancora la fede. Il Capo dopo aver rimandato i detectives, prendeva un revolver nel tiretto del suo scrittoio. Concedeva al papa un istante per pregare – aveva letto in un libro che questo era un uso tradizionale – ma non prendeva cura di ascoltare la preghiera. Poi, lo uccideva con una palla alla sinistra del petto e si chinava sul corpo per dargli il colpo di grazia. In questo momento, tra l’attimo in cui il dito preme sul grilletto e quello in cui la testa salta, un pensiero trascorreva lo spirito del Capo: “sarebbe possibile che ciò che quest’uomo credeva fosse la verità?”. Un nuovo cristiano nasceva nel dolore.»
Non è poi una ipotesi puramente letteraria quella che la cristianità possa, un domani, perire di morte violenta. La sua lunga storia è costellata di persecuzioni, dal principio a oggi; e, anche se il grosso pubblico lo ignora, o quasi, le più tremende, le più spietate, le più sanguinose, sono proprio quelle che si sono scatenate contro di essa nel XX secolo: in Messico, in Unione Sovietica, in Spagna, in Cina, in Sudan, fino alle vicende odierne della Nigeria, dell’Egitto, dell’Iraq.
Ma non è meno verosimile che ad uccidere la cristianità potrà essere la perdita della fede: con l’avanzata strisciante del consumismo, del materialismo e dell’edonismo, fattori questi molto più sottili e pervasivi delle persecuzioni frontali, anche i cristiani, che sono – dopo tutto – dei fragili esseri umani, possono disorientarsi, sbandarsi e, alla fine, sparire.
Ma quando l’ultimo di essi sarà stato ucciso o avrà rinnegato la propria fede, anche il Cristianesimo sarà giunto alla fine? Graham Greene risponde: no, se anche uno solo dei persecutori, se anche uno solo dei testimoni della sua fine sarà stato attraversato, magari solo per un attimo, dalla sconvolgente domanda: «E se ciò in cui credeva quest’uomo fosse vero»? Che è, poi, la domanda che si fecero, combattuti fra la speranza e lo scetticismo, i primi testimoni del sepolcro vuoto, quel lontano mattino di Pasqua, a Gerusalemme: «È mai possibile una cosa del genere: che un morto sia uscito dal sepolcro, rovesciando la pietra tombale e spezzando i sigilli?»
Perché quella domanda, una volta che si sia intrufolata nell’anima di un essere umano, non lo lascerà più: non importa chi egli sia, chi sia stato fino a quel momento, in che cosa credesse fino ad allora e di quali colpe, di quali crimini possa essersi macchiato; perché, come dice San Paolo (che ne ha fatto l’esperienza personale), chiunque sia toccato dal dubbio della fede, rinasce a una nuova vita, non sarà mai più quello di prima, sarà un essere umano rinnovato dall’interno, con potenza sovrumana. Quel dubbio, infatti, quella scomoda domanda, quel fastidioso rovello, non viene dall’uomo, ma viene dall’alto: è il dono misterioso della Grazia; e chi lo riceve ne resta segnato, per quanto possa scrollare le spalle e fingere di non essere stato toccato, convincersi di aver avuto solo un attimo di umana debolezza.
Certo: il dubbio può essere respinto, messo a tacere, rimosso; ma tornerà: se non al livello della coscienza, al di sotto. Ci sono esperienze che si possono dimenticare; ce ne sono altre che rimangono per sempre, in qualche piega dell’anima, e non se ne andranno mai più. Saranno le nostre compagne silenziose per anni ed anni; e torneranno fuori dal buio, magari all’ultimo istante, quando ormai credevamo di averle scordate per sempre. Quel dubbio, quel rovello, quel pungolo nell’anima appartiene ad un tale genere di esperienze: quelle che restano, che restano per sempre, anche se noi non lo crediamo.
Certo, possiamo fare finta che non sia successo nulla. Possiamo razionalizzare quel dubbio, possiamo dirci che a tutti capita, per un attimo, di sognare che un desiderio possa avverarsi, quando è in gioco qualcosa di grande, di vitale; ma che poi si torna coi piedi per terra. Tutto finito, dunque? No: perché quel dubbio, per quanto fugace, non sarà sfuggito ad altri: magari a un bambino, magari a nostro figlio; magari a un amico, a un parente, a un vicino; magari a un collega, e, se no, forse ad un perfetto estraneo.
Noi ci crediamo i padroni della nostra vita, e non sappiamo, o non vogliamo vedere, che essa non procede a caso, per nostro esclusivo merito (o demerito); facciamo fatica ad accettare l’idea, dopo quattro secoli di malinteso razionalismo, che un disegno più grande, immenso, cosmico, abbraccia tanto la nostra vita, quanto quella del fiore di campo che domani sarà appassito al gelo autunnale, così come alla sterminata galassia che esisteva prima della Terra e continuerà ad esistere chissà per quali inconcepibili abissi del tempo.
E di questo disegno fa parte il dubbio della fede: il minuscolo granello di sabbia capace di inceppare la macchina efficiente e presuntuosa delle nostre certezze, di mettere in crisi il collaudato pilota automatico della nostra ragione strumentale e calcolante. Tutto sembrava ormai talmente chiaro, talmente semplice: nessun Dio, perché Dio è morto; nessuna vita dopo la morte, perché si tratta solo di una forma di alienazione; niente di niente, tranne questa vita che abbiamo qui, adesso, per puro caso, e che per puro caso potrebbe spegnersi anche domani, anche fra un istante, così, come si spegne una candela ad un soffio di vento. E invece…
E invece è arrivato quel dubbio, è penetrato in noi quel rovello, come un tafano fastidioso; e non se ne vuole andare. Quando ci sembra di essercene sbarazzati, ecco che improvvisamente ritorna: ritorna quando meno ce lo aspettiamo. E allora ci tocca mandarlo via di nuovo, e ancora e ancora, senza pace, continuamente, a intervalli irregolari. Infine, però, ci siamo: è sparito, se n’è andato del tutto. Possibile? Ma no: il solo fatto che ce lo stiamo domandando, significa che lui è ancora qui…
di Francesco Lamendola - 15/02/2013
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