ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 26 ottobre 2013

CIRCITERISMI E DINTORNI:

DIVORZIO E COMUNIONE

L’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della S. C. D. F., con un intervento sull’Osservatore Romano del 23 ottobre 2013, ha presentato le linee pastorali che un prossimo Sinodo straordinario, da tenersi nell’ottobre 2014, dovrà proporre, discutere e fissare sullo specifico tema della famiglia, con ovvia incursione nel tema del divorzio.
Il brano si compone di sei capitoli nei quali viene ribadita, con ampio dispiegamento di citazioni, l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, perenne dottrina della Chiesa, e dove viene, altresì, illustrato l’atteggiamento che la Gerarchia dovrà assumere nei confronti di quei fedeli divorziati che, risposandosi, si son messi automaticamente in stato di peccato grave tale da escludersi dal Sacramento della Comunione, e  dobbiamo dar atto che, in tutto l’excursus, l’arcivescovo niente concede, in punta di diritto e di principio, a possibili cedimenti o a concessioni  e tuttavia, come vedremo, l’autore si produce in sottili affermazioni di taglio pastorale tracimanti nel teologico che non stanno né in cielo né in terra e che denotano manomissione o ignoranza del dogma, funzionali, crediamo, al futuro traghettamento dalla sponda dell’indissolubilità a quella della dissolubilità.

Intanto, non si riesce a comprendere - ché nell’articolo si tace questa prospettiva -  in qual modo, e con quali strategìe, una “pastorale dell’accoglienza (!)” che tenga conto delle “diverse situazioni”, che inciti a “sollecita carità”, che metta in atto “speciale attenzione”, possa, al postutto e concretamente,  sanare situazioni di per sé insanabili se non col ripristino, da parte degli interessati, dello “status quo ante”, del precedente stato, cioè, di legittima unione. Non lo diciamo noi, ma è la voce dell’Apostolo che lo chiarisce quando afferma: 

Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito e, qualora si separi, rimanga  senza sposarsi o si riconcili col marito, e il marito non ripudi la moglie” (I Cor. 7, 10/11).

Non vogliamo entrare – Dio ce ne guardi – nelle coscienze altrui e, quindi, non oseremo giammai valutare, e men che meno giudicare, l’intimo e personale rapporto di un divorziato/risposato con il Signore. Ma, fatta salva la dottrina che l’arcivescovo Müller ribadisce –  quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi (Mt. 19, 6  - Mc. 10, 9 ) – non si capisce come detta “pastorale, fondata sulla verità e sull’amore troverà sempre e nuovamente in questo campo le strade da percorrere e le forme più giuste”.
Se la forma, non “più giusta”, ma semplicemente “giusta” in quanto l’unica, è la riconciliazione, quali sono le altre? Non basta, per guarire, versare sulle ferite l’olio – la misericordia - perché necessita anche il vino – la giustizia. Un ammalato grave non lo si aiuta col solo intervento consolatorio o con lo stargli accanto parlandogli, quando l’intervento chirurgico, che estirpa il male, è lo strumento necessario per la sua salute.

Nel capitolo sesto e ultimo si afferma che “la cura per i divorziati risposati non dovrebbe certamente (!) ridursi alla questione della recezione dell’eucaristìa(minuscolo!). Si tratta di una pastorale globale (?) che cerca di soddisfare il più possibile le esigenze (?) delle diverse situazioni. E’ importante ricordare, in proposito, che oltre alla comunione sacramentale ci sono altri modi per entrare in comunione con Dio”.
Per chi ha vissuto i tempi del post ’68, non sarà difficile ricordare come andasse di moda un’espressione, densa di propositi ma vuota di significato, quella con cui si  vagheggiava “un certo tipo di discorso” e che, quando se ne chiedeva di precisarne  “quale tipo” tutto rimaneva nel vago. Però era d’effetto, così come è d’effetto una “pastorale globale che cerca di soddisfare il più possibile le esigenze ”.
Il tono apodittico, poi, con cui l’arcivescovo ci dice che l’Eucaristìa non è il più importante modo – un modo(!) - per entrare in comunione con Dio, rasenta il ridicolo e sfocia nel dissacrante. Il prelato, con ciò, sembra intendere  che il divorziato/risposato, ratificata e consolidata la sua situazione come permanente, può accedere alla comunione col Signore per altre strade, per altre cure che non siano l’Eucaristìa, quasi che, in tal modo, tutto si sani.
Ma questa sua affermazione appare in tutta la sua gravità se solo ci si rammenti quanto Cristo affermava in proposito: 

“ In verità in verità vi dico: se non mangiate la Carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo Sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue ha la vita eterna ed Io lo resusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia Carne è vero cibo e il mio Sangue vera bevanda. Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue dimora in Me ed io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e Io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di Me vivrà per Me. Questo è il pane disceso da cielo, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno” ( Gv. 6, 53/58 ). 
Il Prefetto della S. C. D. F. dovrebbe farsi una ripassatina sui testi sacri e non strologare su quelli di Küng o di qualche altro benemerito apostata.
L’Eucaristìa, monsignore, non è “un modo per entrare in comunione con Dio”, ma è la Comunione stessa, e definirla, come lei la definisce, con pensiero riduttivo e minimalista, non fa onore al suo ufficio di “Defensor fidei”. E, poi: in qual modo, persistendo nel peccato grave ed evitandone la confessione col pentimento, è possibile entrare in comunione con Dio?

Ecco, allora, il luogo dove l’arcivescovo, dopo aver indicato la vera posizione della Chiesa, mostra le sue carte truccate. A chi non ricordi un nostro scritto –Ecumenismo a senso unico: commento a mons. Gerhard Ludwig Muller – pubblicato su questo sito nell’aprile 2013, diamo a leggere cosa pensi, il prelato, del Sacramento Eucaristico: “ In realtà, il Corpo e il Sangue di Cristo non significano i componenti materiali della presenza umana di Gesù durante la sua vita o nella sua corporalità trasfigurata. Qui, il Corpo e il Sangue di cristo significano presenza di Cristo nei segni e nei mezzi del pane e del vino” ( La Messa fonte della vita cristiana – St. Ulrich Verlag – Ausburg 2002 ).
Capito?  Ora, senza tanti balletti di parole, il benemerito catechismo di San Pio X afferma essere l‘Eucaristìa “ il Sacramento che  sotto le apparenze  del pane e del vino contiene realmente il Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo per nutrimento delle anime” ( 144 ).  Con ciò si comprende bene perché l’arcivescovo non ritenga importante e discriminante,  in tema di divorzio, l’esclusione dalla Comunione. E quando si pensano e si dicono tali cose, c’è da aspettarsi la mutazione evolutiva e antropologica del dogma.

Dicevamo: non ci riesce di capire come e quando uno stato di persistente peccato, redimibile soltanto, come sopra si diceva, col ritorno alla legittimità sacramentale, possa assicurare quiete e serenità  in virtù di una fraterna accoglienza o di una presenza caratterizzata da “empatia” ed è, poi, inquietante che l’arcivescovo affermi non essere la recezione dell’Eucaristìa la questione principale. Ci spieghi, allora, che cosa voglia significare il termine “scomunica” – vocabolo ostracizzato dal dizionario cattolico - se non l’esser fuori dalla Comunione sacramentale.
A noi sembra che siffatta pastorale, sorretta da ragionamenti accattivanti e mielosi, altro non sia che pannicello d’acqua calda su una gamba di legno. Eh sì, perché si può girare e circumvolare quanto si vuole ma, al di là di accoglienza, carità, attenzione, empatia resta che il divorziato/risposato vive nello stato di peccato grave – uno stato che gli vieta, infatti, l’accesso all’Eucaristìa –  che, fintanto durerà, non porterà frutto ad onta di una “pastorale globale” . La frequenza, ad esempio, di una coppia irregolare alla Santa Messa – pratica certamente da consigliare - produce risultati solo e quando in essa maturerà la reciproca convinzione di interrompere l’unione adulterina tornando alla primitiva legittima. Ma non ci nascondiamo che, in taluni casi, le difficoltà sarebbero insormontabili.
Proviamo a stilare una casistica delle situazioni anomale onde renderci conto se, tra esse, si possa coglierne alcuna che, educata e consolata dalla pastorale di cui parla l’arcivescovo, si ponga come  sanabile e regolare:
a – coppia senza figli;
b – coppia con soli figli di lui;
c – coppia con soli figli di lei;
d – coppia con figli di lui e di lei;
e – coppia con precedenti matrimonii falliti.
 
Il lettore noterà che per  il caso a la difficoltà a ricucire il precedente matrimonio è meno ostante che per le altre ma anche per questo, come per il caso e, la soluzione sola ed esclusiva sta, per il momento, nel ritorno alle origini. La pastorale descritta da Müller, che sarà probabilmente quella che adotterà il futuro sinodo del 2014, al di là di mozioni d’affetto, di propositi caritatevoli, non risolve alcunché. La Chiesa può solo intervenire con la preghiera, unico strumento con cui è possibile chiedere al Signore di operare secondo la sua misericordia e la sua giustizia.
Come appare evidente, l’argomento non concede scappatoie o soluzioni altre.
 
Ora, se la dottrina dell’indissolubilità viene, dall’arcivescovo, ribadita in premessa, ci dite, cari lettori che significa, perciò, quel panegirico che papa Bergoglio, nella famosa intervista a Civiltà Cattolica, ha tessuto in onore di quella signora che “ ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito” e che poi “questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli” nonostante che “l’aborto le pesi enormemente e ne sia sinceramente pentita”?
Detto che siffatto esempio sia quanto meno incongruo e lacerante, vi sembra naturale e logico che il peso avvertito di un crimine possa generare serenità? Non vi pare che lo stato di adulterio comunque permanga, e non vi pare perciò, di assistere a due parti d’una classica commedia dove ciò che uno afferma l’altro smentisce o, quanto meno, attenua?
Noi abbiamo la sincerità di affermare che tutto questo circiterismo – come lo chiamava il grande Romano Amerio – questo basarsi sul “circa”, questo dire e non dire, questa altalena di si/mano/perògià/tuttavia, tipico di chi non ha le idee chiare o, se le possiede, teme di manifestarle, preluda ad una tattica e graduale apertura che porterà, e i tempi sono propizii, alla cassazione del veto di Cristo in nome della Sua stessa misericordia, spalancando l’accesso al  sacramento  anche ai fedeli divorziati/risposati.
Quell’accenno dell’arcivescovo a “ ben discernere le diverse situazioni” sarebbe ovvio se egli avesse fatto riferimento a questioni di legittimità quali si evidenziano nelle cause dibattute dalla Sacra Rota. Qui, invece, sembra che, sottilmente, si prefiguri un tempo in cui l’intera matassa sarà dipanata, a favore d’una soluzione di taglio antropologico, che vedrà la coppia irregolare accedere ai sacramenti grazie a qualche costituzione apostolica o a qualche motu proprio, motivati dalla necessità di “aprirsi ai tempi”, di andare incontro all’uomo.
Avremmo capito se, in questa sua panoramica, l’arcivescovo avesse parlato del ruolo del confessore, quel ruolo che papa Bergoglio, nel concludere la sua riflessione sulla donna già abortista e divorziata ma finalmente serena, aveva indicato col domandarsi: “Che cosa fa il confessore?” senza darne risposta. E’ questa la pastorale che la Chiesa ha sempre adottato: il confessionale, il sacro luogo deputato alla soluzione dei problemi spirituali ed esistenziali, ma oggi, in tempi di dialoghi collettivi, in tempi d’incontro e di cammino d’insieme, in tempi poco consoni al proselitismo, definito “sciocchezza”, sarà consigliata la psicoterapia di gruppo o qualche pratica orientale di  meditazione. Come in effetti qualche vescovo di già promuove.

Rammentiamo  la questione del celibato sacerdotale e la rimozione di esso operata dall’emerito papa  Benedetto XVI cardinal Ratzinger, quando, con la costituzione “Anglicanorum Coetibus” permise a taluni vescovi anglicani di tornare, quali semplici preti, in seno alla Katholika, mantenendo lo status familiare, privilegio concesso quale omaggio “alle venerande tradizioni dell’anglicanesimo”.
Noi commentammo, sempre nello scritto dell’aprile 2013 – www.unavox.it – ricordando quali fossero state queste venerande benemerenze: l’eccidio di oltre 70 mila cattolici – inglesi, scozzesi, irlandesi – immolati dal 1584 al 1679 dalla monarchia inglese anglicana, e la fondazione della massoneria. Ratzinger ha aperto una breccia in cui si sono infilate le centinaia di “parroci disobbedienti” e di suore moderniste il cui programma prevede, appunto, il diritto al matrimonio. Una canea che papa Bergoglio, atteso e preso a Lampedusa, a Scalfari, alle telefonate private, alle interviste a Civiltà Cattolica, non vede e non sente. Così come non vede, non sa  e non s’accorge dei tanti parroci e sacerdoti che non solo  dispensano la comunione a coppie di pubblico concubinaggio ma consigliano quelle, che ancor provano disagio, a recarsi presso altre chiese ove, non conosciute, potranno riceverla. Una gherminella per niente furba e del tutto sacrilega che, tra l’altro, tenta di far passare per fesso il Signore.

Fummo testimonii, tempo fa, del caso di una signora che, deceduto il primo marito da cui èrasi separata da anni per andare a convivere con altro uomo, alla sua richiesta di volersi confessare per il pregresso stato di peccato grave, si sentì rispondere dal pastore: “ il tuo parroco ti conosce, lascia stare perché Iddio ti ha perdonata!”. Con buona pace del sacramento della Penitenza. D’altra parte, perché meravigliarci se, da decenni, non si predica più sull’argomento, non si pone l’accento solenne e grave sull’adulterio, non si diffidano i concubini dall’accostarsi alla Santa Comunione? Questo silenzio, mutuando un luogo burocratico, ha dato origine all’assenso o, quanto meno, a un lasciar fare, tutto puntando sulla propria coscienza così  come ci riferì un nostro conoscente, divorziato e risposato, il quale riteneva che nulla gli vietasse la partecipazione all’Eucaristìa perché intanto si sentiva, egli, nella vicenda divorzile, parte lesa e poi, dava seguito al consiglio di un sacerdote che lo aveva esortato ad esaudire il suo  desiderio.
Ora, se proviamo a mettere insieme tutti questi elementi, non ci sarà difficile preconizzare una liberatoria generale all’insegna del quesito bergogliano: “Chi sono io per giudicare un divorziato/risposato?”.




    

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