Il Santo Padre di Bergoglio
La canonizzazione che serve anche a spiegare il Papa gesuita. Casto, colpito dalla stessa ansia di Lutero, ebbe il genio dell’interiorità di fede. San Pietro Favre
Francesco il 17 dicembre compiva il suo settantasettesimo e ha fatto santo il primo compagno di Ignazio di Loyola, Pietro Favre (1506-1546), il miglior regalo che potesse offrirsi. Sulle orme di Pio IX, che aveva beatificato Favre nel mezzo del suo apostolato di infallibilità e critica del moderno, il Papa “modernista”, ma del XVI secolo, ha canonizzato un uomo stupendo e straordinariamente ambivalente anche allo scopo di chiarire bene il proprio apostolato. Il 1° ottobre aveva dato una intervista a Eugenio Scalfari, ora virtualmente archiviata dalla memoria della chiesa (oscurata dal sito vaticano, padre Lombardi non l’ha citata tra le altre interviste, quella sull’aereo di ritorno dal Brasile e quella al direttore di Civiltà Cattolica, rilasciate dal Pontefice regnante: ma forse ci saranno sorprese, perché Scalfari continua a fingere curiosità teologiche in ordine alla sua salvezza, dubbia ma non impossibile a mio sovrano giudizio, piagnucolando per nuove puntate di letteratura laico-devota).
Undici giorni prima, il 19 settembre, il direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro S.I., aveva pubblicato “la” conversazione che fa testo: lì c’era Favre, l’ispiratore dolce dolce, un particolare che sfuggì all’entusiasmo volterriano con cui poi il direttore di Repubblica trascriverà a suo modo le parole di chi “fa entrare la chiesa nella modernità”, e quanto moderno fu in effetti il Cinquecento, ecco, il laico-devoto in cerca del perdono cristiano top level non poteva nemmeno immaginarlo.
Avevo già scritto che il Papa è un gesuita del Cinquecento. Non è come dicono argentino, populista, peronista, solidarista, “buonista”, modernista, criptovolterriano o della specie eccelsa ma pericolosa dei Pedro Arrupe (teologia della liberazione eccetera). Arrupe, il tragico e notevolissimo preposito generale della Compagnia che negli anni Settanta litigò fino alle lacrime e alla contrizione con Paolo VI sul quarto voto di obbedienza da estendere ai non professi, tanto da far dire al Papa apertamente sfidato che i gesuiti contemporanei dovevano guardarsi dal relativismo, che gli davano un dolore cocente e molto altro.
(Solo i Reverendi Padri possono disobbedire al capo della chiesa sulla necessità per tutti loro di votarsi alla sua obbedienza, e poi farsi eleggere al posto di colui al quale devono obbedienza con uno dei loro, il padre Bergoglio, che obbedisce a sé stesso: la Compagnia ha il divino paradosso incorporato, e sa praticare la contraddizione con slancio spirituale e pragmatismo morale indiscussi, come aveva capito Pascal nel capolavoro immortale delle sue “Lettere a un provinciale” sulle dispute tra gesuiti e rigoristi alla Sorbona).
(Solo i Reverendi Padri possono disobbedire al capo della chiesa sulla necessità per tutti loro di votarsi alla sua obbedienza, e poi farsi eleggere al posto di colui al quale devono obbedienza con uno dei loro, il padre Bergoglio, che obbedisce a sé stesso: la Compagnia ha il divino paradosso incorporato, e sa praticare la contraddizione con slancio spirituale e pragmatismo morale indiscussi, come aveva capito Pascal nel capolavoro immortale delle sue “Lettere a un provinciale” sulle dispute tra gesuiti e rigoristi alla Sorbona).
Serve ad altro, oltre alla ripopolazione eccelsa del paradiso dei santi con le sue mirabili litanie, la rapida estensione su scala universale del culto di Favre, fino a ieri riservato alla Compagnia in forme discrete e alla forte devozione locale dei savoiardi, che si tramandano nei secoli le virtù eroiche del loro figlio eletto di Villaret, la cui cappella votiva fu rasa al suolo da orde infuriate di forconi giacobini intrisi di miti sulla libertà di coscienza e di pulsioni ferocemente anticristiane, gli zii di Eugenio. La canonizzazione del compagno di stanza a Parigi di Ignazio e Francesco Saverio, che fu introverso e mistico epperò affabile evangelizzatore pellegrino d’Europa, dalla irrequieta Roma di Paolo III a Parma, alla Germania sopra tutto, e alla Spagna e al Portogallo, è sic et simpliciter l’autocomprensione e manifestazione dell’anima di un papato. Se lo volete capire come esso si comprende, che è sempre la buona regola ermeneutica per tutto ciò che c’è da conoscere e perfino da “sentire”, da Favre dovete passare.
Dovete fare come me. Se siete a New York andate alla New York Public Library e procuratevi il volume sul nuovo santo dei Monumenta Historica Societatis Iesu, ma fate in fretta perché è un librone che ha cent’anni e si sta scompaginando. Lì le lettere di lui rifulgono in molte lingue, specie lo spagnolo e il latino. Già che ci siete, prendetevi un’antologia in tedesco di Peter Henrici, vi aiuterà con le difficoltà translinguistiche, e date uno sguardo alla bella introduzione del curatore. Poi ordinate un gran libro, magnifico proprio: il Memoriale, che ai tempi era noto come le Confessioni di Favre, e un saggio critico eccellente di Michel de Certeau S.I., studioso di mistica, una specie di Foucault o di Lacan dei gesuiti che ebbe un forte e drammatico rapporto con la Compagnia, seppe dissodare la postmodernità, la psicoanalisi, la semiologia politica e la spiritualità contemporanee (forse andando troppo in profondità, ché la superficie è sempre il cuore delle cose). Infine leggete la Civiltà Cattolica, strumento decisivo di comprensione del mondo e della lingua italiana, e il libro celebrativo della canonizzazione, appena dato alle stampe in contemporanea al nuovo santo fatto, una silloge di saggi sul “servitore della consolazione” a cura di Antonio Spadaro S.I., uno dei Reverendi Padri che non perde tempo nonostante la sua applicazione cyberologica che rasenta la divina mania. (Direte: ma non siamo pagati per questo, vero, ma nemmeno io, che sono pagato per parlare di Renzi e Berlusconi, però senza fare un po’ di straordinari si finisce come Scalfari e certi pm del pensiero debole, nella dotta ignoranza delle cose essenziali).
La misericordina è una offa da oratorio che fa della tragedia dolce del perdono un’abitudine. La tenerezza sa di falso in bocca a uno stile politico autorevole e autoritario com’è quello del gesuita Francesco. Il cuore, l’organo più difficile da tenere in mano secondo Giorgio Manganelli (se ricordo bene), è da anni qui da noi sotto processo in vari modi e forme, anche le più dirette, et pour cause. Grida infine risarcimento se non vendetta l’oblio della ragione laica e dei suoi criteri non negoziabili di giudizio, che fu chiave di volta del papato politico di Montini, della crociata di Giovanni Paolo II, imminente santo anch’egli, della straordinaria esperienza ratzingeriana fra tre pontificati (quello del predecessore, il suo e quello del successore). Eppure questo vicario di Cristo che ha voluto vestire panni tutti suoi, bianchissimi, e non piace a molti miei amici, non solo i tradizionalisti di fede inconcussa che onorano il battesimo con la loro obbediente rivolta liturgica, a me in qualche senso e stranamente non dispiace affatto, a parte la simpatia umana forte che mi ispira. Non solo perché ha la Ford Focus come me. Non solo perché porta scarpe simili alle mie Mephisto semiortopediche. Non solo perché ha rimesso la chiesa in una posizione d’attacco e minaccia di deludere con qualche sorpresa cattolica i suoi poco accorti sostenitori di parte giacubbina. Non solo perché è un gran fico allegro che sa abbracciare i lebbrosi e tifare il San Lorenzo come nessuno. Non mi dispiace sopra tutto perché ho fatto quelle letture che vi consiglio. E ho scoperto forse qualcosa che valeva la pena di dissotterrare dalle profondità della dissimulazione e della cura amorevole e feroce della cultura immensa dei gesuiti, l’unica lobby alla quale vorrei disperatamente appartenere (ma non è un po’ tardi?).
Favre, dunque. Chi era costui? E’ vissuto quarant’anni, come avete visto all’inizio dalle date di nascita e di morte. Nel tempo della chiesa intimamente segnata da una diffusa corruttela dei costumi, fino al suo vertice indulgente, e dalla rivolta teologica e dogmatica di luterani e calvinisti. Fu il primo prete ordinato della Compagnia di Gesù, annunciata nell’agosto 1534 a Montmartre da sette compagni di scuola del collegio di Santa Barbara più Ignazio, costituita formalmente il 27 settembre 1540 dalla bolla Regimini militantis ecclesiae di Paolo III. Ha girato a piedi fasciati e in ogni clima tutta l’Europa occidentale continentale, fermandosi spesso in Germania, in quelle città come Colonia, Magonza, Spira e altre che sono rimaste cattoliche, si dice, anche e sopra tutto grazie alle sue virtuose prediche e alla sua intima capacità di dare gli Esercizi spirituali al clero, ai potenti e agli umili, con formidabile effetti di conversione, cioè di vita (in questo a sentire Ignazio era indiscutibilmente il migliore). Ma si tratta qui, fino alla morte in Roma alla vigilia di un viaggio per Trento, come legato teologico della Compagnia e del Papa al fatale Concilio della riforma o controriforma cattolica, solo di un grande e spericolato e intenso curriculum di santità, paragonabile sebbene meno esotico alle missioni oltre la linea d’acqua dell’oriente indiano e cinese dei gesuiti di allora e di poi. San Pietro Favre tra l’altro portò alla Compagnia la conversione di Francesco Borgia, il secondo successore di Ignazio come preposito generale, del quale un orgoglioso ritratto campeggia insieme a quello del fondatore nell’aula magna della Gregoriana.
(Come mai c’è lui e non Laínez o Acquaviva, altri successori di grido del guerriero zoppicante che diede origine al tutto?, domandai ingenuamente a un padre come sempre spregiudicato e spiritoso. Perché il Borgia lasciò alla Compagnia un lascito spirituale ingente, e un altro lascito di famiglia piuttosto possidente, che fu altrettanto benvenuto, questa la risposta affabilmente gesuitica di un seguace del Papa che sta “sciogliendo” lo Ior).
(Come mai c’è lui e non Laínez o Acquaviva, altri successori di grido del guerriero zoppicante che diede origine al tutto?, domandai ingenuamente a un padre come sempre spregiudicato e spiritoso. Perché il Borgia lasciò alla Compagnia un lascito spirituale ingente, e un altro lascito di famiglia piuttosto possidente, che fu altrettanto benvenuto, questa la risposta affabilmente gesuitica di un seguace del Papa che sta “sciogliendo” lo Ior).
Solo un curriculum, dicevamo, per quanto paradisiaco e in speciale odore di santità.Segno comunque che il Papa venuto dalla fine del mondo qualche interesse all’origine del mondo cristiano, al territorio governato dalla Roma di Pietro e Paolo, deve pur averlo nel suo cuore e nella sua testa. Forse la nostra è la villa miseria più miseria di tutte. Ma diciamo solo un curriculum per introdurvi alla questione vera, che è quella della personalità di Favre, della sua caratura spirituale e mistica, della specialissima qualità della sua memoria e concentrazione liturgica e apostolica (lottava contro la “distrazione” quando diceva messa, e la distrazione poteva essere tutto quello che non conduceva, sebbene santo, alla lode e alla adorazione di Dio in sé stesso e alla proiezione di sé stesso, della interiorità senziente, in Dio).
Tutto nasce, come sempre nelle grandi storie di santità e di chiesa, e nelle temperie mistiche di ogni tempo, dallo “spirito fornicatorio”, che Favre sente come un pericolo, una tentazione di cui liberarsi, come racconta nelle sue memorie insigni e soavi (un particolare chissà perché trascurato nella parte agiografica dei ricordi di lui scritti dai gesuiti, ma non dal De Certeau, un Reverendo Padre meno istituzionale, giunto ad abbandonare la vita di comunità senza mai rompere però un legame culturale e spirituale profondo con i suoi fratelli, che gli resero omaggio nel 1986 con esequie sublimi in cui gli spadini dei compagni si associarono alla crème della rive gauche intellettuale). A dodici anni, infatti, pastorello e figlio di contadini ferventi cattolici della Savoia, san Pierre Favre fece voto di castità in un campo aperto sotto il vasto cielo. Si tenne al proposito, volle studiare, studiò, si innamorò e fece innamorare di sé i suoi compagni, si fece ordinare prete dotto e infine, come abbiamo visto, gesuita e pellegrino d’Europa alla ricerca di una risposta interiore e definitiva alla sconvolgente rivoluzione dogmatica o riforma che incantava o inveleniva i cuori infranti di un pezzo della cattolicità nordeuropea. Ma ho detto “interiore e definitiva”? Ci sarà una ragione.
Eccola. Favre aveva una personalità da “dramma del chiostro”, il famoso sentirsi peccatore irredimibile se non sola fide vissuto dal monaco agostiniano che nel 1517 affisse le famose tesi sul portale della cattedrale di Wittenberg. Alla radice del più straordinario genio religioso della modernità stava quella che il cretino cognitivo d’oggi chiamerebbe una radicale e severa crisi di scarsa autostima: io peccatore originale elaboro la teologia della croce, nel dolore della mia interiorità individuale impermeabile al riscatto esterno delle opere, e non posso condividere la teologia della gloria del papato eterno e del suo meretricio, con tutto l’apparato sacramentale che prescinde largamente dalla scrittura sacra, dalla sua assimilazione personale profonda in un libero stile comunitario, e fa del vangelo e di quel che lo precede un pretesto per la mediazione ecclesiale indulgente ed effimera ai fini della salvezza.
Favre era spesso sopraffatto dall’angustia e dall’ansia, alternava euforia e depressione, si aggrappava a Dio e al Figlio e allo Spirito Santo senza trovarli né come memoria né come intelligenza né come volontà. La sua formazione filosofica fu occamista fin dagli studi che diremmo delle scuole medie superiori. Occamista e umanista. In sostanza, e il discorso potrebbe essere troppo lungo, il Dio occamista e umanista (e secolare d’oggi) può essere creduto, ma non dimostrato come faceva san Tommaso, il dottore angelico. Contano la fede come prodotto della volontà, dell’affectus, del cuore che è il centro unificante di tutto, non la ragione intellettuale o i sensi, roba che inganna e motiva perfino un quid di scetticismo dal francescano Occam all’illuminista Kant, ragione non consolatoria e conoscitrice, né di per sé né come “ancella della fede” (definizione del tomismo delle origini, e se per questo anche agostinianesimo riletto da Ratzinger, naturalmente per noi bambini).
Favre trovò il suo cuore in mezzo alla tempesta della Riforma che fu il corrispettivo cinquecentesco della secolarizzazione scristianizzante d’oggi. Il maltempo funesto si faceva sentire con la battente pioggia retorica e filologica degli erasmiani e il tifone falcidiante e rivoltoso dei luterani e dei calvinisti; senza quei venti, e quella sua mistica percezione di un credo che è nella chiesa ma non della chiesa, non avrebbe sentito quel che ha sentito nelle sue immense devozioni, nelle sue mozioni dell’anima, raccontate in celeste maniera controriformista nel memoriale, una sorta di affresco in prosa del Beato Angelico. E’ un casto Lutero gesuita che risponde per le rime della dolcezza, del dialogo e della conversione ecclesiale del cuore al Lutero che si sposa e che con la carne abbraccia il grande concubinato della modernità. Risponde con il ritorno al cuore, con la riforma spirituale di una sacramentalità interiorizzata, in un dialogo con i protestanti, diciamo dialogo ma era cosa seria, non chiacchiera ma spirito di conversione se non proselitismo, che fu possibile solo perché Favre ne comprendeva le ragioni secondo la loro stessa autocomprensione. Erano un po’ anche le sue ragioni.
Così si comporta anche chi lo fa santo: il secolarismo, febbre della chiesa cattolica assediata dall’esterno e dall’interno, si può combattere controriformisticamente e gesuiticamente solo riformando l’interiorità credente del clero, dei fedeli cattolici, e il resto verrà se Dio lo vorrà e quando lo vorrà. La casistica del peccato moderno, e qui c’è del Seicento alla père Petau nel Cinquecento del Pontefice regnante, è vasta e problematica, contraddittoria e sfuggente, ma la grazia va aiutata con una curatela attenta, spiritualmente prudente, intrisa di ascetismo e di mistica, con tutte le dovute distinzioni. E diffusa di sapienza politica, secondo la lezione secolare di quel distaccamento statuale e politico che è la Compagnia.
Eccovi confusamente squadernato il santo di Bergoglio gesuita: la misericordia come metodo, la tolleranza relativista (chi sono io per giudicare?), il dialogo controidentitario, la devozione al povero che è in Cristo e al Cristo che è nel povero, e sopra tutto la volontà di credere che fa discosto e rarefatto, e che alla fine opacizza e nasconde il fuoco del conoscere, la diatriba dottrinale, la fissazione di un canone assoluto: un impasto volontarista e soggettivista modernissimo, dissimulato nello spirito di conquista degli ignaziani, che sia pure con un posto speciale degli affetti, al conoscere non hanno mai rinunciato.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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