Al diavolo la disoccupazione
Dalla Bibbia alla moderna apostasia del rifiuto del lavoro. Perché sudarsi il pane rende liberi (e pure santi)
All’inizio del racconto della Genesi troviamo Dio onnipotente che sta “lavorando”. Certamente, visto che il prologo del Vangelo di Giovanni ci dice che questo lavoro era svolto dal Lógos, ovvero da Gesù Cristo, il figlio di Dio incarnato, sta anche faticando e sudando, se si ha l’avvertenza di interpretare questi passi non solo in senso fisico, ma anche simbolico-metafisico. A quanto si capisce, dunque, il Dio della Bibbia fatica e suda, ovvero agisce, volentieri, se alla fine di ogni prodotto del suo “lavorare” (la luce, il firmamento, le acque, la terra, la vegetazione, il sole e le stelle, gli animali) si compiace con se stesso per aver agito bene (“vide che era cosa buona”, Gn 1, 10, 12, 18, 27). Compiacimento che, quando giunse alla creazione dell’uomo, divenne addirittura maggiore: vide, infatti, che “era cosa molto buona” (Gn 1, 31).
Aveva agito, insomma, creandoci, non solo bene ma “molto bene”. Se questo è il “lavoro di Dio”, e l’uomo è suo selem e demut, significa, dunque, che anche il “lavoro dell’uomo” non dovrebbe, nella sua natura originaria e, quindi, anche nel suo scopo finale, essere molto diverso da quello del suo creatore. Lavorando, anche lui fatica e suda, ma alle stesse condizioni del Dio biblico: con la fatica e il sudore segni visibili del compiacimento della manifestazione della propria intenzionalità, della propria libertà e del proprio amore, realizzati nell’opera. Non a caso, “Dio ha creato l’uomo” non perché riposasse, quasi che il riposo fosse meglio del lavoro, ma proprio “perché lavorasse”: infatti, “il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). Prima del peccato originale e delle sue conseguenze, dunque, il lavoro umano, e a quei tempi, quando fu scritta la Genesi, non poteva certo pensarsi solo intellettuale, ma sempre e insieme anche manuale, è cosa “molto buona” (Gn 1,31). Proprio perché connaturato all’uomo, a immagine e somiglianza del suo creatore.
Aveva agito, insomma, creandoci, non solo bene ma “molto bene”. Se questo è il “lavoro di Dio”, e l’uomo è suo selem e demut, significa, dunque, che anche il “lavoro dell’uomo” non dovrebbe, nella sua natura originaria e, quindi, anche nel suo scopo finale, essere molto diverso da quello del suo creatore. Lavorando, anche lui fatica e suda, ma alle stesse condizioni del Dio biblico: con la fatica e il sudore segni visibili del compiacimento della manifestazione della propria intenzionalità, della propria libertà e del proprio amore, realizzati nell’opera. Non a caso, “Dio ha creato l’uomo” non perché riposasse, quasi che il riposo fosse meglio del lavoro, ma proprio “perché lavorasse”: infatti, “il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). Prima del peccato originale e delle sue conseguenze, dunque, il lavoro umano, e a quei tempi, quando fu scritta la Genesi, non poteva certo pensarsi solo intellettuale, ma sempre e insieme anche manuale, è cosa “molto buona” (Gn 1,31). Proprio perché connaturato all’uomo, a immagine e somiglianza del suo creatore.
In quanto connaturato all’uomo, però, resta cosa “molto buona” anche dopo il peccato originale, quando il lavoro è accompagnato dalla fatica e dal sudore fisico non più immediatamente e sempre segni certi e visibili del compiacimento metafisico della propria intenzionalità, della propria libertà e del proprio amore realizzati in un’opera. Nonostante questo intermittente “oscuramento” determinato dalla caduta, infatti, Giacobbe può proclamare che “Dio ha guardato il lavoro delle mie mani” (Gn 31,42). I tessalonicesi erano convinti dell’imminente parousía. Si erano abbandonati a forme apocalittiche e quasi isteriche di misticismo religioso. Molti, per questo, aspettando la fine del mondo, non “coltivavano e custodivano” più l’Eden: non lavoravano. Paolo è durissimo. Li staffila con la famosa invettiva: “Sentiamo che alcuni fra voi vivono un’esistenza disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità” (3, 11-12). Non a caso, nella stessa lettera, Paolo, che, come tutti rabbini ebraici, si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, tessendo tende, aveva poco prima evocato l’Anticristo, il “Figlio della perdizione” che conduce all’apostasia. I moderni “intellettuali” (teologi o filosofi o altro) che scansano il lavoro e reputano il sudore e la fatica del corpo come qualcosa che abbrutisce e non può elevare lo spirito? Che non sono più convinti che il lavoro sia “un bene per l’uomo” e per la sua “umanità”, perché “mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo e anzi diventa più uomo”? Ma “Il Signore Gesù annienterà il Maligno col soffio della sua bocca” (2,8). Il Maligno, insomma, come persona che non “lavora”, non usa allo stesso tempo mente, cuore e mani per dimostrarsi auctor di opere tramite azioni libere e responsabili. Che non imita, quindi, come dovrebbe fare l’uomo cristiano, il Dio che “opera sempre” (Gv 5, 17).
L’esaltazione dell’operosità nella storia E difatti, a partire dal racconto biblico e poi dal cristianesimo, nella storia dell’occidente, una lunga filiera di protagonisti e di esperienze che esaltano il valore del lavoro e che connettono di per se stesso anche il sudare e il faticare con quanto di più spirituale qualifichi e possa essere raggiunto dall’uomo. Sant’Agostino dedica un libro a “Il lavoro dei monaci”, avvertendo tutti coloro che intendono dedicarsi alla preghiera a non pensare di diventare, per questo, “sfaticati e schizzinosi”; San Benedetto, nella sua Regola, non parla della scuola, ma dedica invece un apposito capitolo al lavoro, perché i suoi monaci sono “veramente monaci, quando vivono del lavoro delle proprie mani, come fecero i nostri padri e gli apostoli”; e poi san Teodoro Studita e la sua philergia (amore del lavoro) come segno di santità; san Francesco e i francescani, con il credito che inventano al servizio del lavoro umano; san Bernardino da Siena, con la sua proposta del lavoro inteso come vita activa civilis; su su fino a san Giovanni Bosco che sapeva bene quanto i suoi giovani sbandati e ritenuti scolasticamente perduti avessero invece una grandissima intelligenza nelle mani da far esplodere non appena fossero stati posti nella situazione adatta a dimostrarla. E’ comprensibile, in questo contesto di sensibilità culturali, che anche filosofi come Tommaso d’Aquino abbiano celebrato le mani come organa organorum; che Giordano Bruno abbia sostenuto che l’uomo può “serbarsi dio de la terra” per l’intelletto, certo, ma non meno per il lavoro delle sue mani; che Locke, e con lui, appena dopo, Rousseau, abbiano identificato il proprium ontologico intangibile e inalienabile dell’uomo non solo nella sua libertà, ma anche nel “lavoro del suo corpo” e nell’“opera delle sue mani”, per cui tutto ciò che è frutto di lavoro è in realtà suo, di se stesso, e non lo può cedere nel contratto sociale, e nessuno glielo può togliere, nemmeno il sovrano; che Kant non abbia temuto di definire la mano che lavora “il cervello esterno dell’uomo”; e che, secondo la Weil, sia “facile definire il posto che deve occupare il lavoro fisico in una vita sociale bene ordinata: deve esserne il centro spirituale” . Senza pensare poi alle straordinarie esperienze storiche di unità tra teoria, tecnica e pratica, tra corpo e spirito, tra studio e lavoro condotte negli apprendistati che si svolgevano nelle botteghe medievali e rinascimentali e nel mondo moderno. Vengono subito in mente l’officina del Verrocchio con i suoi “apprendisti” (da Vinci, Botticelli, Perugino, Domenico Ghirlandaio, Francesco Botticini, Francesco di Simone Ferrucci); le vicende del giovane Claude Garamond e del suo “mastro” Antoine Augereau che, da Parigi, scendono in Italia per imparare nelle officine grafiche di Aldo Manuzio e di Francesco Grifo. (…) Non di meno vengono alla mente gli sconosciuti ma decisivi lavoratori dell’occidente cristiano che, con la loro creativa intelligenza tecnico-pratico-manuale, hanno perfezionato incrementalmente le modalità tecniche e organizzative di produzione, dimostratesi fattori decisivi per l’esplosione della prima e della seconda rivoluzione industriale, nonché della prima e della seconda rivoluzione post industriale che hanno conquistato il mondo. Non dovrebbe sorprendere, perciò, che “gli imprenditori”, intesi in senso etimologico come coloro che “intraprendono”, che “lavorano attivamente” di testa e di mani nel mondo, per trasformarlo, non certo i “pescecani” dell’annosa polemica anticapitalistica novecentesca, “anche se molti non sono religiosi in senso formale”, emergano, nell’occidente, da una cultura informata a valori religiosi.
L’ottimismo e la fiducia, l’impegno e la fede, la disciplina e l’altruismo, che le loro vite esemplificano e il loro lavoro richiede, possono trovar alimento solo da un ordine morale, con fondamenti religiosi… Una società che si ispira a un morboso materialismo sopprimerà lo spirito dell’impresa che sorregge la creazione della ricchezza materiale. Una società intinta di edonismo laico susciterà commerci sordidi ostili allo spirito della creazione e alla disciplina del lavoro. Una cultura di cinismo ed egoismo distruggerà la fiducia, eroderà la fede e negherà il sacrificio su cui si fondano i progressi umani. Sugli imprenditori ricade la pesante responsabilità della qualità dei beni che creano. Ma la cultura religiosa in ultima istanza attiva l’ordine morale entro cui gli imprenditori prosperano o falliscono, definisce la scala di valori che informa i prezzi e il pregio dei beni di una società… “Fa’ per gli altri quello che vorresti facessero per te” e “Date e vi sarà dato” sono le regole centrali dell’impresa. Regole che presuppongono l’istituto della proprietà (non si può dare se non si possiede) e la libertà personale (un’economia pianificata non lascia spazio ai doni mirabili dell’imprenditore). Ma è una vita, nella sua essenza, sprigionata da una fede e da una cultura che sono in sé religiose. L’atto della rinuncia che reprime i propri desideri per esaudire i desideri del prossimo; l’atto con cui si impegna il proprio lavoro e la propria ricchezza, per una successione di anni, al fine di portare nel mondo un nuovo bene che il mondo potrà anche rifiutare; l’atto di porre la propria sorte nelle mani di una massa di sconosciuti, che liberamente decideranno del vostro futuro su un mercato di libera scelta, queste sono essenzialmente le azioni di una persona religiosa.
La creazione di sé e la ricreazione (…) Se nella Genesi incontriamo subito Dio che sta lavorando per le sue opere è normale, quindi, pensare che questa condizione sia connaturale anche all’uomo nell’Eden, prima del peccato e, a maggior ragione, con una concentrazione spirituale ancora maggiore per il sudore e la fatica che comporta, dopo il peccato. Si tratta, perciò, di riconoscere che il fine del lavoro, ciò che lo esalta e lo riscatta dalla fatica e dal sudore che pure necessariamente comporta, non alla fine di quando ogni volta è svolto, ma momento dopo momento in cui si svolge. (…) Il lavoro allo stesso modo del riposo, non vanno apprezzati e svolti perché “servono”, sono utili e producono qualcosa. L’uno e l’altro, invece, vanno apprezzati ed esercitati per ciò a cui servono. (…) Nel Dio ebraico-cristiano non pare esistere distanza tra sé e il suo lavoro, così come tra sé e il suo riposo. E anche noi, se vogliamo essere selem e demut suoi, non dovremmo sostanzializzare né il lavoro, né il riposo, cosificarli, oggettualizzarli come fossero o potessero essere altro da noi, una realtà autonoma e separata che ci sarebbe estranea. Oppure ridurli soltanto a téchne, mezzo a nostra disposizione per uno scopo che li nobiliti. Dovremmo, invece, considerare l’uno e l’altro, sempre, anche nostri modi di essere chi siamo. Modi di essere che, in quanto tali, costituiscono, per noi, fini a se stessi perché riguardano noi stessi, la crescita e l’affermazione di noi, come qualcosa che ci sarebbe connaturato, senza di cui perderemmo, non esprimeremmo, qualcosa di quanto è intimamente nostro. Sta qui del resto l’intrinseca moralità ed educatività del lavoro e del riposo, qualità ineliminabili, pure quando ci trovassimo a “lavorare” nelle peggiori situazioni storiche, sociali e ambientali o a “riposare” per ricaricarci delle energie biologiche spese nel lavoro più bestiale.
di Giuseppe Bertagna - Docente di Pedagogia generale e sociale all’Università di Bergamo.
Pubblichiamo stralci del capitolo “Il lavoro e la tradizione ebraico-cristiana” dal saggio “Il lavoro e la formazione dei giovani” (La Scuola editore).
di Giuseppe Bertagna - Docente di Pedagogia generale e sociale all’Università di Bergamo.
Pubblichiamo stralci del capitolo “Il lavoro e la tradizione ebraico-cristiana” dal saggio “Il lavoro e la formazione dei giovani” (La Scuola editore).
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