Senza l’esplosiva renuntiatio di B-XVI non staremmo discutendo di Kasper
Quando si maneggia la storia della chiesa, un’avvertenza simile fu espressa dal grande storico del papato Ludwig von Pastor, occorre essere consapevoli di farlo come se si trattasse di materiale dinamitardo. Come la dinamite, può scoppiarti fra le mani quando meno te l’aspetti. Soprattutto se si mettono in atto operazioni eversive.
Il dibattito aperto e sviluppato dal Foglio sull’importante, anche perché contestata, relazione del cardinale Walter Kasper, che costituisce la base per la preparazione del Sinodo sulla famiglia e il matrimonio previsto per il prossimo anno, potrebbe schiudere un confronto scevro da pregiudizi e rigoroso nell’analisi, avvalendosi delle scienze cosiddette profane e che tuttavia possono tornare utili al pensiero della tradizione teologica, in particolare cattolica. Cosa intendo dire con questo sermoncino?
E’ presto detto. Non ci sarebbe stato il pontificato francescano del gesuita Jorge Mario Bergoglio senza l’epocale rinuncia di Benedetto XVI. Bella scoperta, obietterà qualcuno. Soffermiamoci allora sulla storica (e coraggiosa) rinuncia al Soglio di Pietro di Benedetto XVI. Si è scritto e detto che essa è differente da quella, a tutti nota, operata da Celestino V sette secoli prima. E’ proprio così? La risposta può essere affermativa e al contempo negativa.
Di diverso c’è il contesto storico: allora la teocrazia, anzi la ierocrazia spadroneggiava, nonostante il fatto che la riforma gregoriana proprio in quegli anni avrebbe avviato, secondo la nota tesi dello studioso statunitense Harold Berman, la nascita degli stati moderni; sul piano culturale a farla da padrona era la teologia, che soprattutto nelle università di Parigi e di Bologna avrebbe delineato il solco per le scienze applicate e il diritto. Cosa c’è invece di simile fra la rinuncia di Pietro da Morrone e di Joseph Ratzinger? Molto. E le similitudini riguardano la discussione su Kasper.
Allorché Celestino V decide di abdicare al trono papale, il gesto provoca due conseguenze nella vita della chiesa importantissime. La prima: la rinuncia di Celestino rivaluta la dimensione conciliare (e sinodale) della chiesa. Sul piano giuridico le tesi del domenicano Jean Quidort e di Giovanni d’Andrea, entrambi canonisti, che intendono introdurre il principio consensualistico nelle decisioni della chiesa, a cominciare dalla rinuncia papale che deve essere sottoposta al consensus del collegio cardinalizio ovvero se non addirittura del popolo, aprono la strada alla flessione dell’ideale ierocratico sottesa alla plenitudo potestatis papale a vantaggio di istanze cosiddette conciliariste (e sinodali). La seconda: gli effetti della rinuncia di Celestino si fanno sentire sul piano ecclesiologico e spirituale. Lo spiega molto bene lo storico del diritto Valerio Gigliotti nell’importante libro “La tiara deposta” (Olschki editore): “Con il suo gesto e il supporto teorico che ne derivò, l’ecclesiologia subirà una profonda evoluzione, già peraltro avviata dalla disputa di metà Duecento tra Mendicanti e Secolari che aveva indotto a valorizzare la vita monastica e spirituale, su modello soprattutto francescano, accanto a quella esclusivamente giuridica. Celestino V, nel pieno sviluppo del papato teocratico, diviene icona stessa della rinuncia al potere, di un abbandono della saecularis potestas in favore della vita contemplativa”.
Dopo sette secoli dalla morroniana, la renuntiatio ratzingeriana ci fa comprendere oltre alla subordinazione della potestas al servitium anche la derivazione patristica del gesto epocale compiuto dal Pontefice tedesco: sulla scia di Bernardo da Chiaravalle, Benedetto XVI sostanzia l’ufficio papale in ministerium piuttosto che in dominium. Rileva ancora Gigliotti che si tratta di “un gesto totale, oblativo, quasi uno scuotimento (una kenosis) interiore che ha precedenti illustri nella tradizione ascetica e mistica occidentale, da Meister Eckhart al Sandaeus e nella stessa renuntiatio alla guida dell’Ordine di san Francesco d’Assisi”. Con la rinuncia di Benedetto XVI si viene a creare una similitudine con la chiesa di Celestino: lo sviluppo sinodale nella sua (ri)organizzazione. Il comitato degli otto cardinalizio voluto da Papa Francesco per riformare la struttura della chiesa ne è la conferma.
Allorché Celestino V decide di abdicare al trono papale, il gesto provoca due conseguenze nella vita della chiesa importantissime. La prima: la rinuncia di Celestino rivaluta la dimensione conciliare (e sinodale) della chiesa. Sul piano giuridico le tesi del domenicano Jean Quidort e di Giovanni d’Andrea, entrambi canonisti, che intendono introdurre il principio consensualistico nelle decisioni della chiesa, a cominciare dalla rinuncia papale che deve essere sottoposta al consensus del collegio cardinalizio ovvero se non addirittura del popolo, aprono la strada alla flessione dell’ideale ierocratico sottesa alla plenitudo potestatis papale a vantaggio di istanze cosiddette conciliariste (e sinodali). La seconda: gli effetti della rinuncia di Celestino si fanno sentire sul piano ecclesiologico e spirituale. Lo spiega molto bene lo storico del diritto Valerio Gigliotti nell’importante libro “La tiara deposta” (Olschki editore): “Con il suo gesto e il supporto teorico che ne derivò, l’ecclesiologia subirà una profonda evoluzione, già peraltro avviata dalla disputa di metà Duecento tra Mendicanti e Secolari che aveva indotto a valorizzare la vita monastica e spirituale, su modello soprattutto francescano, accanto a quella esclusivamente giuridica. Celestino V, nel pieno sviluppo del papato teocratico, diviene icona stessa della rinuncia al potere, di un abbandono della saecularis potestas in favore della vita contemplativa”.
Dopo sette secoli dalla morroniana, la renuntiatio ratzingeriana ci fa comprendere oltre alla subordinazione della potestas al servitium anche la derivazione patristica del gesto epocale compiuto dal Pontefice tedesco: sulla scia di Bernardo da Chiaravalle, Benedetto XVI sostanzia l’ufficio papale in ministerium piuttosto che in dominium. Rileva ancora Gigliotti che si tratta di “un gesto totale, oblativo, quasi uno scuotimento (una kenosis) interiore che ha precedenti illustri nella tradizione ascetica e mistica occidentale, da Meister Eckhart al Sandaeus e nella stessa renuntiatio alla guida dell’Ordine di san Francesco d’Assisi”. Con la rinuncia di Benedetto XVI si viene a creare una similitudine con la chiesa di Celestino: lo sviluppo sinodale nella sua (ri)organizzazione. Il comitato degli otto cardinalizio voluto da Papa Francesco per riformare la struttura della chiesa ne è la conferma.
Questo sul piano giuridico. E sul piano teologico-dottrinale? Sebbene Ratzinger sia stato in un certo senso il braccio teologico del pontificato di Wojtyla (così come Agostino Casaroli è stato il braccio politico-diplomatico, ineguagliato per capacità di visione geopolitica), a mio avviso sarebbe errato mettere nello stesso calderone gli approcci alle questioni teologiche del Papa polacco con quelle del Papa tedesco, in base al convincimento che i due grandi pontefici condividessero la medesima idea sul ruolo del cristianesimo nel mondo secolarizzato. La prova ci è fornita proprio dalla delicatissima questione della rinuncia papale. E il direttore del Foglio, che fu il primo (insieme con Antonio Socci) a ipotizzare ben un anno prima la rinuncia papale di Benedetto XVI, può intuirne la ricaduta generale riguardo anche al dibattito sollevato dalla relazione di Kasper.
Giovanni Paolo II incaricò il canonista cardinale Vincenzo Fagiolo per trovare la ratio giuridico-teologica al convincimento di Wojtyla: “Non c’è posto nella chiesa per un Papa emerito”. Fagiolo assolse il compito, ed è importante leggerne l’impianto argomentativo per scorgervi un curioso uso (diciamo politico?) del messaggio evangelico. Per avvalorare quindi il convincimento wojtyliano Fagiolo sostenne quanto segue nella sua relazione presentata al Papa per iscritto, da leggere con attenzione parola per parola: “Le dimissioni nel 1294 di Celestino V non possono da sole costituire un argomento che spiega con il fatto l’intero problema, che prima ancora d’essere d’ordine morale, è teologico e di diritto costituzionale. La societas fidelium, da Cristo fondata per un fine specifico, che coinvolge per il tempo e l’eternità l’intero popolo di Dio con la sua vocazione soprannaturale, ha una qualificazione giuridica che affonda le sue radici nella teologia e che pertanto considera l’uomo divenuto cristiano con il battesimo non nella sola sfera dei diritti puramente umani ma anche nell’ambito della vita e della missione della stessa chiesa, al vertice della quale c’è il Papa, quale vicario di Cristo con poteri che Cristo stesso gli ha conferito e che sono di natura soprannaturale. Il Papa quindi non riceve la potestas dal basso e i suoi poteri sono strettamente legati alla missione che proviene da Cristo. Il rapporto quindi, prima di essere tra lui Superiore e i sudditi membri della Chiesa, è tra lui e Cristo, dal quale discende e viene conferito sia il potere di confermare i fratelli nella fede (potestas docendi) sia quello di pascere il gregge affidato allo stesso Pietro (potestas regendi). Il discorso pertanto sulla rinuncia del Papa si fa complesso, assume aspetti costituzionali e coinvolge problematiche che non possono essere risolte solamente guardando alla liceità dell’atto, come se il Vicarius Christi abbia un qualunque ufficio ecclesiastico e come se il suo munus non abbia un’origine e una marcata impronta apostolica che qualifica costituzionalmente la stessa struttura dell’ordinamento canonico”.
Chiaro fin qui? Bene. Questa la conclusione apodittica del cardinale Fagiolo: “Di certo in maniera tassativa e assoluta il Papa non potrà mai dimettersi a motivo della sola età”. Non sono passati neanche vent’anni e il verdetto del canonista di fiducia di Giovanni Paolo II è stato clamorosamente smentito dal gesto di rinuncia papale dell’11 febbraio 2013. Smentito almeno in parte. Sì, perché nel libro-intervista di Peter Seewald Ratzinger aveva paventato come non implausibile la rinuncia papale, oltre che per ragioni d’età, anche qualora si fosse trovato nell’impossibilità “spiritualmente” di guidare la chiesa. Ciò non è bastato però a far cambiare idea a chi ancora considera la rinuncia un vulnus. Che all’entourage di Wojtyla, per esempio, la rinuncia di Ratzinger non sia piaciuta lo dimostra la dichiarazione rilasciata a un settimanale diocesano dal principale collaboratore di Giovanni Paolo II, il cardinale di Cracovia Stanislaw Dziwisz: “Papa Wojtyla decise di restare sul soglio pontificio fino alla fine della sua vita perché riteneva che dalla croce non si scende”. La Santa Sede suggerì subito al porporato di rettificare quanto detto da lui stesso, consapevole essa stessa (eppoi dicono che portare sul groppone duemila anni di storia non serva granché) di quanto pericoloso sia maneggiare la materia. Proprio come la dinamite.
di Giuseppe Di Leo
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