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domenica 27 aprile 2014

Quattro papi in Vaticano: la fine del Novecento

Il primo papa del terzo millennio è Francesco, l’ultimo del secolo precedente è Ratzinger

Bergoglio, anche biograficamente, è il primo papa che non ha preso parte in prima persona al Concilio Vaticano II, per questo, come hanno rilevato alcuni osservatori, non si preoccupa più della sua messa in discussione — che considera problema superato — ma guarda soprattutto alla sua applicazione. Non solo: Francesco, il pontefice che viene dal Sud del mondo e dall’America, è il papa — ma più in generale il leader — che ha posto, dall’autorevole cattedra di San Pietro, la questione del governo della globalizzazione, della ricerca di un nuovo ordine policentrico in grado di sostituire la stagione dell’equilibrio fondato sui due blocchi contrapposti (Usa-Urss con relative sfere d’influenza). Quando l’ex arcivescovo di Buenos Aires chiamandosi “Francesco” decide di ripartire dal tema dei poveri in senso evangelico, pone un problema di fondo: quello della ricerca di un nuovo equilibrio possibile fra sviluppo, giustizia, democrazia e tutela dell’ambiente. Non per niente, a quest’ultimo argomento sarà dedicata la sua prima enciclica.

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Wojtyla e Ratzinger, entrambi figli del Novecento europeo, un polacco e un tedesco che hanno vissuto da giovani la seconda guerra mondiale, sono gli interpreti di un modello di Chiesa che cerca un equilibrio difficile fra tradizionalismo e modernità; la battaglia è prima quella ideologica contro i regimi comunisti dell’Est europeo (per la quale però si sacrificano le spinte riformatrici della chiesa latinoamericana), poi, una volta abbattuti i muri europei e guadagnata la causa della libertà oltre Berlino Est, il nemico diventa il secolarismo ateo che vuole fare a meno di Dio. Wojtyla però coglie pure il cambiamento in atto e conia la definizione di “globalizzazione della solidarietà” (Francesco capovolgerà drammaticamente questo assunto parlando di globalizzazione della povertà), ma il suo sguardo di uomo ormai anziano è volto al passato.
La Chiesa fa fatica a uscire dalla stretta ideologica dell’epoca e alla fine, dopo il gesto rivoluzionario di Ratzinger che ha preso coscienza dell’inevitabilità della crisi, trova una via d’uscita nell’elezione di un papa argentino cui viene affidato il compito di cambiare profondamente la Chiesa, aggiornando anche, laddove necessario, magistero e dottrina. Lo scopo è quello di rimettere il cattolicesimo al centro delle trasformazioni del mondo.
In questo quadro Angelo Roncalli è il papa della guerra fredda, della crisi dei missili a Cuba ma anche della decolonizzazione, dei diritti delle donne e dei lavoratori. È il pontefice che dice quel no definitivo alla guerra nella stagione del rischio nucleare (Hiroshima è nella memoria recente e collettiva dell’umanità); il “Jamais plus la guerre” venne ripetuto da Paolo VI all’Onu anche sulla scorta del conflitto in Vietnam. E tuttavia pure il tema della guerra cambierà dopo il 1989 con Wojtyla che, di fronte ai massacri del conflitto nella ex Jugolsavia segnato da episodi come la strage di Sebrenica, avanzerà l’ipotesi dell'ingerenza umanitaria. Tuttavia di nuovo di fronte alle guerre in Iraq l’opposizione di Giovanni Paolo II sarà dura, il nuovo disordine mondiale bussava già alle porte. Non è un mistero fra l’altro che Paolo VI è figura particolarmente amata da Bergoglio, e proprio Montini potrebbe essere il prossimo papa a salire alla gloria degli altari per volontà di Francesco.
Sotto il profilo ecclesiale, poi, la cerimonia di domenica presenta alcuni aspetti importanti. L’immagine dei quattro papi messa in giro forse con un eccesso di astuzia comunicativa da parte del Vaticano, presenta più di un rischio. Se obiettivo di Francesco è quello di spogliare la Chiesa dal ridondante centralismo romano, il papato come istituzione esce indubbiamente rafforzato dalla doppia canonizzazione per altro di due personalità tanto forti. C’è anche, parallelamente, un elemento di “normalizzazione” della figura del pontefice con la presenza prevista di Ratzinger; come a dire, la convivenza è un dato di fatto al quale abituarsi, Canterbury e Roma non sono poi così lontane. E poi la folla, le dirette televisive, le immagini trasmesse in 3D, la mobilitazione mediatica straordinaria, costituiscono elementi di una “spettacolarizzazione” della santità che desta una certa impressione e che di sicuro deve molto al wojtylismo.

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Il rischio “cartolina” come per ogni canonizzazione è dietro l’angolo: il papa buono che manda una carezza ai bambini, ilWojtyla sofferente e pellegrino del mondo. Eppure la forza di Roncalli — tutt’altro che pastore ingenuo — si forgia in unamissione diplomatica in Turchia durante la seconda guerra mondiale dove s’impegna per evitare che gruppi di ebrei vengano deportati verso i campi di sterminio. L’esperienza diretta della Shoah del futuro Giovanni XXIII è fra le radici profonde della svolta conciliare, è l’inizio di un cammino di dialogo fra le religioni a cominciare dai nuovi rapporti con l’ebraismo e poi con l’Islam.
Wojtyla è stato di sicuro un personaggio di portata enorme, complesso, ma pesano, in 27 anni di pontificato, anche alcune ombre, come quella — grave — del potere di cui ha goduto un’organizzazione corrotta come i Legionari di Cristo, senza dimenticare la deriva reazionaria che si è impadronita spesso dei vertici della Curia romana. Anche lui ha dato però un contributo fondamentale al dialogo interreligioso, sua la visita alla sinagoga di Roma nel 1986, sua l’intuizione di fare di Assisi la città del dialogo fra le fedi.

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