Sposatevi, ma senza confetti
Gli argomenti per abolire il celibato dei preti sono mondanità spirituale pura, frivolezza, confetti nuziali. Non è dogma, la legge si può cambiare, ma bisogna mettersi alla sua altezza. Paolo VI dixit
Avevamo preavvertito con modestia e rispetto: il dialogo della chiesa con il mondo è difficile, la chiesa perdona ma il mondo no. Ora il mondo apre un nuovo fronte di “dialogo”, si fa per dire, e lo struttura come fronte interno alla chiesa occidentale o di rito latino, insomma la chiesa massiccia, che fa testo, come la conosciamo da molti secoli. I preti devono potersi sposare, e chi si fa prete deve poter scegliere il doppio regime matrimoniale, quello con Cristo e quello con una donna (e perché proprio e solo con una donna? chi siamo noi per giudicare? e perché un matrimonio definitivo, visto il rapporto Kasper sul divorzio benedetto dalla chiesa?). Non siamo scandalizzati affatto.
Per quanto ci riguarda la chiesa può cambiare quando vuole la legge canonica celibataria, che non è un dogma (eppoi anche i dogmi non è che stiano tanto bene) ma è appunto un canone nato a partire dal IV secolo, nelle prime convulsioni del mondo antico. Cambiare, e andare all’altare mano nella mano, ma per favore senza confetti. Le ragioni sociologiche e sentimentali addotte in favore del matrimonio dei presbiteri sono gioiose e frivole come confetti. Non è seria una lettera d’iniziativa delle amanti dei preti che si lamentano della propria sofferenza, dell’impossibilità di godere apertamente dei fasti dell’amore tonacato, che come un qualsiasi amorazzo adolescenziale non conosce frontiere. Non è serio che Vito Mancuso, teologo e persona intelligente, proponga accanto a legittimi argomenti di coscienza e di libertà e di storia ecclesiastica l’emersione alla luce dei preti e delle loro donne in amore clandestino o il ritorno dei dispensati per matrimonio all’ovile del sacerdozio, con famigliola a carico.Non solo tutto questo è fatuo, è anche offensivo per quei preti, e immagino non siano poi così pochi, che amano d’amore virginale, si rendono conto dei problemi umani loro e degli altri, li superano in una scelta di castità e di celibato che considerano un dono sofferente, un “olocausto” come scriveva Paolo VI nella enciclica Sacerdotalis coelibatus del 1967, la loro scelta per un regime matrimoniale unico, totale, caritatevole e senza alternative tenere o misericordiose, insomma lo sposalizio con Cristo. Bisognerebbe portare la discussione a questa altezza, se l’interesse laico o confessionale è davvero quello di argomentare in favore di un cambiamento e di segnalare lo stato di malessere di settori del clero, amanti comprese, e il corrispondente bisogno di libertà da una legge ritenuta superata. Si possono fare molte obiezioni alla teologia in ginocchio del cardinale Kasper, ma il suo rapporto segreto ai fratelli in Concistoro su famiglia e divorzio ed eucaristia era di tempra e di stoffa ben diversi dal romanzetto rosa imbastito in questa occasione. Scendere di livello è pericoloso.
Due papi del Concilio (quello che lo convocò e quello che lo presiedette) furono chiari in materia. Giovanni parlava di “vaneggiamenti contro il celibato” in una chiesa che voleva “libera, casta e cattolica”. Abbastanza chiaro, direi. E Paolo impegnò con fervore intellettuale, ecclesiale e pastorale la sua splendida retorica per dimostrare una cosa che dovrebbe essere semplicemente confutata, mettendosi alla sua portata, senza confetti. Paolo scriveva che il celibato è un duro e diuturno cimento, che il Concilio ha portato un solenne riconoscimento dei valori umani, che i problemi esistono, vanno riconosciuti e sanati, a partire dalla solitudine dei preti (chi non ha letto il diario del curato di campagna di Bernanos?); ma nel confermare la regola aggiungeva che il celibato e la castità sono una nuova concezione della vita, una adesione al modello di perfezione del Maestro e Signore dei cristiani, una vita di rara efficacia santificante, in cui il presbitero si fa tutto e a vantaggio di tutti in una più vasta e alta paternità, mantenendo e incrementando la sua capacità di sondare il cuore umano nell’opera di salvezza delle anime; e che la sua scelta libera di rinunziare all’amore legittimo, supplichevolmente richiesta, è una quotidiana morte a tutto sé stesso e insieme la dimostrazione che l’uomo non è solo carne e istinto sessuale, dimostrazione di cui proprio il mondo di oggi ha bisogno se non si voglia cedere a “pericolose propensioni del cuore” e a “inclinazioni del sentimento”. Poesia e lucidità ecclesiale di un Papa non ignaro del “torbido spirito del mondo”, capace di uno sguardo di carità non alterato dalla mera tenerezza e consapevole del peso della tradizione. Gli si risponde che bisogna fare come gli orientali, che bisogna aggiornarsi, che il matrimonio con Cristo in quei termini non regge.
Argomenti piccoli, poveri. Elaborate una nuova visione ecclesiale e teologica della libertà, cari matrimonialisti tonacati, invece di insinuare che il convocatore del Concilio di Trento, Paolo III, era padre di quattro figli. Fu questo padre Farnese, papa e peccatore, che rese possibile con la sua bolla la nascita della Compagnia di Gesù. Paolo VI distingueva tra carisma sacerdotale e regola del celibato, non era un bru bru, sapeva di cosa parlava, ma parlava della regola come di una risorsa cristologica, come di un anticipo del Regno. Trovate argomenti meno banali dell’amore romantico e della sofferenza degli amanti clandestini per contraddirlo, e poi ne riparliamo.
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