ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 27 giugno 2014

FACTA NIGRO SIGNANDA LAPILLO

ovvero:
i nefasti del pontificato bergogliano

1  -  Il corvo, la colomba, la Chiesa e  l’ONU.
Vogliamo tornare all’episodio del corvo e del gabbiano che, come i lettori ricorderanno [vedi qui e qui], domenica 26 gennaio 2014, nel cielo di piazza san Pietro, dopo l’Angelus, sbranarono una delle bianche e pacifiste colombe lanciate dalla finestra dell’appartamento papale. Vi torniamo perché vogliamo corredare quel fatto con un riferimento di particolare rilevanza, di recente nostra conoscenza, che conferisce alla spiegazione che demmo dello scontro “celeste” di quella domenica un’aggiunta di cronaca e un’ulteriore tinta di forte indizio in termini di profetismo o quanto meno di particolare significato. Ecco la notizia.

Figura, presso l’aula del Consiglio di Sicurezza ONU, sulla parete cha fa da scenario, un dipinto, o meglio, un polittico di sei tavole, con una mandorla centrale, opera del pittore norvegese Per Krog il quale, in una di queste ha rappresentato “una scena che vede tre grossi corvi inseguire una minuscola colomba; alla base di detto quadro, oltre alla firma dell’artista, si dice vi si legga una scritta in caratteri minuti con le seguenti parole: <L’uomo trionferà su Dio>” (Epiphanius: Massoneria e sette segrete – ed. Controcorrente, Napoli 2002, pag. 717).

Intanto, tale  auspicio  ce ne rammenta un  altro che, sulle note di una marcetta proletaria diceva con sicurezza “bandiera rossa la trionferà”. E abbiamo visto come è finita.
Siffatta rappresentazione e, soprattutto, la didascalia apposta in calce, più che il trionfo dell’uomo su Dio si augura il trionfo di Satana, intenzione niente affatto peregrina se si consideri che l’ONU è l’espressione onnicomprensiva e riassuntiva del massonico progetto mondialista di ridurre tutto, compreso Dio ma soprattutto la Chiesa cattolica, a un’umanità che ritiene se stessa origine e fine del tutto, al servizio e al culto del principe di questo mondo. Tèsi per nulla peregrina e calunniosa stando alla credibile testimonianza di R. Guénon il quale ebbe a scrivere che il luciferismo è l’essenza della massoneria “eterna”.

Che cosa avrà voluto dire, allora, l’episodio cruento verificatosi in piazza San Pietro? V’è qualcuno che ritenga di attribuire al fatto la categoria della casualità o non, invece, quella di un segnale ben preciso?
Forse che, anche nella stessa Chiesa cattolica, alcuni suoi ministri lavorino nel senso indicato dalla didascalia del dipinto, a preparare il trionfo dell’uomo su Dio, così come il corvo e il gabbiano hanno fatto intendere? Non sarebbe azzardato convenire in tal senso, anzi non lo è per niente, se è vero che proprio il prossimo beato, papa Montini, ebbe a dichiarare essere impegno della Chiesa quello di elevare l’uomo ad oggetto di culto. Già, proprio nella sede ONU -  dove, il 4 ottobre 1965, effettuò una visita, la prima di un papa in quella istituzione, due mesi avanti la chiusura del Concilio - si produsse in un panegirico della stessa con l’affermare: “Signori, voi avete compiuto un’opera grande: voi insegnate agli uomini la pace. L’ONU è la grande scuola dove si riceve questa educazione… voi sapete che la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi. Essa si costruisce con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Voi lavorate a questa grande opera” (Ench. Vat. Vol. I n. 386  - O. R. 6/10/1965 pag. 4).
Non pago di aver attribuito a questa istituzione sinarchica -  con l’espressione “grande opera” (opus magnum), riferimento tecnico  che connota l’esito d’ogni azione alchemico/massonica -  che predica e favorisce l’aborto, il controllo maltusiano delle nascite, l’eutanasìa, il riconoscimento legale delle unioni omosessuali, la diffusione della gnosi, che stabilisce come, dove e quando provocare conflitti ed ivi intervenire per “portare la pace”, aver attribuito, dicevamo, a questa istituzione la missione di “affratellare tutti i popoli”, conclude il suo discorso affermando che “mai come oggi, in un’epoca di tanto progresso umano si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo”.
Ecco l’antropolatrìa  paolosesta: l’uomo, e la sua coscienza, come perno di tutta la storia e misura delle cose, come se Dio e i suoi comandamenti non contassero. Cosa da non destare meraviglia  perché in tutto il suo intervento ricorrono soltanto una volta il termine “Dio” e “Cristo”, messi in contesti di latitante e timida espressività.
A coronamento di questo inno all’istituzione umana ONU, Paolo VI, quasi per conferire un legame che ne ribadisse la sua convinzione, concluse il Concilio Vaticano II con queste parole: “Una simpatia immensa lo ha investito [il concilio] tutto interoLa scoperta dei bisogni umani… ha assorbito l’attenzione di questo Sinodo. Riconoscetegli almeno questo merito, voi umanisti moderni, che rinunciate alla trascendenza delle cose supreme, e sappiate riconoscere il nostro “nuovo” umanesimo: Noi, pure, Noi più di chiunque altro, NOI ABBIAMO IL CULTO DELL’UOMO” (Discorso di chiusura del Concilio, 7 dicembre 1965).

Da quello che da allora ne è seguito, non ci è difficile, ancorchè doloroso, constatare che l’augurio del pittore norvegese è stato pienamente esaudito.
Ne daremo prova nel successivo brano che vi presenteremo.

2  -  Peccato mortale? Non più.

L’omicidio è un peccato occasionale, che può essere cancellato con un pentimento sincero, mentre chi contrae un matrimonio civile vive in una infedeltà continuativa…  Non puoi insegnare al figlioccio la corretta via cristiana se tu, per primo, ti sei smarrito vivendo pubblicamente in peccato grave”.
Questi, i passi più eminenti e forti del messaggio che don Tarcisio Vicario, parroco di Cameri, provincia di Novara, ha riportato nel bollettino parrocchiale della domenica. E su queste riflessioni s’è scatenata la canèa dei mezzi di informazione che hanno indotto – non forzosamente, diciamo, ma con pieno consenso – il vescovo Mons. Franco Giulio Brambilla a “chiedere scusa” e, nello stesso tempo, obbligando il parroco stesso a indirizzare ai “fedeli” una lettera di rammarico con completa smentita ed autocritica, in pretto stile sovietico. Questa la cronaca.

Noi conveniamo che, alla sensibilità attutita dei cristiani d’oggidì, pervasa ed intossicata di relativismo e di tenerezza, le parole del parroco possano aver dato uno scossone non proprio leggero anche perché la convivenza civile, peccato mortale per definizione, potrebbe essere, come l’omicidio, stato di peccato occasionale sempre che uno o tutti e due i soggetti decidano o d’interromperla o di regolarizzarla col rito religioso. Noi avremmo, più che contrapposto, equiparato i due peccati mortali.
Tuttavia, così come don Tarcisio ha posto il problema, non ci sembra che il vescovo abbia agito secondo lo spirito del Vangelo e della ortodossìa.
Posta la convivenza civile -  così come lo stesso canonico matrimonio, lo stato di coppia di fatto o l’unione omosessuale -  quale atto che, con promessa, si compie come impegno duraturo di vita, protendendosi nel corso degli anni quale condizione di vissuto quotidiano, essa confligge frontalmente con la legge di Dio in quanto persistente e continuativo peccato mortale.
E secondo la parola di Cristo tale circostanza è più grave dell’omicidio tanto che i martiri preferiscono rinunciare alla vita del corpo piuttosto che a quella dell’anima.

Il vescovo Mons. Brambilla ha tenuto a precisare che  l’uscita di don Vicario “è un’esemplificazione inopportuna e fuorviante. La Chiesa di Novara è in profonda sintonìa con il cammino di Papa Francesco”.
La cosa, però, non ci convince affatto. Intanto è da dire che  non esiste “una chiesa di Novara” o una chiesa di Voghera, caso mai “una comunità” di fedeli perché la Chiesa è di Cristo della quale è Fondatore e Capo secondo l’autorevole e netta affermazione dell’apostolo: “Et ipse est caput corporis ecclesiae, qui est principium” (Col. 1, 18)  - Egli [Cristo] è il Capo del corpo, che è la Chiesa, il principio di tutto.
E, poi: per quali ragioni si considera offensiva la catechesi del parroco? In fondo egli si è limitato, e fortemente senz’altro, a rammentare le parole tremende di Gesù, e il suo monito, che la comunità di Novara e il suo vescovo hanno del tutto dimenticato: “Nolite timere eos qui occidunt corpus, animam autem non possunt occidere; sed potius timete eum qui potest et animam et corpus perdere in Gehennam” (Mt. 10, 28) – Non temete coloro che possono uccidere il corpo ma non l’anima; temete piuttosto chi [Satana] può far perdere l’anima e il corpo nell’Inferno -.
La convivenza civile, ossia il concubinato che, spesso, è adulterio nel caso del divorziato risposato, comunque la si voglia vedere sotto la lente della litote, della misericordia, della tenerezza, della comprensione è uno stato di “peccato mortale”, quel peccato che, secondo la assoluta giustizia di Dio, fa perdere, per l’eternità, non solo l’anima ma anche il corpo “post resurrectionem mortuorum” - dopo la resurrezione dei morti - quando, ricompòstasi l’unità sostanziale della persona e, con essa, la perfezione della creatura, la pena sarà maggiore e completa secondo quanto afferma San Tommaso (cfr. S.Th.  - Supplementum, q. LXXXVI : De conditionibus corporum damnatorum resurgentium – in tres articulos  divisa) e come, con magistrale poesìa, ne scrisse Dante che, per bocca di Virgilio, così insegna: “… Ritorna a tua scïenza/ che vuol, quanto la cosa è più perfetta/ più senta il bene, e così la doglienza” (Inf. VI, 106/108).

Ma il moderno, conciliare magistero non osa più parlare, predicare e spiegare questo lato della dottrina, tanto meno il peccato mortale, per non correre il rischio d’essere tacciato di passatismo e di terrorismo psicologico. Sicché, scartavetrato il concetto di peccato e, con esso il senso di colpa, ma soprattutto ignorata la Parola di Cristo, si pratica il metodo del dialogo che, diciamolo senza remore, è assai comodo e per nulla rischioso. Si cammina insieme, si chiacchiera, ci si dà di gomito, ci si complimenta a vicenda e, alla fine, spenti i lumi e pagate le spese, ognuno come prima, tutti pari, tutti salvi e nessun convertito. E così, in ottemperanza al nuovo corso bergogliano, il vescovo di Novara ha preferito umiliare don Tarcisio invece di dare alla cagnara dei tumultuanti peccatori, “cristiani adulti”, una lezione di vera e tosta catechesi. Ha preferito, cioè, schierarsi con il mondo e con la sua degenerazione morale, vergognandosi di Gesù e tradendo il Suo insegnamento.
Ma si rammenti, il vescovo di Novara e rifletta: “Qui negaverit me coram hominibus, negabo et ego eum coram Patre meo qui in caelis est” (Mt. 10, 33) – Chi mi rinnegherà davanti agli uomini Io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. - E questo  tono non è affatto tenero e misericordioso, buonista, alla carlona, o finta minaccia. Qui le parole pesano come macigni e i suoi effetti sono irrevocabili.

Da questo episodio, uno dei tantissimi che costellano la vita della moderna pastorale, si nota come i don Abbondio siano ancora tra noi, sacerdoti e pastori a cui difetta il coraggio ma abbonda la viltà, a cui difetta la virtù della fede, rottamata a favore di un atteggiamento defilato o , come si dice in politichese, bipartisan,  un po’ con Cristo e un po’ col mondo di cui non si disdegnano gli applausi, le lodi e i riconoscimenti patinati e pettegolieri, quelli che il vescovo di Roma, Francesco I  riscuote e sollecita in giornaliera quantità industriale.
Don Vicario ha lucrato, davanti a Dio, grandi meriti per aver predicato il Vangelo e la Verità nella sua integrità ed interezza, a viso aperto, e la sua deprimente ritrattazione è elemento di ulteriore merito in quanto si configura come altrui violenza a lui imposta, e da lui subìta in termini di umiltà e di dolorosa obbedienza. Ma il Mons. Brambilla dovrà rispondere davanti a Dio, e alla comunione dei Santi, di codardìa e di rispetto umano. Cerchi, finché  è in tempo, di pentirsi e di vergognarsi per aver obbedito al mondo piuttosto che a Dio, diversamente da  come gli  apostoli dettero l’esempio sostenendo il carcere piuttosto che  venir meno alla  testimonianza del Vangelo (Act. Ap. 5, 29).

3 - Tempo di liquidazione:  Mons. Nunzio Galantino e il santo Rosario.

Dal quindicinale cattolico “antimodernista” SI SI NO NO (15 maggio 2014, pag. 8).
La Vergine Santissima, in questi ultimi tempi che viviamo, ha dato una nuova efficacia alla recita del Rosario, in modo tale che non c’è alcun problema, difficile che sia, materiale e soprattutto spirituale, che riguardi la vita personale di ciascuno di noi, delle nostre famiglie, delle famiglie del mondo o delle comunità religiose, o anche la vita dei popoli e delle nazioni, non c’è alcun problema, dicevo, difficile che sia, che non possiamo risolverlo con la recita del Santo Rosario. Con il Santo Rosario noi ci salveremo, ci santificheremo, consoleremo Nostro Signore e otterremo la salvezza di tante anime” (Suor Lucia).

Parole di una semplicità estrema e di commossa tensione che riassumono tutta una storia millenaria che fa del santo Rosario non soltanto una devozione privilegiata ma una pratica  di cui l’anima abbisogna per il sostentamento della vita spirituale. E la testimonianza di suor Lucia, colei che dalla Vergine Maria ebbe la rivelazione di grandi e tremendi eventi, ne ribadisce, se mai ce ne fosse stato bisogno, la forza d’impetrazione e la preziosità del merito. Allo scopo di lumeggiare ancor meglio l’argomento, scaturito esattamente da una riflessione sulle parole di suor Lucia, vorremmo dare una piccola e breve scorsa di carattere storico che, a taluni lettori ignari, potrà essere di supporto per comprendere il perché della nostra ricognizione.

Il Santo Rosario non nasce secondo l’attuale forma. Esso deriva dalla lettura quotidiana che, nei monasteri, si faceva dei 150 salmi. Per ovviare alla difficoltà che siffatto regime comportava, si dice che un monaco irlandese – sec. IX – suggerisse di recitare 150 Pater Noster. Allo scopo, poi, di non perdere la sequenza della conta, era solito portare seco 150 sassolini che, poi, furono sostituiti da cordicelle con 50 o 150 nodi. Poco dopo, non si sa da chi indicato, invalse l’uso di utilizzare il Saluto angelico – l’Ave Maria – quale parte iniziale della devozione.
Nel sec. XIII i monaci cistercensi chiamarono “Rosario” questa pratica perché ogni Ave era paragonata ad una rosa e tale devozione fu resa popolare da san Domenico che, nel 1214, ricevette dalla stessa Vergine il primo Rosario quale potente strumento contro le eresìe, quali ad es. il catarismo.
Poiché la letteratura teologica aveva considerato i salmi davidici quali anticipazioni della vita di Gesù, si arrivò ad elaborare una specie di “Psalterium Christi” congiunto alle lodi mariane. E nacquero, così, i “misteri” che, sempre nel sec. XIII, venivano contemplati secondo quattro sezioni: 150 Pater, 150 Ave, 150 lodi a Gesù e 150 lodi a Maria. Ma fu solo verso il 1350 che l’Ave Mariaassunse, per opera dei certosini, la moderna forma, congiungendosi al saluto dell’angelo quello di Elisabetta, fino all’inserimento della seconda parte come oggi è composta.
Dal sec. XIV fino al 1455, la pratica del rosario conosce continui aggiustamenti dei quali, i più importanti sono la formulazione tematica dei misteri e quello apportato dal monaco Enrico Kalkar che introduce, ad ogni decina alla Vergine, il Pater Noster. In questi anni il monaco Domenico Hélion  (Domenico il Prussiano) elabora e codifica il Salterio di Maria con 150 clausole – misteri – divisi in tre sezioni in cui vengono celebrati i misteri dell’infanzia, della vita pubblica e della Passione/Resurrezione di Gesù.
Alain de la Roche, domenicano, stabilisce poi, in maniera netta, i 15 misteri – gaudiosi, dolorosi, gloriosi – così come oggi tutti conosciamo. Nascono le prime associazioni rosariane finalizzate a diffondere la pratica della devozione mariana, tra cui la “Confraternita del Rosario” (1470), la “Confraternita del Rosario perpetuo”1630), la “Confraternita del Rosario Vivente” ( 1826).
La struttura  medievale del Rosario fu  gradualmente perfezionata raggiungendo la forma attuale nel 1521 ad opera del domenicano Alberto di Castello.
San Pio V, il papa di Lepanto (1571), fu il primo “Papa del Rosario” che, con bolla pontificia invitò tutta la cristianità a praticarne la devozione. Altro “Papa del Rosario” fu Leone XIII che vi dedicò ben 12 encicliche. Dal 1478 ad oggi si contano oltre 200 documenti pontifici sul tema.
A conferma di tutto ciò stanno, poi, le testimonianze della stessa Vergine Maria che a Lourdes prima (1858) e a Fatima poi (1917) apparve con la corona del Rosario al braccio consigliandone con fermezza la recita.
Ma tutto ciò sarebbe arida informazione se non dessimo conto debito di quanti, santi e non santi, fecero del Santo Rosario, in unione con l’Eucaristìa, il centro della propria vita spirituale. Ricordiamo, brevemente: S. Lorenzo da Brindisi, S. Pier Canisio, S. Roberto Bellarmino, Santa Teresa di Gesù, S. Francesco di Sales, S. Alfonso Maria de’ Liguori, S. Carlo Borromeo, S. Filippo Neri, S. Francesco Saverio, S. Luigi Grignion de Monfort, S. Ignazio di Loyola, S. Camillo de Lellis, il santo Curato d’Ars, S. Giuseppe Cafasso, S. Giovanni Bosco, Santa Margherita, Santa Bernardetta, S. Stanislao Kostka, S. Gabriele dell’Addolorata, S. Massimiliano Kolbe, san Pio da Pietrelcina.
Il grande papa Pio XII ebbe a definire il Santo Rosario “il compendio di tutto il Vangelo”.

Ora, a fronte di questo meraviglioso e potente affresco della devozione mariana, a fronte delle splendide parole di suor Lucia, a fronte di uno stuolo di santi “rosarianti”, a fronte della stessa autorità della Vergine, sta una recente dichiarazione di straordinaria violenza e di orrenda blasfemìa uscita dalla bocca del neo Segretario CEI, il vescovo mons. Nunzio Galantino il quale, sulla  scia di un pensiero sociologico/gnostico robustamente incistato quale cancro in piena espansione nelle sacre stanze vaticane, ha espressamente fatto carne di porco del Rosario indicandolo, in un’intervista al giornale on line QN, come pratica debilitante ed inespressiva.
Ecco le sue parole: “Penso alla sacralità della vita. In passato ci siamo concentrati esclusivamente sul no all’aborto e all’eutanasìa. Non può essere così, in mezzo c’è l’esistenza che si sviluppa. Io non mi identifico con i visi inespressivi di chi recita il rosario fuori dalle cliniche che praticano l’interruzione della gravidanza, ma con quei giovani che sono contro questa pratica e lottano per la qualità delle persone, per il loro diritto alla salute, al lavoro”.
Parole aberranti e vergognose che meritano un’analisi puntuale e una condanna esemplare e senza sconti che, non dubitiamo, presto o tardi, verrà, se non dagli uomini, senz’altro da Chi giudica dall’alto.

Penso alla sacralità della vita”. E meno male che la vita per lui è sacra perché il seguito del discorso confuta del tutto questa sua apertura. Infatti, con un salto mortale, costui plana sul territorio di un modernismo, di marca erodiana, affermando che il concentrasi “esclusivamente” sull’aborto e sull’eutanasìa quali peccati contro lo Spirito Santo, è stato un errore in quanto, secondo il pensiero galantino, “majora praemunt”, ci sono cose più importanti – e lo dirà in appresso – che non la difesa della vita nel suo nascere e nel suo finire.
Ma non aveva detto  “penso alla sacralità della vita”? E quale ambito di difesa e di impegno cristiano è più consentaneo a questo suo “pensare” se non proprio quello dell’aborto e dell’eutanasìa con cui la società laicista programma ed esegue i suoi nefandi progetti negando proprio la sacralità della vita col ridurla a mero fenomeno fisico?
Capriole  disinvolte, le sue, che dovrebbero far arrossire almeno in senso logico se non morale. Ma continuiamo.

Non può essere così, in mezzo c’è l’esistenza che si sviluppa”. Parole in piena libertà degne di quel farfugliare, portato in auge da un attore comico, e denominato “supercazzola”, con cui si tende stupire l’ascoltatore con l’emanare vuoti e compositi suoni e concetti sghembi. Ci dica, il mons., quale esistenza possa darsi “in mezzo” a chi gli è stata tolta già dal suo primo formarsi o a chi gli vien troncata artificialmente in dirittura di arrivo.
Che vuol dire “c’è l’esistenza che si sviluppa”? L’esistenza di chi? Del bambino che è stato aspirato dal grembo materno e triturato da una tramoggia? O dell’anziano a cui si nega l’alimentazione e il diritto a morire secondo la volontà di Dio?
O forse, il vescovo, intende che, prescindendo dagli aborti e dalle eutanasìe, c’è la vita degli altri e alla quale si deve rivolgere l’’attenzione?
Ma non è la cura dei più deboli, degli emarginati, il nuovo verbo bergogliano, la nuova pastorale, la nuova accoglienza? Ed allora, rev. mons., a che questo ciurlar  nel manico?

Ed ecco l’ignominia dissacrante, l’espressione del disprezzo che il vescovo, nel solco di una mistificante mariologìa, nutre nei confronti del Rosario. “Io non mi identifico con i visi inespressivi di chi recita il rosario fuori dalle cliniche che praticano l’interruzione di gravidanza”.
E’ chiaro che per il segretario CEI – Consiglio Eretico Italiano – i giovani che, affrontando e soffrendo lazzi e disprezzo del mondo oltre che arresti e cariche della polizia, pregano davanti alle cliniche abortiste, novelli lager di smaltimento umano, sono, intanto, inespressivi perché non urlano, non lanciano molotov, non spaccano vetrine o incendiano automobili, ma soprattutto sono inespressivi perché immobili, come statue di cera, a recitar il Santo Rosario, una devozione  notoriamente intesa quale noioso mantra che rende inerti e fiacca le energie vitali. Giovani e adulti a perder tempo biascicando Ave Maria mentre intorno, nel mondo circostante, ferve la vita e fervono le problematiche a cui dànno tempo ed impegno altri giovani impegnati, cioè sindacalizzati, che lottano, sì, contro l’aborto ma lo fanno lavorando (?) per assicurare la salute – ma la vita del nascituro non rientra, monsignore, in questa preoccupazione? – per garantire il diritto al lavoro, per pulire gli arenili, per sovvenire alle necessità delle colonie feline, o sveltire il servizio di mensa della benemerita Comunità di S. Egidio nella chiesa di Santa Maria In Trastevere ma, soprattutto  udite udite! per assicurare la “qualità delle persone”. Parole di tipo snob politichese perché ci vien facile obiettargli che la qualità della persona è data, prima di tutto, dal garantirle la vita, cosa per la quale lottano sul serio, pregando, quei giovani “inespressivi”.
Un ragionamento, il suo, contorto e ridicolo e blasfemo fatto di affermazioni e di immediate contro-affermazioni, di funambolismi verbali e di vuoti concettuali. Come un perfetto modernista che non crede all’efficacia e alla forza della preghiera.

Brilla, per l’ipocrisìa culturale, quel denominare l’aborto con una più elegante e meno traumatica “interruzione di gravidanza”. Espressione inespressiva e concettualità supponente quanto idiota perché il verbo “interrompere”  - lat.inter/rumpere, arrestare a metà – ha il suo prevalente significato nell’area semantica della sospensione di un alcunché a cui succede una ripresa. Ora, ad aborto effettuato, ci dica il monsignore, in qual modo sarebbe possibile riprendere la gestazione. Perciò, prima di parlare e sprecare fiato, conti fino a mille. Il suo, oltre ad essere un ragionare eterodosso e aberrante, è il tentativo subdolo di indicare aspetti gravi e delittuosi con termini edulcorati, con litoti, con attenuazioni. Un segno, questo, di un intelletto corrotto e pavido che, di fronte alla solare verità evangelica tenta di dare autorevolezza ai suoi propositi di virtù della propria funzione episcopale.

A dar seguito al suo sillogismo: Rosario = mantra, ergo, chi lo recita =  ebete, dobbiamo concludere che i santi di cui abbiamo dato sommario e brevissimo elenco, santi che praticarono la devozione del Rosario lucrando, quindi, la santità, sono degli inespressivi e dei falliti, pallide larve che avrebbero meritato se si fossero dedicati alle “cose di quaggiù”, al pasto quotidiano del povero e alla salvaguardia del posto di lavoro dell’operaio.
Ma più grave è l’offesa che mons. Galantino arreca alla Vergine Maria additandola quale responsabile diretta di simile perversione culturale per aver, Ella, suggerito la recita del Suo Rosario, notoriamente inefficace,  ed aver causato, perciò, l’imbecillità di tanti uomini, donne, giovani e vecchi  che ne hanno praticata la devozione.

E questo sarebbe un vescovo per la rimozione momentanea del quale il vescovo di Roma, Francesco, ha chiesto scusa ai diocesani di Cassano all’Jonio?

Fortunati costoro  che, per qualche tempo saranno al sicuro da siffatto lupo travestito da pastore, ma sventurata l’intera comunità cattolica italiana per averlo a reggente della CEI!!



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