ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 9 giugno 2014

Pater?.. numquam certus..!

L'abbraccio del Papa con Shimon Peres e Abu Mazen in Vaticano

"Figli di un solo padre". Pace possibile, Bergoglio: il Maligno ha impedito la concordia tra Israele e Palestina

Papa Francesco riceve Peres e Abbas in Vaticano
Si stringono la mano sotto gli occhi di Papa Francesco due volte, il presidente israeliano Shimon Peres e quello palestinese Mahmoud Abbas: prima, al termine dell'incontro che ciascuno di loro ha avuto privatamente con Papa Francesco; e poi, al termine dell'invocazione per la pace, poco prima di andare tutti insieme a piantare un albero di ulivo nei Giardini Vaticani. Ed è forse questa l'immagine che più di tutte rappresenta la volontà di Francesco per questo evento, nel nome della «cultura dell'incontro» di cui ieri si è fatto concretamente promotore. Ma alla «cultura dell'incontro» si deve aggiungere la preghiera, il vero strumento diplomatico di Papa Francesco. Perché, lo dice lui stesso nel discorso, «più di una volta siamo stati vicini alla pace, ma il maligno, con diversi mezzi, è riuscito a impedirla». Da qui nasce l'invocazione per la pace insieme ai due presidenti.

Per il Papa, questa è l'ideale conclusione del suo viaggio in Israele. Tanto che c'è anche il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. E tanto che ha voluto nelle delegazioni anche i suoi amici, il rabbino Abraham Skorka e il dignitario islamico Omar Abboud, che già lo avevano accompagnato in Terrasanta.
Non è stato facile predisporre il tutto. Le delegazioni sono state accuratamente selezionate. A sorpresa c'è anche il sindaco di Betlemme, Vera Baboun. L'evento si struttura in tre parti, una per ciascuna delle religioni, che parlano in ordine cronologico di nascita: ebraismo, cristianesimo, islam. E ciascuno di questi tre momenti è diviso in altre tre parti: una lode a Dio, una richiesta di perdono per aver mancato di comportarci come fratelli e sorelle, una invocazione a Dio affinché conceda il dono della pace. Arriva il momento dei discorsi. Papa Francesco ricorda che tutti stanno pregando per la pace, e sottolinea che per fare la pace ci vuole «più coraggio per fare la pace» che «per fare la guerra». «Ci vuole coraggio per dire sì all'incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza». «Fratello» è la parola con la quale «spezzare la spirale dell'odio e della violenza», ma per farlo si deve pregare, dice il Papa. E allora eleva una preghiera, in cui chiede a Dio di infondere in noi «il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace», di essere «artigiani della pace» e di essere responsabili ad «ascoltare il grido dei nostri cittadini che ci chiedono di trasformare le nostre armi in strumenti di pace, le nostre paure in fiducia e le nostre tensioni in perdono». Anche Shimon Peres condivide questo appello. A fine giugno termina il mandato da presidente, e pone fine a una carriera lunga 66 anni, che lo ha visto anche fondatore dello Stato di Israele. Voleva fortemente questo incontro, e ha trovato in Papa Francesco una sponda formidabile. Dice Peres: «Due popoli - gli israeliani e i palestinesi - desiderano ancora ardentemente la pace. Le lacrime delle madri sui loro figli sono ancora incise nei nostri cuori. Noi dobbiamo mettere fine alle grida, alla violenza, al conflitto. Noi tutti abbiamo bisogno di pace. Pace fra eguali». È un discorso denso di riferimenti biblici, quello di Peres. Che sottolinea: «La pace non viene facilmente. Noi dobbiamo adoperarci con tutte le nostre forze per raggiungerla. Per raggiungerla presto. Anche se ciò richiede sacrifici e compromessi». E conclude con una preghiera: «Colui che fa la pace nei cieli faccia pace su di noi e su tutto Israele e sul mondo intero, e diciamo: Amen».
Fa del suo discorso una preghiera, Mahmoud Abbas-Abu Mazen seppur con forti venature politiche. Dopo il suo accordo con Hamas, i rapporti con Israele nel processo di pace si sono un po' raffreddati. Ma l'accordo ha anche avuto riscontri non troppo negativi da Usa e Cina, sebbene Hamas sia considerato un gruppo terroristico. E forse è questo che porta Abbas a sottolineare per ben tre volte che Gerusalemme è per loro Città Santa, citando molto del cattolicesimo e niente dell'ebraismo. Chiede Abbas «di rendere il futuro del nostro popolo prospero e promettente, con libertà in uno Stato sovrano e indipendente», ma anche «sicurezza, salvezza e stabilità al popolo della Regione», perché «riconciliazione e pace sono la nostra meta».
«O Signore - prega Abbas - porta una pace comprensiva e giusta al nostro Paese e alla regione, cosicché il nostro popolo e i popoli del Medio Oriente e il mondo intero possano godere il frutto della pace, della stabilità e della coesistenza».
E poi, i quattro vanno a piantare un albero di ulivo, quindi si parlano per una ventina di minuti nella Casina Pio IV. All'uscita, i volti dei quattro sono rilassati. Sono stati insieme anche in pullmino, nel tragitto dalla Domus Sanctae Marthae ai Giardini. E l'incontro finisce con Papa Francesco e Bartolomeo che si avviano insieme verso la Domus Sanctae Marthae, dove ceneranno insieme.
Nel giorno di Pentecoste, tutti si sono parlati tra loro. È questo l'inizio di un rinnovato cammino di pace?
Andrea Gagliarducci

Quell’ispirazione nata in Terra Santa: riunire i “fratelli” delle tre religioni

Per Bergoglio un impegno da “artigiano di pace”
CITTÀ DEL VATICANO
«Ci sono dei gesti che mi vengono dal cuore, in quel momento...». Così Papa Francesco aveva risposto a chi due settimane fa gli chiedeva come fosse nato quell’omaggio con il bacio della mano ai sopravvissuti della Shoah nello Yad Vashem. 

Ed è in questo modo che a Bergoglio era venuta l’idea di far ritrovare insieme per pregare i responsabili dei due popoli, israeliano e palestinese, durante il breve viaggio in Terra Santa dello scorso maggio. Il sogno non si era potuto realizzare in loco, ma il Papa non ci aveva rinunciato, e aveva così invitato a casa sua Shimon Peres e Abu Mazen.  
L’invocazione a Dio perché doni la pace in Terra Santa che si è svolta ieri sera in Vaticano è un gesto nuovo e inedito. Giovanni Paolo II, dopo l’11 settembre, aveva invitato ad Assisi i leader delle religioni. Ma non aveva portato a pregare nello stesso luogo chi si combatte. Più che le parole, comunque significative, a colpire della cerimonia nel giardino triangolare con il Cupolone che si stagliava sullo sfondo, sono stati i silenzi, la partecipazione, le immagini. Qualcosa di veramente «potente», ha commentato a caldo il portavoce del presidente Peres. Una celebrazione curata in ogni dettaglio dal Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, con uguali spazi alle tre religioni professate da chi vive in Israele e Palestina. Tre preghiere distinte, senza confusioni, ma accompagnate da tanti credenti in tutto il mondo, tutti spiritualmente presenti accanto ai quattro vegliardi che con le pale di metallo blu hanno piantato un piccolo ulivo, simbolo della pace e pianta a suo modo emblematica: ci vogliono molti anni prima che possa portare frutto. 

Un gesto inedito, quello di ieri sera, anche per i cristiani. Uniti nell’abbraccio tra Francesco e il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, entrambi al centro della scena al momento del saluto finale di pace. Una minoranza, quella cristiana, sempre più riconciliata al suo interno, che può giocare un ruolo chiave nella pacificazione di israeliani e palestinesi. 

Francesco ha voluto gettare un sasso in un processo negoziale stagnante, interrotto dopo la decisione di Abu Mazen di dar vita a un governo di unità nazionale con esponenti di Hamas, alla quale ha fatto seguito l’annuncio da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu del via libera a migliaia di nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania. Il vescovo di Roma non ha agito da politico, ha portato i due presidenti a pregare, come uomini di fede, all’ombra del Cupolone di San Pietro. Le tensioni e i conflitti aperti rimangono tanti. Sia Peres che Abu Mazen hanno fatto riferimento nei loro interventi, all’unicità di Gerusalemme come città santa delle loro rispettive fedi. Ma il presidente israeliano, ormai prossimo alla scadenza del suo mandato, ha anche riconosciuto che la pace va costruita anche «se ciò richiede sacrifici o compromessi». 

Francesco non ha fatto il diplomatico né il mediatore. Ha però detto parole chiarissime sui troppi figli vittime innocenti della guerra e della violenza: «È nostro dovere far sì che il loro sacrificio non sia vano». «Per fare la pace - ha aggiunto - ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d’animo». 

E invocare Dio, alzare gli occhi al cielo, non significa affatto rinunciare all’impegno di costruire «artigianalmente», ogni giorno e con coraggio, la pace. Aver pregato nello stesso luogo, con rabbini, preti e imam, con i rappresentanti dei popoli israeliano e palestinese, nel giorno in cui i cristiani festeggiano la Pentecoste - festa dello Spirito Santo che «è armonia» come sempre ricorda Bergoglio - è un richiamo e una responsabilità. La spirale dell’odio e della violenza va spezzata «con una sola parola: “fratello”. Ma per dire questa parola - ha concluso Francesco - dobbiamo alzare tutti lo sguardo al cielo, e riconoscerci figli di un unico Padre».  
Corriere della Sera
(Luigi Accattoli) Sessanta persone su un prato e tra due alte siepi, a cantare salmi e sure nel verde: è questa – forse – l’immagine più viva della preghiera di ieri. Non è solo per godere del fresco della sera che è stato scelto quel luogo, ma per non incappare in simboli che potevano contristare gli ospiti. Sia gli ebrei sia i musulmani sono infatti refrattari alle immagini, e due volte suscettibili nei confronti della sterminata iconografia cattolica. 
Il sogno di un incontro simile a quello di ieri l’aveva coltivato a lungo Giovanni Paolo II in vista dell’anno duemila e aveva immaginato di realizzarlo sul monte Sinai (Egitto): la «santa montagna» dove Mosé aveva ricevuto le Tavole della Legge poteva essere — con le sue rocce — un luogo appropriato perché in esso ebrei, cristiani e musulmani potessero stipulare un patto di pace in vista del nuovo millennio. Ma pregare in unità di luogo pare ancora un’impresa impossibile per i figli di Abramo in Medio Oriente. Il sogno wojtyliano fu cassato dai veti incrociati: risultò impossibile che gente proveniente da Israele potesse salire sul Sinai. Non abbiamo fatto molta strada da allora e neanche Francesco è riuscito a programmare un incontro delle tre fedi nei giorni della visita in Terra Santa del 24-26 maggio. Dopo mesi di trattative risultò che la regola delle regole nella terra che è detta «santa» è quella di sempre: io non prego a casa tua, tu non preghi a casa mia. Papa Bergoglio, ricco in fantasia, ha detto infine ai presidenti di Israele e della Palestina: «Offro la mia casa in Vaticano per ospitare questo incontro». Ma anche la «casa» del Papa — sia il Palazzo Apostolico dove lavora, sia il convitto Santa Marta dove dorme, mangia e celebra la messa — è un luogo di straordinaria densità simbolica, donde l’idea di collocare l’incontro nei Giardini e in un angolo di essi appartato nel verde, dove fosse naturale — infine — piantare un ulivo.
fonte: Corriere della sera - Moked
http://www.ilsismografo.blogspot.it/2014/06/vaticano-il-prato-verde-e-il-ricordo.html
Santa Marta, porta del mondo Ma il rabbino di Roma non c’è
Corriere della Sera
(Paolo Conti) Santa Marta centro del mondo. Ancora una volta. Addirittura per la scommessa della pace in Medio Oriente. Ore 16 di ieri, domenica 8 giugno. La piccola via della Stazione Vaticana, isola di tranquillità nel caos della zona romana di porta Cavalleggeri fino all’elezione di papa Francesco, è presidiata dal mattino presto: una trentina tra poliziotti e carabinieri e da una quindicina di auto di servizio. L’intera area (dove, fino agli anni Cinquanta, funzionava un pittoresco mercato di quartiere all’aperto come a Campo de Fiori) recintata dai bandoni gialli dei Vigili Urbani per vietare la sosta privata, pena la rimozione.
E’ qui la via di accesso più diretta proprio al palazzo di Santa Marta, scelto come residenza ormai anche ufficiale da papa Francesco dopo il definitivo abbandono dell’Appartamento Papale del Palazzo Apostolico, usato solo per le visite di Stato e per il discorso e la benedizione all’Angelus domenicale delle ore 12. Stavolta non si tratta di un incontro di Stato ma di una preghiera interreligiosa, come sottolinea l’assoluta assenza di qualsiasi bandiera e di ogni segnale di riconoscimento sulle auto e sui furgoni delle diverse delegazioni. Solo i due elicotteri della polizia che sorvolano l’area per motivi di sicurezza segnalano a una Roma assolatissima l’eccezionalità di quegli ospiti chiusi in quelle vetture blu e nere. A metà di via della Stazione Vaticana, ad un angolo delle Mura Leonine, si apre l’ingresso del Perugino che collega la Repubblica italiana con lo Stato Vaticano proprio a fianco di Santa Marta. Ed è lì che entrano gli invitati sulle auto blu blindate e con i vetri oscurati, tra le 17.15 e le 18, accompagnate da scorte, carabinieri motociclisti, sirene. E’ lo stesso ingresso usato da Matteo Renzi il 4 aprile per la sua visita privata in compagnia della moglie e di uno dei loro tre figli. Questa domenica di preghiera voluta da papa Francesco con il presidente dello Stato di Israele, Shimon Peres, e con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, sottolinea ancora una volta la centralità internazionale di Santa Marta come luogo dei «veri» incontri di papa Francesco: non l’ufficialità delle visite di Stato regolate da un rigido protocollo e dai discorsi formali ma i colloqui che davvero premono a Bergoglio che esce dalla «sua» stanza 201, ormai famosa in mezzo mondo, e incontra subito «sotto casa» l’interlocutore di turno. Capitò anche il 17 marzo scorso alla presidente dell’Argentina, Cristina Kirchner, che così conobbe anche la cucina di Santa Marta, universalmente riconosciuta non tra le migliori del mondo. Ma l’incontro voluto da papa Francesco ha anche un risvolto negli equilibri interni all’ebraismo italiano. C’è una chiara differenza di valutazioni tra l’Unione nazionale delle comunità ebraiche, guidata da Renzo Gattegna, e la comunità romana, la più popolosa e forte, condotta da Riccardo Pacifici e spiritualmente affidata al rabbino Riccardo Di Segni. Gattegna, appena finito l’incontro, esprime chiare parole di sincera gratitudine al Pontefice: «Una cerimonia significativa, un momento di raccoglimento al quale ho aderito affinché pace e comprensione reciproca possano sempre trionfare oltre ogni divisione politica, culturale e religiosa. Esprimo quindi profonda gratitudine per l’iniziativa di papa Bergoglio». L’assenza del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni (dovuta ad «altri impegni») arriva dopo la sua netta critica apparsa su «Pagine ebraiche» di giugno: «Trattandosi di un incontro religioso sfugge il significato della presenza di una figura chiaramente laica come quella di Peres, che non mi sembra un assiduo frequentatore di luoghi di preghiera e che mi sorprenderebbe iniziasse a esserlo a casa del papa. È un’impostazione alla quale guardo non soltanto con perplessità ma che trovo anche pericolosa». E anche Pacifici, appena finita la cerimonia, protesta per l’assenza di riferimenti chiari al mondo ebraico nel discorso di Abu Mazen. Un equivoco poi chiarito e dovuto probabilmente a una differenza nei testi distribuiti alle delegazioni e poi battuti dalle agenzie. Comunque Pacifici sottolinea «come alla base di ogni trattativa politica debbano esserci i valori condivisi e il rispetto nei confronti del prossimo. L’iniziativa di papa Francesco dovrà però essere solo il primo tassello di un lungo percorso». Differenze che arrivano dopo l’uscita dei rappresentanti romani vicini a Pacifici dal Consiglio dell’unione delle comunità ebraiche italiane, guidato appunto da Gattegna.

http://ilsismografo.blogspot.it/2014/06/vaticano-santa-marta-porta-del-mondo-ma.html

Francesco prega per la pace ma non si fa illusioni

"Spero che questo incontro sia un cammino alla ricerca di ciò che unisce, per superare ciò che divide". A dirlo è il Papa, all'inizio dell'intervento pronunciato al termine dei momenti di preghiera che hanno visto riuniti per la prima volta in Vaticano i tre credo abramitici. Francesco non si fa illusioni, sa che la pace non è dietro l'angolo, e poco prima di piantare un albero d'ulivo – albero che non a caso darà i suoi frutti tra diversi anni – aveva sottolineato che "il mondo è sì un'eredità che abbiamo ricevuto dai nostri antenati, ma è anche un prestito dei nostri figli: figli che sono stanchi e sfiniti dai conflitti e desiderosi di raggiungere l'alba della pace". Spazio anche per un riferimento ai "muri dell'inimicizia" che "i figli ci chiedono di abbattare". E per fare la pace, ha aggiunto il Pontefice, "ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all'incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza". E la storia, ha chiarito ancora Francesco, "ci insegna che le nostre forze non bastano. Più di una volta siamo stati vicini alla pace, ma il maligno, con diversi mezzi, è riuscito a impedirla". La chiamata cui si deve rispondere è a "spezzare la spirale dell'odio e della violenza, a spezzarla con una sola parola: 'fratello'. Ma per dire questa parola – ha scandito il Papa – dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo padre". Netta e dura la richiesta di perdono per le colpe dei cristiani letta dal cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, mentre più sfumati sono stati i toni nelle preghiere lette dalle altre due comunità presenti.
“Preghiamo che contemplando Gesù i cristiani siano capaci di pentirsi delle parole e degli atteggiamenti causati dall’orgoglio, dall’odio, dal desiderio di dominare gli altri, dall’inimicizia verso i membri di altre religioni e verso i gruppi più deboli della società, come i migranti e gli zingari”, ha detto Turkson nel suo breve intervento.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/23708
INVOCAZIONE RIUSCITA, MA C’E’ CHI HA PREGATO PIU’ PER LA VITTORIA – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 9 marzo 2014

Un evento eccezionale, nuovo, di forte valenza simbolica quello di domenica di Pentecoste nei Giardini vaticani per la pace in Terrasanta – Discorsi sentiti del Papa e di Shimon Peres – La buona disponibilità palestinese - C’è chi nota tuttavia  che tra i convenuti una parte ha pregato per la pace, un’altra forse più per la vittoria – Il Papa a breve in Sinagoga a Roma: “Preparatevi che arrivo presto”- Il Rabbino Capo Di Segni assente per impegni assunti precedentemente in Israele


All’uscita i volti sono soddisfatti. Concordano padre Lombardi e il Sostituto Segretario di Stato, arcivescovo Angelo Becciu, nel ritenere quanto accaduto a fine pomeriggio nei Giardini Vaticani un evento nuovo e dal forte sapore simbolico, tale da potenzialmente aprire una strada nuova per la pace in Medio Oriente. Contenta anche Margaret Karam – invitata dal Papa - nata ad Haifa, in Galilea, che ha letto in arabo la preghiera di san Francesco per la pace. Tuttavia la consacrata focolarina, impegnata nel dialogo israelo-palestinese – si rammarica che da parte musulmana qualche lettore abbia voluto aggiungere a braccio al testo scritto frasi assai dure e poco consone al clima dell’incontro.
Notano la stessa forzatura anche alcuni membri italiani della delegazione di Israele, raggiunti poi da un rabbino molto noto: “Si è avuta la sensazione che una parte dei presenti ha pregato veramente per la pace, un’altra forse più per la vittoria”. Dal gruppo ebraico si conferma la visita a breve del Papa in Sinagoga a Roma: “Preparatevi che arrivo presto”, ha ribadito ieri Francesco. Abbiamo anche chiesto dei motivi dell’assenza del Rabbino Capo di Roma Di Segni all’incontro storico di ieri: a qualcuno era parsa volontaria, date le sue dichiarazioni sulla visita in Terrasanta in Sala Stampa estera (vedi, in questa stessa rubrica: Visita in Terrasanta: parole franche del Rabbino Di Segni) e sulla rivista Pagine ebraiche di giugno (“Il Vaticano è parte in causa in questo conflitto e non può ergersi come mediatore super partes” o critiche a Shimon Peres, troppo laico per essere “un assiduo frequentatore di luoghi di preghiera” ). Tuttavia la realtà è un’altra. Di Segni da tempo aveva assunto un impegno universitario in questi giorni in Israele e non gli è stato possibile tornare a Roma.
Che cosa resta dell’ Invocazione per la pace?
Che cosa resta dell’ Invocazione per la pace vissuta domenica in un tardo pomeriggio già estivo, con un sole che ha dardeggiato per la prima mezz’ora (ma solo sulla nostra postazione),  in un luogo già di per sé eccezionale: una lingua di prato a forma triangolare dentro il Vaticano, delimitata da due alte siepi ed ‘aperta’ sul lato corto verso il Cupolone? Il fatto prima di tutto che si sia tenuta. E si sia tenuta dentro il Vaticano, la ‘casa del Papa’. Con tali partecipanti. Con le conseguenze connesse, speriamo positive, sul piano dei rapporti internazionali e interreligiosi. Non è chi non veda poi l’unicità dell’incontro (che non ha in sé dei precedenti veri, dato che durante il Giubileo del 2000 – giornata del dialogo interreligioso -ognuno aveva pregato in un luogo separato fuori del Vaticano e poi si erano tutti ritrovati in Aula Nervi). Da evidenziare anche il clima molto spirituale dell’incontro, caratterizzato dalla meditazione suscitata e favorita sia dagli intermezzi musicali che dalle preghiere (lode a Dio per il dono della creazione, richiesta di perdono, invocazione per la pace in Terrasanta – è in quest’ultima parte che forse c’è stata qualche sbavatura musulmana sull’argomento ‘Gerusalemme’).
Molto coinvolgente il discorso del Papa, di cui ricordiamo due passi tra i più significativi: “Per fare la pace ci vuole coraggio, molto più che per fare la guerra” e “La storia ci insegna che le nostre sole forze non bastano. (…) Non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invochiamo Dio come atto di suprema responsabilità, di fronte alle nostre coscienze e di fronte ai nostri popoli”.
Toccante l’intervento del presidente israeliano, con un Shimon Peres molto emozionato, sia poco dopo l’inizio nella citazione del Libro dei Salmi (“Chiedete pace per Gerusalemme/Vivano sicuri quelli che ti amano/Sia pace nelle tue mura/Sicurezza nei tuoi palazzi”…) che verso la fine, nella citazione di Isaia: “Essi trasformeranno le loro spade in aratri e le loro lance in falci. Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. Di Shimon Peres un altro passo sicuramente molto sofferto e meditato: “La pace non viene facilmente. Noi dobbiamo adoperarci con tutte le nostre forze per raggiungerla. Per raggiungerla presto. Anche se ciò richiede sacrifici o compromessi”.
Anche Abu Mazen, di cui va in ogni caso evidenziato il coraggio di partecipare da protagonista a un incontro inaudito per una parte del mondo musulmano, ha detto parole importanti: “Perciò noi Ti chiediamo, Signore, la pace nella Terra Santa, Palestina e Gerusalemme insieme con il suo popolo. Noi ti chiediamo di rendere la Palestina e Gerusalemme in particolare una terra sicura per tutti i credenti, e un luogo di preghiera e di culto per i seguaci delle tre religioni monoteistiche – Ebraismo, Cristianesimo, Islam – e per tutti coloro che desiderano visitarla come è stabilito nel sacro Corano”.
E il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo? Seduto in un posto d’onore distinto dai tre altri protagonisti, ha letto un brano famoso di Isaia, come primo momento della parte di preghiera cristiana: “Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra (…) Il lupo e l’agnello pascoleranno insieme, il leone mangerà la paglia come un bue, ma il serpente mangerà la polvere”. Il Patriarca ortodosso ha poi piantato, insieme con il Papa, il presidente di Israele e il presidente dello Stato di Palestina un ulivo, vicino a dove tutti erano seduti. Un’immagine ‘forte’ che suscita tenerezza esperanza quella di quattro uomini anziani, gravati di pesanti responsabilità verso i loro popoli e il mondo intero, ognuno con una pala in mano attorno all’ulivo della pace.
Di quello che i quattro protagonisti si sono detti dopo, nella Casina di San Pio V, non sappiamo. Erano da soli, senza neppure il Grande Tessitore dell’ Invocazione alla pace, padre Pierluigi Pizzaballa. Ha tessuto bene il Custode di Terrasanta. E’ stato un incontro tra istituzioni e tra popoli – e dunque ha avuto indubbiamente un lato politico  - ma soprattutto un incontro di preghiera. Nel tentativo di aprire strade nuove anche laddove la politica fin qui – come ha riconosciuto esplicitamente nel suo discorso papa Francesco – ha fallito. Illusione? Peres lascerà presto la scena istituzionale israeliana? In Israele il ‘duro’ (ma anche pragmatico) Netanyahu è il più forte? Israele vuole incrementare la costruzione di insediamenti in Cisgiordania? Mahmud Abbas cammina sempre sul filo del rasoio? Tutto vero. E però, intanto, un primo passo in una direzione inconsueta è stato fatto. Forse qualcosa incomincerà a muoversi nella giusta direzione, magari grazie al soffio dello Spirito, che si posa dove vuole. Ieri era Pentecoste: Spirito del Dio vivente/accresci in noi l’amore/ Pace, gioia , forza/ nella tua dolce presenza/Fonte d’acqua viva/purifica i cuori/ Sole della vita/Accendi la tua fiamma… Non è il caso di porre limiti all’azione dello Spirito Santo. 
http://www.rossoporpora.org/rubriche/papa-francesco/386-invocazione-riuscita-ma-c-e-chi-ha-pregato-piu-per-la-vittoria.html
Torah
VATICANISTA DE LA STAMPA
Uno dei momenti più suggestivi è stato quello delle invocazioni di pace: «Togli tutte le colpe; accetta ciò che è buono, e noi offriremo il frutto delle nostra labbra», ha chiesto in ebraico un rabbino con barba e lobbia sul capo. La lettura dei testi della Torah ha impegnato 4 rabbini ed è stata conclusa dal rabbino statunitense David Rosen, presidente della Lega Antidiffamazione, che ha cantato con grande partecipazione la preghiera del giorno del Kippur. Qualcuno l'ha già definito il nuovo «quartetto» per la pace in Medio Oriente. Papa Francesco, il presidente israeliano Shimon Peres, quello palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas), insieme al patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, riuniti nei Giardini Vaticani per iniziativa del Pontefice per una storica invocazione comune di pace delle tre religioni monoteistiche e dei più alti rappresentanti dei due popoli in conflitto, hanno mostrato al mondo come sia possibile aprire una nuova via, a partire da una rafforzata vicinanza delle rispettive fedi, basata sul rispetto e la fiducia, laddove la politica resta attanagliata dai reciproci veti, dalle annose ostilità e diffidenze. «Una fiammella di speranza», sintetizza il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, reduce dall'incontro di preghiera sul Medio Oriente in Vaticano, commenta a caldo l'iniziativa voluta da papa Francesco con i presidenti israeliano e palestinese, Shimon Peres e Abu Mazen.Un evento «religioso e non politico» che «ha voluto colpire i cuori, soprattutto dei giovani», sia israeliani sia palestinesi, ha aggiunto Pacifici, il quale ha poi sottolineato: «È ora nostro compito far sì che questa fiammella non si spenga».Il presidente degli ebrei romani ha affermato che il fatto che il novantenne Peres e il quasi ottantenne Abu Mazen siano verso fine mandato può rappresentare il segno della volontà di lasciare «una staffetta di speranza». Anche se - ha notato - «la situazione è disomogenea» visto che Peres lascerà la presidenza (che secondo l'ordinamento israeliano non ha poteri esecutivi) di qui a qualche giorno, mentre Abu Mazen «è impegnato in campagna elettorale» in vista del voto palestinese fissato entro fine anno. E, secondo Pacifici, deve fare i conti nei Territori anche con chi «predica l'odio e vuole lo sterminio». A proposito di Abu Mazen, non è mancato stasera un breve "giallo" sul contenuto del suo intervento in Vaticano: che nel testo inizialmente consegnato agli ospiti sembrava non contenere un riferimento agli ebrei, presente invece - secondo la traduzione - nel discorso letto poi in arabo. E a conclusione dell' evento Pacifici non ha esitato a intrattenersi col leader palestinese per una chiacchierata fuori protocollo. «Sarebbe stato importante che la preghiera per la pace avvenisse a Gerusalemme perché è lì la città santa alle tre religioni e non il Vaticano». Parola del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che definisce la sua notazione sull'evento di oggi a Santa Marta come «un invito virtuoso» per dare ancor più forza agli obiettivi dell'iniziativa.«Mi auguro - sottolinea Di Segni commentando l'incontro di oggi - che serva a qualche cosa, che porti veramente a conseguenze positive per tutti». Ma al di là di questo il successore del rabbino Elio Toaff non rinuncia a sottolineare «l'aticipita'» del fatto: «l'equivoco che qualcuno potrebbe vedere nell'incontro - osserva - è il fatto che sono presenti politici e religiosi. Ognuno di loro di partenza ha una diversa competenza: i politici fanno i politici e i religiosi fanno i religiosi. E quindi da questo punto di vista è tutto un po' atipico». Per Di Segni - che in questi giorni è in Israele dove oggi ha partecipato ad un convegno all'Università Bar Ilan - c'è anche un altro problema. «Per un uomo che ha fede, la preghiera è uno strumento molto importante. E quindi un grande valore. Nell'ebraismo non si può fare a meno della preghiera ma ci si deve affidare anche alle imprese umane. Se la preghiera viene quindi dal cuore ha senso, altrimenti non si sa se "in alto" sono disposti ad accettarla».«Prendendo questa iniziativa, papa Francesco - insiste il rabbino capo di Roma - si esprime secondo modalità ed espressioni culturali e religiose tipicamente cattoliche che si incastrano con difficoltà con quelle ebraiche e musulmane. È il trialogo a essere difficile da questo punto di vista».«La preghiera - rimarca - ha senso se una persona si rivolge con cuore sincero. Credo però che ognuno dei tre metterà la sua visione completamente differente. Quando Abu Mazen parla di ingiustizia e sofferenza, penso abbia un concezione diversa da quella di Peres». Un ulteriore motivo di cautela, a giudizio di Di Segni, è legato al fatto che a differenza di Abu Mazen e di Peres, «papa Francesco riveste un duplice ruolo: quello dell'uomo politico e dell'uomo di fede. E l'uomo politico rappresenta una serie di interessi nell'area in questione. Non è un mediatore al di sopra delle parti, bensì parte integrante del discorso».«Tutti e tre i punti del triangolo - conclude il rabbino capo di Roma - hanno quindi le loro istanze. Certo è che se `il piano di sopra´ le accoglie, allora può essere che qualche cosa succede. Provarci non fa male».  

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