La teologia desiderante di Kasper sopprime l’amore cristiano, punto.
Roma. “Il vangelo della famiglia esiste ed è luce per la Chiesa e per gli uomini. Dinanzi all’insistenza di Papa Francesco di vegliare alla gerarchia delle verità nella trasmissione del messaggio, possiamo affermare che la verità della famiglia appartiene a questo nucleo”. A scriverlo nel libro “Il vangelo della famiglia nel dibattito sinodale - Oltre la proposta del cardinal Kasper” (edito da Cantagalli, sarà in libreria dal 1° ottobre) sono due docenti al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su matrimonio e famiglia, l’ordinario di Antropologia filosofica Stephan Kampowski e l’ordinario di Teologia pastorale del matrimonio e della famiglia, Juan José Pérez-Soba. La prefazione al volume è del cardinale George Pell. “Prendiamo come riferimento per la questione il libro del cardinal Kasper, ‘Il vangelo della famiglia’, che contiene sì importanti riflessioni, ma a nostro parere anche significative imprecisioni. Il nostro contributo deve poter sviluppare gli elementi positivi, contribuire a chiarire quelli ambigui, esprimere le ragioni per cui alcune affermazioni ci sembrano erronee, ma soprattutto, andare oltre il libro”, aggiungono.
“Andare oltre Kasper – spiegano gli autori – significa invitare a compiere il passo che egli non ha compiuto, ovvero passare da una descrizione della bellezza del vangelo della famiglia alla sua capacità trasformatrice della pastorale della Chiesa, del soggetto morale e della cultura circostante”. Tanti i temi toccati, “in una prospettiva di una logica d’amore che deve pervadere le azioni della chiesa”: la sfida culturale come chiave fondamentale per comprendere il ruolo della famiglia nella chiesa-mondo, la centralità della famiglia nell’annuncio cristiano, la descrizione (testi patristici alla mano) di come la chiesa primitiva viveva la questione. Infine, Kampowski e Pérez-Soba delineano un’ipotesi di pastorale adeguata alle sfide della contemporaneità. Dal libro, pubblichiamo il saggio “E’ pensabile l’astinenza? La Familiaris consortio e la Sacramentum caritatis sui divorziati risposati civilmente”.
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ARTICOLI CORRELATI Anche se tutti, noi noDobbiamo far notare uno degli aspetti più curiosi del discorso del Cardinal Kasper al Concistoro. Nella quinta parte, che affronta la questione dell’ammissione alla comunione dei divorziati risposati civilmente, egli sostiene che sia San Giovanni Paolo II, sia Benedetto XVI hanno accennato, rispettivamente in Familiaris consortio e in Sacramentum caritatis, a possibili soluzioni al problema, e ne elenca due: l’alta incidenza di matrimoni non validi e la possibilità di una comunione spirituale. Perché non semplificare le procedure di annullamento, suggerisce Kasper, così che ai divorziati risposati civilmente e convinti che il loro primo matrimonio non fosse valido, sia più facile regolarizzare la propria situazione sotto il profilo del diritto canonico? Per giunta, se i divorziati risposati civilmente possono ricevere una comunione spirituale “extrasacramentale”, perché non quella sacramentale? Non sarebbe pensabile un’evoluzione della dottrina in direzione della tolleranza verso il loro stile di vita?
Tuttavia, nella discussione che ci occupa in queste pagine ci concentreremo piuttosto su ciò che egli non dice. Parleremo cioè di un silenzio carico di significato. Il fatto è che, per qualche ragione, qui il Cardinale non ci restituisce il quadro completo dello stato del dibattito prima di presentare le sue proposte di nuove soluzioni. Cita Familiaris consortio n. 84 e Sacramentum caritatis n. 29 per porre l’accento sul tono nuovo e più misericordioso che la Chiesa ha saputo trovare per parlare dei divorziati risposati, e per suggerire che in quei documenti “vengono già accennate delle soluzioni” quali l’annullamento e la comunione spirituale. Tuttavia la prassi cui entrambi i passi non si limitano ad “accennare”, ma che propongono esplicitamente, è quella che il Cardinale non si disturba neanche a menzionare. Essa ha due elementi. Il primo riguarda il generale “obbligo della separazione”. Nei paragrafi di cui stiamo parlando, tuttavia, entrambi i documenti riconoscono che possono esservi casi in cui è impossibile ottemperare a questo obbligo senza violare impegni seri già assunti, in particolare quelli nei confronti dei figli nati dalla seconda unione. In questo caso la prassi invocata da entrambi i documenti si ferma prima della separazione.
Quanto poi all’obbligo generale di abbandonare un’unione solo civile, è degno di nota il fatto che il Cardinal Kasper non si limita semplicemente a non farvi cenno, ma anzi proponga l’esatto opposto, e cioè dica che può rendersi necessario contrarre un’unione civile, che talvolta sarà percepita “come dono dal cielo”: “Ma molti coniugi abbandonati dipendono, per il bene dei figli, da un nuovo rapporto e da un matrimonio civile, al quale non possono rinunciare senza nuove colpe”. E’ vero che, al n. 84, la Familiaris consortio riconosce che alcuni divorziati “hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli”. Ma il documento chiarisce che neanche questa motivazione, umanamente comprensibile, giustifica la violazione dei propri voti nuziali.
Per giunta non è soltanto, ci sembra, un argomento da classica fiaba, ma è un fatto statisticamente osservabile che il rapporto fra patrigno/matrigna e figliastri/figliastre è spesso tutt’altro che armonioso. Vi è una chiara evidenza che i figliastri/figliastre cor-rono maggiori rischi di subire abusi rispetto ad altri bambini. In altre parole, non è certo che per i figli di un coniuge ingiustamente abbandonato sia meglio crescere con un/a patrigno/matrigna piuttosto che con un solo genitore; o almeno, non è evidente quanto il Cardinale sembra ritenere. Comunque sia, l’idea che un coniuge abbandonato possa avere la necessità morale di contrarre una nuova unione – una unione tale da poterla considerare un dono dal cielo – è davvero una novità che ribalta letteralmente tutti i precedenti insegnamenti del magistero. Ma prendiamo ora il caso dei divorziati risposati civilmente che effettivamente condividono un serio impegno comune che ne rende moralmente impossibile la separazione: impegno come quello nei confronti dei figli nati da quell’unione. Anche qui, il n. 84 di Familiaris consortio e il n. 29 di Sacramentum caritatis sono espliciti. Entrambi i documenti affermano chiaramente che queste persone non si trovano fra Scilla e Cariddi, cioè in una condizione in cui devono necessariamente commettere peccato. Vi è infatti una via d’uscita perfettamente praticabile. Come leggiamo al n. 84 di Familiaris consortio, la riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio.
Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”(…). A nostro modo di vedere, è della massima importanza sottolineare che già oggi la prassi della Chiesa indica una condizione in cui le coppie conviventi di divorziati risposati civilmente possono accostarsi all’Eucaristia. I divorziati risposati civilmente possono infatti ricevere l’Eucaristia (e gli altri sacramenti) anche se vivono sotto lo stesso tetto, purché rinuncino a condividere lo stesso letto. Vien da domandarsi perché il Cardinal Kasper non faccia menzione di questa soluzione. Essa è proposta in documenti e passi di documenti che egli stesso cita: pertanto è improbabile che non ne sia a conoscenza. Forse che questa soluzione per lui è fuori questione, al punto che non ritiene valga nemmeno la pena menzionarla? Ma è proprio fuori questione? San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non ci presentano forse una visione altamente positiva, in cui la persona umana è considerata capace di autocontrollo e di dominio di sé, capace di integrare la propria sessualità nella sfera della responsabilità personale, e in quanto tale capace anche di astenersi dai rapporti sessuali, in particolare quando riceve la grazia dello Spirito Santo, la Legge Nuova, come nuovo principio di azione?
Ecco dunque la più grande delle sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione: come annunciare il vangelo della famiglia in una cultura pansessualista? Si tratta di una cultura che ha fatto sue le premesse fondamentali della rivoluzione sessuale così come proposta, ad esempio, da Wilhelm Reich: l’energia vitale è energia sessuale; il sesso serve alla ricreazione e non alla procreazione; l’astinenza sessuale è impossibile tanto quanto quella dal cibo e dalla bevanda: le persone hanno bisogno di sesso così come hanno bisogno di pane e d’acqua. Non stupisce, allora, che le persone negozino i rapporti sessuali esattamente come negoziano tutte le altre cose necessarie per vivere, cioè acquistino e vendano sesso come fosse una merce. La Chiesa ha sempre contrastato queste premesse, proclamando che il sesso è per l’amore coniugale: un amore che è umano, totale, esclusivo, duraturo e fecondo. Naturalmente, agli occhi di molti nostri contemporanei la Chiesa insegna semplicemente che il sesso serve alla procreazione. Ora, è senz’altro vero che per la Chiesa, sesso e figli vanno pensati insieme: ma vi è di più. Secondo la Chiesa, infatti, anche l’uomo che va da una prostituta con l’esplicito intento di metterla incinta commette peccato. Ciò che la Chiesa insegna e ha sempre insegnato è che l’unico contesto appropriato per l’esercizio della sessualità umana è quello dell’amore coniugale. Così, la tesi della Humanae vitae è che il requisito dell’amore coniugale è di essere aperto alla procreazione di nuove vite umane in ogni e qualsiasi atto coniugale. In altre parole, un incontro sessuale in cui i coniugi si rendano deliberatamente sterili non si può definire un atto di amore coniugale e per questo è peccaminoso. Il sesso è per l’amore coniugale. Al di fuori del contesto di tale amore non raggiunge la sua verità né la sua bellezza. Il sesso può essere per l’amore soltanto se siamo liberi nel suo esercizio, cioè se siamo liberi di astenerci periodicamente o anche permanentemente, considerato che vi saranno sempre delle circostanze – l’assenza temporanea di uno dei coniugi per un viaggio di lavoro, una malattia dell’uno o dell’altro, una prole già numerosa – nelle quali l’astinenza diviene il requisito dell’amore. Astenersi potrà anche essere difficile e impegnativo; potremo cadere ed essere chiamati a rialzarci, ma in via di principio, astenersi è possibile.
Se noi, come figli della Chiesa, non crediamo che sia umanamente possibile, medicalmente sano o socialmente consigliabile limitare l’esercizio della sessualità umana agli atti coniugali, cioè atti liberamente scelti di intimità sessuale compiuti da un uomo e una donna che in pubblico si sono promessi fedeltà ed esclusività sessuale per tutta la vita e che si mantengono aperti alla procreazione di nuova vita, dovremo allora smettere di parlare di questioni attinenti alla sessualità umana, alla famiglia, alla vita umana e alla dignità umana. Praticamente tutto ciò che la Chiesa dice su questi temi sta in piedi o cade insieme a questo fondamentale insegnamento sul ruolo appropriato della sessualità umana. La Chiesa afferma infatti che pertiene alla dignità della persona umana essere concepita in un atto di amore coniugale, essere l’incarnazione dell’amore fra marito e moglie e non il prodotto della volontà di potenza e di dominio di qualcuno. Se è impossibile limitare l’esercizio della sessualità umana ad atti compiuti entro l’unione coniugale, allora non si potrà mai dire che un figlio ha diritto di nascere da una tale unione. Non si farebbe ingiustizia alcuna a un bambino nato da una madre che non ricorda neanche come si chiama il padre, né si farebbe ingiustizia alcuna a un figlio nato dal potere della tecnologia, fabbricato come prodotto di una volontà dominatrice. Se l’origine della vita umana non è un dono, perché non disfarsene quando non serve più? Se io non ho ricevuto me stesso in dono, ma sono stato forzato a venire alla vita dalla volontà manipolatrice del mio o dei miei genitori, perché mai non dovrei porre fine alla mia vita quando mi pare? E perché mai una società non dovrebbe porre fine alla vita dei suoi cittadini quando lo ritiene opportuno?
di Redazione | 30 Settembre 2014
© FOGLIO QUOTIDIANO
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