La Cei ha detto che il reato di immigrazione clandestina è “da rivedere”, l’Osservatore romano, organo della Santa Sede, che “l‘Italia preoccupa, dare aiuto a chi ha bisogno è priorità”, e recentemente Papa Francesco è andato a Lampedusa, e nell’omelia ha chiesto “la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo”. Poi uno va a vedere le leggi del Vaticano, uno Stato indipendente e con un suo codice, e si aspetta che l’accoglienza sia codificata anche nel sistema giuridico della Santa Sede. Invece no, anzi, le leggi del Vaticano, in tema di immigrazione e clandestinità, sono parecchio severe.

Papa Francesco in visita a Lampedusa
Nel 2000, anno del Giubileo, è entrata in vigore la nuova “Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano”, che ha sostituito quella del 1929, che prevedeva l’espulsione “con la forza” per i clandestini: “Coloro che si trovano nella Città del Vaticano senza le autorizzazioni previste (…) possono essere espulsi anche colla forza pubblica” si legge. E dopo il 2000, cosa prevede la legge papale? La nuova “Legge sulla cittadinanza, la residenza e l’accesso” in Vaticano, emanata sotto Papa Benedetto XVI il 22 febbraio 2011, è un po’ più morbida (non si prevede più l’uso della forza per far cacciare dai gendarmi svizzeri gli immigrati non autorizzati) ma resta comunque molto rigida. Si entra se autorizzati, con precise modalità, un permesso rilasciato dal Governatorato, e che può essere rifiutato “qualora ricorrano giusti motivi”, e che comunque è temporaneo. E veniamo al divieto di accesso. L’interdizione scatta, dice l’articolo 12, “quando sussistano giusti motivi”. E “coloro che si trovano nella Città del Vaticano senza le necessarie autorizzazioni o dopo che siano scadute o revocate possono esserne allontanati”. Si viene “allontanati”, non più cacciati con la forza pubblica, ma comunque allontanati. Come gli italiani chiedono si faccia con i clandestini che sbarcano sulle nostre coste. Salvo essere ammoniti dalla Chiesa (che in Vaticano non vuole clandestini) che così si pecca di egoismo e indifferenza.

Ratisbona, 8 anni fa lo scontro con l'Islam: e se oggi scoprissimo che Ratzinger aveva ragione?

RATISBONA RATZINGER


Sebbene le cronache lo abbiano catalogato e archiviato come il classico incidente di percorso, frutto di una svista e di una gaffe da manuale, i manuali di storia potrebbero invece riabilitare Ratisbona e attribuirle un ruolo di snodo epocale e data cruciale, tra i gesti e discorsi celebri che hanno scandito il cammino dell’Occidente. Al punto che un giorno forse, insieme all’11, ricorderemo anche il 12 settembre. In un contesto analogo e non meno drammatico.
Sono trascorsi otto anni dal quel martedì pomeriggio del 2006, quando Joseph Ratzinger, dimenticandosi di essere Papa e tornando professore davanti al suo pubblico, nell’agone casalingo di Regensburg, alzando appena lo sguardo dal testo con vezzo accademico, scatenò la tempesta perfetta, sollevando le piazze islamiche nel raggio di dodicimila chilometri dal Marocco all’Indonesia.
Lo fece immedesimandosi nella figura - e nei tormenti - dell’imperatore e intellettuale Manuele II Paleologo, fiero difensore di Costantinopoli e di una civiltà in declino, in arretramento terminale di fronte alle armate turche. Insomma un grande sconfitto della storia, che oggi con il senno di poi, dopo la resa delle dimissioni e l’esito del pontificato di Benedetto XVI, rivela una somiglianza biografica e di destino con la parabola del Papa emerito. E allunga la sua ombra geopolitica sull’imminente trasferta di Francesco a Istanbul: su invito dell’erede dei sultani, Tayyip Erdoğan, nella nazione che Atatürk rifondò - e reinventò - abolendo il Califfato, il 29 ottobre 1923, come la Santa Sede ha tenuto recentemente a rimarcare.
Ratisbona, in tale scenario, costituisce il supremo tentativo di definire l’Europa per contrapposizione: quale antidoto alla jihad e alle derive fondamentaliste, muovendo dalla concezione di un Dio che pone un limite a se stesso e alla propria onnipotenza, identificandosi con la ragione creatrice, rinunciando all’opzione dell’arbitrio e offrendosi quale modello originario - e originante - di quella che in seguito avremmo chiamato monarchia costituzionale. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio": quella che all’Islam sarebbe apparsa una limitazione inammissibile dell’assolutezza divina, per l’Occidente rappresenta il principio sorgivo e il DNA da cui scaturiscono tutte le sue conquiste: illuminismo e laicità, diritti e democrazia. Che oggi come ai tempi dell’imperatore è chiamato a difendere.
A otto anni da Regensburg e a seicento dall’assedio di Costantinopoli, le argomentazioni del sovrano bizantino trovano singolare corrispondenza, di toni e intenti, nel sofferto editoriale - manifesto, “L’Occidente da difendere”, in cui una settimana fa Ezio Mauro ha focalizzato il tema irrisolto dell’identità dell’Europa, nel frangente del conflitto e della chiamata alle armi, “perché la democrazia ha diritto di difendersi, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa”, scrive. A dimostrazione del fatto che, nonostante l’avvento di un Papa che promuove la cultura dell’incontro, i codici e la cornice del dibattito restano quelli dello scontro fra culture, perfino nella riflessione di un laico e liberal quale il direttore di Repubblica, in veste di Manuele Paleologo dei giorni nostri e nell’orizzonte ideale fissato da Benedetto a Ratisbona.
Un orizzonte che neppure Francesco potrà eludere, da qui a breve, quando a Strasburgo il 25 novembre ritroverà il dilemma identitario, che Ratzinger portò alle conseguenze estreme nell’aula di Regensburg, giungendo alla conclusione che, se non c’è Europa senza cristianesimo, vale anche la reciproca, per cui non può esserci cristianesimo senza Europa, cioè senza l’illuminismo, senza la congiunzione indissolubile di fede e ragione, di Atene e Gerusalemme. “A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto”, domandò il Papa tedesco. “La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso?”
L’interrogativo riecheggia in versione profana e politica, conservando però una religiosa tensione, tra le righe di Ezio Mauro: “Ma noi siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove?”
“Altrove” sta in primis per Oriente e per Califfato, al cospetto di un mondo islamico che, nonostante i pronunciamenti e lo schieramento compatto di rais e muftì, non ha sciolto fino in fondo, nella coscienza delle masse e nei retro-pensieri dei capi, l’ambiguità del legame tra fede e coercizione, a suo tempo additato da Benedetto nel suo vibrante J’accuse, suscitando le devastanti reazioni a tutti note.
Ne è apparso consapevole, in controtendenza con gli entusiasmi del primo anno di pontificato, un cardinale notoriamente filoarabo come Jean - Louis Tauran, Presidente del Consiglio per il Dialogo Interreligioso, già influente ministro degli esteri di Wojtyla e oggi ascoltato “consigliere per la sicurezza nazionale” di Bergoglio.
Con una dichiarazione irrituale in pieno agosto, il suo dicastero ha posto un aut-aut all’Islam e chiesto ai suoi leader “una presa di posizione chiara e coraggiosa”, mettendo in forse il prosieguo stesso dei rapporti con il Vaticano, così come si sono sviluppati nelle ultime tre decadi, a seguito dello storico meeting di Assisi del 1986: “Altrimenti quale credibilità avranno le religioni, i loro seguaci e i loro leader? Quale credibilità potrebbe avere ancora il dialogo interreligioso così pazientemente perseguito negli ultimi anni?”
Con un paragone irriverente ma suadente, diremmo che come la Ferrari di Montezemolo, la Chiesa di Francesco primeggia nel gradimento ma sente di perdere terreno sui circuiti che contano, dalle terre di Abramo alla terra di Gesù, con la falsa partenza del summit di pace nei giardini vaticani, alla vigilia della guerra di Gaza, e l’impossibilità di fermare i tagliagole dello Stato Islamico, senza l’ombrello aereo di Obama, dopo il miraggio della santa alleanza con Putin, materializzatosi sulla via di Damasco e subito svanito nelle nebbie del Don. Sia chiaro: per effetto della cura Bergoglio e delle sue sorprendenti performance, il brand aziendale del cattolicesimo brilla come non mai. Eppure al di là dei “risultati economici” e del fatturato spirituale, con il rientro e riavvicinamento all’ovile di milioni di fedeli, permane un problema di “gestione sportiva”, osserverebbe impietoso Sergio Marchionne.
Cambiando sport ma continuando con le metafore azzardate, si avverte un difetto d’interdizione, di contrasto a metà campo, che misura i limiti della “cultura dell’incontro”, modulo prediletto dal Pontefice argentino, incentrato sulla proposizione del gioco, sulle aperture in avanti e sul fraseggio, privilegiando i fantasisti ma lasciando scoperte le difese. Davanti a un nemico che di converso non rispetta e conosce nessuna regola.
La scienza politica in questo caso, meglio della teologia, che a riguardo depista e inganna, può aiutarci a indagare la portata e la novità fenomeno. A dispetto delle nostalgie genealogiche, dell’integralismo dottrinario e del ritorno al passato, costantemente ostentati, lo scanner del Califfato si mostra infatti geneticamente inedito e futuristico nell’impostazione. Il suo riferimento non sono i regimi teocratici, statici e arcaici, ma i recenti totalitarismi del Novecento, di cui rappresenta “tecnicamente” l’evoluzione e trasposizione su piattaforma religiosa, dopo il cedimento teorico-pratico e il fallimento emotivo dei loro fondamenti atei.
Il profilo non risulta pertanto monolitico, bensì fluido, tendente a destabilizzare, a travolgere ogni resistenza e a istituzionalizzare l’arbitrio, visualizzandolo, coltello alla mano, e assecondando l’aspirazione intrinseca del potere, che è quella di sottrarsi alla rete di consuetudini e norme in cui lo stato storicamente lo imbriglia. E’ questo il paradosso più significativo di una entità come l’IS che, mentre si dichiara “stato”, ne configura de facto il superamento e la negazione.
La religione, nel ruolo assegnato all’ideologia sotto nazismo e stalinismo, diventa dunque il carburante, nonché l’alibi, che consente al despota di assolutizzare desideri e deliri: dai lager ai gulag, dai killing fields di Pol Pot ai bordelli del deserto di al - Baghdadi, con la promessa di schiudere le porte del paradiso e l’obiettivo di spalancare le botole dell’inferno.
Varcando la soglia del parlamento di Strasburgo il 25 novembre, con il bagaglio della sua enorme popolarità, Bergoglio porterà dentro di sé l’eco del discorso più impopolare ma profetico: in cui Ratzinger, come nessun altro, colse e illustrò il nesso tra la concezione del Dio “costituzionale”, che sceglie di autolimitarsi, e il concepimento dell’Europa, che nasce con un vagito di libertà. In un continente che non esisterebbe senza cristianesimo. E in una cristianità che senza Europa non sarebbe quella che abbiamo conosciuto.