ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 7 novembre 2014

LE PERLE DE “LA DOMENICA”

ovvero
disinformazione e amenità della moderna esegesi


26 ottobre 2014 – XXX domenica del tempo ordinario / A – n. 57

pag. 5
«Prima di essere un comando, l’amore è un dono, una realtà che Dio ci fa conoscere e sperimentare, così che, come un seme, possa germogliare anche dentro di noi e svilupparsi nella nostra vita (Papa Benedetto XVI)». 

Questo è l’incipit con cui l’esegeta di turno anticipa il commento omiletico che sarà, poi, condotto sul Vangelo di Matteo (22, 34/40). Un incipit che si avvale di una citazione tratta da qualche libro dell’emerito papa, cardinal Ratzinger, con la qual citazione si intende dar autorità a un pensiero del tutto capovolto rispetto al dettato di Cristo contenuto nel Vangelo citato. Sarà che, oggi, l’ansia di essere “nuovi” su tutto e rivoluzionarî, di camminare in parallelo col mondo e di fornire sempre più interpretazioni della Parola di Dio “ad usum hominis”, stimola un’ebbrezza creativa, parolaia e concettuale, verso un nuovo verismo teologico tanto da raddrizzare le storture di Gesù stesso che, forse, se avesse meglio rapportato il suo pensiero con la povera realtà umana, non avrebbe parlato di “comando” ma di invito, di esortazione, di “dono”.«Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti»
Non c’è dubbio alcuno: Gesù parla di comandi, di ordini e, soprattutto, dei due primi comandamenti relativi al rapporto con Dio in primis, e con il prossimo poi. E se la nostra familiarità con il lessico e la semantica non ci tradisce, comandamento sta a significare un imperativo, tutt’altra cosa che un garbato consiglio dato come gentile presente.
Cosa, invece, che, per un giovane teologo fai-da-te non è, avendo, su una rivistucola parrocchiale del nostro territorio, scritto che i “10 comandamenti”, stante l’etimo ovvio di “deca-logoi”, sono dieci  “discorsi”, dieci “parole”, e non  i “comandi” così coercitivi come il vecchio catechismo ci ha insegnato. Capite? 
Il neobiblista ha dimostrato non solo ignoranza teologica – scambiare i comandamenti, impartiti da Dio, per consigli per gli acquisti - ma financo linguistica, in specie classica che, oltre a conferire al termine “logos” pieno significato di “comando”, rende quest’ultimo, nel testo originale,  con “entolé” cioè: ingiunzione, ordine, prescrizione, ordinanza. Altro che etimologìe da salotto!

Concludiamo dicendo che, solo dopo aver ottemperato, con l’accettazione intellettuale il dato della fede – il paolino “rationabile obsequium” (Rm. 12, 1) senza il quale, come chiosa S. Agostino, “fides nulla est” -  dopo aver fornito prova di “volere” amare e di “amare” nella pratica Dio e il prossimo, il Signore, così come liberamente ci dona la fede, ci farà donodell’amore.
Ma dobbiamo prima obbedire ai suoi comandamenti e attenderci, poi, la ricompensa.

pag. 59
Viene riportata, in questa pagina, una considerazione di Paolo VI che, riferendosi alla riforma liturgica, così, il 2 febbraio del 1974, scriveva: “Mentre consideriamo con animo lieto e grato il lavoro compiuto e i primi positivi risultati del rinnovamento liturgico, la nostra vigile sollecitudine non cessa di rivolgersi a quanto può dare ordinato compimento alla restaurazione del culto, con cui la Chiesa in spirito e verità adora il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo…”

Strano e forzoso e, perché no?, ipocrita compiacimento se pensiamo che fu lo stesso Paolo VI, due anni prima, in quel 29 giugno del 1972, ad avvertire – seppure con il congiuntivo - che “da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio del Signore”.
Parlare di vaga sensazione di un degrado che, invece, si dava per essere  evidente agli occhi di tutti, parve allora, e maggiormente adesso, un’ammissione di colpa ma subito rientrata visto che, nel 1974, poteva declamare il trionfo della nuova liturgìa.
   
Desterebbe ilarità, se non fosse il tema grave e inquietante, sentir parlare, come fa Paolo VI, di “restaurazione del culto”, quasi che la Chiesa precedente la riforma sia stata un’associazione di tutta sciatteria latreutica, e come se questa sua restaurazione sia stata foriera di chissà quali picchi di sacralità e di adorazione, di santità.
Basta dare uno sguardo a quanto è accaduto subito dopo.

Con detta riforma fu possibile, già ai suoi tempi così come ancora oggi, celebrare  sacrileghe Messe con scismatici, ortodossi e protestanti, Messe “animate” da coreografìe di totale dissacrante apparato, e dopo di lui, sotto altri pontefici – GP II  e Benedetto XVI - concelebrazioni blasfeme con autorità massoniche, riti in paramenti carnevaleschi, intronizzazioni di idoli pagani in chiese consacrate, locazione di chiese cattoliche per riti anglicani, buddisti, ebraici e ad uso di conferenze, concerti bandistici, rappresentazioni teatrali, pranzi e cene, convegni.
Non ci sembra, inoltre, aver restaurato il culto divino permettendo la Comunione sulle mani, o l’assistere al mistero della Transustanziazione tronfiamente in piedi – così come fan tutti e come fa Papa Bergoglio – contravvenendo a San Paolo per il quale, al nome di Gesù ogni ginocchio, in cielo, in terra e sottoterra si deve piegare (Fil. 2, 6/11).
Altro che “adorare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo in spirito e verità”!

Tirar fuori, come fa La Domenica, simili sbuffate d’incenso è ulteriore tentativo di esaltare, col fumigare del turibolo, le tenebre del pontificato di papa Montini al quale è stato sufficiente trasformarsi  da convinto piromane in ritrovato pompiere per lucrare, complice una cultura e  un’ottica relativistica, la gloria dei beati. Ma si sa, lo scopo di questa terza apoteosi, dopo le canonizzazioni di Giovanni XXIII e di GP II, è la santificazione dello stesso Concilio Vaticano II, quello che San Pio da Pietrelcina si augurava che, non appena aperto, fosse chiuso immantinente.
    
pag. 60
Il biblista, in questa pagina, procede ad illustrare il tema dell’Alleanza stipulata da Dio con Israele, tracciandone il percorso storico nonché la connotazione teologica affermando che: «Sotto il profilo spirituale, l’alleanza esprime il cammino interiore di Israele che viene condotto, tramite i profeti, a una “alleanza nuova” (Ger. 31, 31/34), che culminerà in quella“eterna” operata dalla Croce e dalla Pasqua di Gesù (Lc. 22, 19/20 – I Cor. 11, 25 – II Cor. 3, 6 – Eb. 8, 6/13; 9, 15/28).»

Il biblista – cujus nomen tacetur – vuol farci intendere che la Nuova Alleanza altro non sia che l’aggiunta di una nuova firma al vecchio patto “notarile”, o un suppletivo rogito con cui il Dio del V. T.  passa la delega al Figlio ferma restando la titolarità ad Israele. C’è in questa faciloneria esegetica una coperta astuzia – vedi quel “cammino interiore” di nulla specificità dacché procedere “interiormente” è di tutti e non solo di Israele - con cui si vuol far credere, sulla scia dell’interpretazione postconciliare ribadita da Paolo VI, GP II, Benedetto XVI e Francesco I, che Israele detenga legittimamente ancora, intatta  l’alleanza antica confluita nella nuova operata, come scrive il biblista, dalla Croce e dalla Pasqua di Gesù.

Noi non vogliamo confutare tale allusione citando le più che note parabole dei vignaioli perfidi (Mt. 21, 33/45) e degli operai  dell’ultim’ora (Mt. 20, 1/16), di per sé assai chiare in proposito, stante l’interpretazione personale di Gesù o, meglio ancora, la diaspora di un popolo, disperso nel mondo, reo di aver chiesto che il sangue innocente di Gesù cadesse sul proprio capo. Siccome qualcuno potrebbe obiettare che le parabole, in quanto tali, si prestano ad interpretazioni disparate – obiezione irriguardosa dacché Gesù stesso ne fornisce spiegazione -  intendiamo portare a testimonio un evento che, più degli altri, dice come la nuova alleanza non si qualifica come ancora esclusiva di Israele, ma addirittura ne dichiara il secco ritiro a favore dei popoli di tutto il mondo.
Ci riferiamo al velo del Tempio che, nel momento della morte di Cristo, si squarcia da cima a fondo, palesemente dimostrando la fine del rapporto di amicizia tra Dio e il suo popolo (Mt.27, 51). Con le parabole Gesù aveva cercato di mettere sull’avviso Israele del rischio imminente di sfiducia, con la rottura del velo Dio sancisce il voto di sfiducia  aprendo alle genti la porta del nuovo “Sancta Sanctorum”, il Sacramento Eucaristico.

I profeti han tentato di condurre Israele alla “nuova alleanza” ma il popolo eletto si è opposto a tale sollecitazione non riconoscendo in Gesù il Messìa e condannandolo alla croce. Israele, non più depositario delle ricchezze del patto antico, è chiamato tuttavia, come gli altri popoli, ad entrare nell’unico ovile e sotto un unico pastore: Cristo Gesù.
Il biblista tenta di certificare la sua tèsi citando, in cinque passaggi neotestamentarî, il termine “alleanza”. Appare manifesto che, mancando il riscontro testuale e contestuale in cui tale vocabolo esercita il significato inteso dall’autore, la tèsi resta indimostrata. E resta tale perché non v’è passo alcuno della scrittura in cui, come sottintende il biblista o come afferma Benedetto XVI, si possa leggere che Israele è ancora in pieno possesso dell’alleanza tanto più che l’Israele di oggi non rappresenta quello antico essendosi mutato in una sètta a sfondo gnostico/massonico il cui credo è siglato dalla Kabbalà e dal Talmud, l’accolta delle maggiori e nefande bestemmie contro Cristo, la Madonna, i santi e i cristiani (goim). 
Il nuovo patto, infatti, siglato sulla Croce, annunciato con la Resurrezione e sancito con la Pentecoste, non è stato trasmesso al Sinedrio o alla corporazione dei dottori della legge perché Gesù, sulla Croce, nomina Maria, Madre della Chiesa, appare, dopo la resurrezione, solo ai suoi discepoli  e solo a loro invia lo Spirito Santo. Sommi sacerdoti, sadducei, farisei sono esclusi da questo nuovo corso.
Vuol dir qualcosa tutto questo oppure il Signore ha scherzato o si è sbagliato?

Si convincano i neobiblisti postconciliari, fervidi ed ansiosi operatori di uno sterile dialogo:Extra Ecclesiam nulla salus, fuori dell’unico ovile, la Chiesa cattolica non c’è speranza di salvezza. E, pertanto, non raccontino bubbole, cioè, menzogne.
  
2 novembre 2014 – Commemorazione dei defunti (XXXI domenica del tempo ordinario/A ) -  n. 59

pag. 9
La morte anche se è scontata, rimane un evento inaccettabile. Sentiamo che non siamo fatti per morire ma per vivere”.
Questo è quanto si legge in alto, a pag. 9, una riflessione che dispone il fedele alla santa Messa in questa commemorazione dei defunti, un pensiero semplice, un messaggio di ovvia accezione.

Noi concordiamo sulla seconda parte, laddove si dice essere, gli uomini, fatti per vivere e non per morire, verità che si radica all’origine del mondo quando il Signore creò l’uomo perfetto ed immortale, destinato alla vita e alla felicità eterna.
Dissentiamo, però, dalla prima in cui si definisce la morte un evento inaccettabile. Si definisce tale una cosa che non possiede i requisiti della razionalità, che non ha, cioè, in sé ragioni che la spieghino. La morte, invece, è del tutto spiegabile e, perciò accettabile nella prospettiva di fede per la quale, preso atto essere la morte il castigo comminato per il peccato d’origine, la morte si subisce con la consapevolezza di averla meritata.

L’omelìa  tenuta poi dal celebrante, vi ha aggiunto una qualifica: naturale. La morte è un fatto naturale,  ha così esordito verso i fedeli.
Naturale vuol dire che essa è nell’ordine e parte costitutiva della creazione di Dio, ma ciò è in contrasto: a) con quanto asserisce la Scrittura che afferma essere tutte le realtà create “cosabuona” - (Gen. 1, 25); b) con l’affermazione paolina secondo cui la morte è entrata nel mondo per il peccato di un solo uomo (Rm. 5,12).
Affermare, pertanto, l’ovvietà naturale della morte è andare contro la Parola di Dio.

Ora: 1) se noi siamo destinati alla vita perché creati nella dimensione dell’immortalità, non è corretto definire la morte un evento naturale; 2) non è naturale in quanto pena da espiare e, perciò, realtà opposta alla vita  così come il carcere è in contrasto con la libertà.
Sarebbe opportuno che, almeno in questa occasione, il clero si prestasse a una catechesi forte, quella dei novissimi e non a peregrine espressioni o a scontati schemi di laica idealità che a tutto portano meno che a riflettere seriamente su ciò che sta oltre la morte.

Noi, per quell’impegno che ci riguarda in termini di apologetica, abbiamo sentito, postMissam, il dovere di far presente al celebrante l’erronea sua affermazione. Non sappiamo, però, se, oltre a un sorriso di cortese circostanza, costui si sia convinto della nostra rettifica.

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