ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 2 dicembre 2014

Al principio c’è la libertà religiosa

È evidente che nella strada aperta dalla Dignitatis Humanae, la Chiesa si considera ormai una istituzione di diritto umano, promotrice e partecipe di una più vasta organizzazione sovranazionale dei culti religiosi ritenuti tutti capaci di convergere verso una idilliaca coesistenza pacifica. Quella garantita dai diritti per tutti, umani e disumani, stabiliti di volta in volta da e per l’uomo collettivo telecomandato.

 di Patrizia Fermani

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Il Concilio è forse la realtà più controversa del Novecento. È stato salutato di volta in volta come la panacea di una Chiesa in crisi, di cui avrebbe realizzato la nuova primavera secondo gli auspici del suo entusiasta promotore, oppure come il mancato compimento di tanta promessa, infine come la resa senza condizioni della Chiesa allo spirito del mondo e il fattore decisivo del processo di autodissoluzione di essa.
Tuttavia stupisce come in ogni caso non sia stato dato il necessario risalto agli effetti derivati direttamente o indirettamente proprio dal Concilio sulla teologia, sulla pastorale, sulla vita della Chiesa in generale e sulla società, e si continui a trascurare tuttora quel nesso di causalitàà che è elemento risolutivo per decidere se tutto quanto è venuto dopo sia stato meramente casuale oppure la realizzazione di un obiettivo mirato.
Ovviamente è comprensibile che tanti laudatores del Concilio abbiano tutto l’interesse ad ignorarne le conseguenze, perché altrimenti dovrebbero spiegare come mai una cosa così buona abbia dato frutti tanto infelici. Ma anche i Ratzinger, i De Lubac, i Woityla, che presto presero atto lucidamente del successivo disperante deterioramento religioso, ben espresso da quello liturgico, si sono limitati a collegarlo non ai contenuti e alle ambiguità dei testi conciliari, ma piuttosto alle loro false interpretazioni, mediatiche e no. Resta il fatto che nessuno ha poi potuto indicare chiaramente quali reali vantaggi siano venuti alla Chiesa e al cattolicesimo in generale da quell’evento.
Così nei pronunciamenti del magistero i richiami al Vaticano II sono stati sempre puntualmente elogiativi, al di là di quanto l’evidenza e la coerenza avrebbero richiesto. Cioè la scelta ufficiale e programmatica è stata quella di riconoscere ad esso una fecondità intrinseca, ritenuta quasi obbligata indipendentemente dalla realtà delle cose. Dovere d’ufficio? Dovere politico? Rispetto per l’autorità della fonte? Di certo tante ragioni pratiche e istituzionali, pur apprezzabili, hanno preso il sopravvento sulla verità, quella che prima di ogni altra cosa esigerebbe rispetto da chi agisce evangelicamente in suo nome.
Infatti l’unica cosa certa è proprio che al Concilio è seguito di fatto l’inverno della fede ed è stato accelerato il processo di dissoluzione di una società strutturata nei secoli sui valori cristiani, in perfetta contraddizione con le sbandierate primavere dei sogni papali, più vicine alla allucinazione che all’ottimismo della volontà. Né le cose potevano andare diversamente, perché la Chiesa che avrebbe dovuto “aggiornarsi” per capire meglio dove stesse andando il mondo si è invece adeguata ad esso facendone propri i punti di vista, dati generalmente per buoni, e ha finito per tradire nei fatti la propria missione.
Per questo i germi capaci di minare in profondità la struttura stessa del cattolicesimo sono già contenuti più o meno tutti nei documenti conciliari, e in questo senso un ruolo decisivo lo occupa la dichiarazione “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa. Essa infatti, sotto la intitolazione “elevata”, nasconde una visione capovolta e suicidiaria della fede cattolica, che si riassume nello abbandono della verità cristiana, sostituita con la religione laica moderna della libertà e della autosufficienza. Una religione più vicina alla politica e pronta a realizzarsi anch’essa hegelianamente nello spirito del tempo. Non per nulla il Papa conciliare recentemente santificato ebbe a definire proprio la politica come la prima delle virtù.
Della libertà che abbia a che fare con la fede religiosa è possibile parlare anzitutto da due punti di vista affatto differenti: uno teologico e l’altro politico.
Secondo la teologia cattolica, nella libertà riconosciuta all’uomo di obbedire alla legge divina, possiamo ritrovare tutti i postulati della fede giudaico-cristiana: l’uomo viene creato a immagine e somiglianza di Dio, dunque non nasce schiavo, ma come figlio libero. E se gli viene consegnato anche un codice, la cui osservanza è condizione per la permanenza del Giardino di Eden, non gli viene richiesta obbedienza servile ma gli è lasciata la libertà di scegliere tra il bene della legge divina e il male contenuto nella tentazione del serpente a farsi come Dio. Le conseguenze concrete di quell’atto di superbia compiuto rappresenteranno poi la pena inflitta perennemente. Poiché la disobbedienza è qualificata dunque anche dal motivo che la muove, Dio chiederà conto della finalità malvagia, chiamando in causa il foro interno, lo spazio in cui non si può sfuggire alla giustizia divina.
Dunque la libertà cristiana è la possibilità di scegliere tra il bene e il male, cioè essa fa riferimento alla verità e implica la responsabilità. Ciò non toglie che la sua missione salvifica esiga che la fede cristiana si manifesti, oltreché nel culto divino, nella vita individuale e sociale e cioè che, al pari di ogni altro culto religioso, diventi anche realtà pubblica, civile, ed entri nel raggio degli interessi dello Stato.
Solo su questo ultimo piano si pone invece la libertà religiosa intesa come lo spazio concesso dal potere politico alle confessioni religiose e misurato sull’interesse pubblico. Lo Stato può assumere come propri i principi etici che la religione trasmette ad ogni società organizzata, o può combatterli se essi nocciono alla propria stabilità. Oppure si può disinteressare dei contenuti delle credenze religiose fino a che le loro manifestazioni non compromettano l’ordine pubblico.
A Roma il culto dei lari e dei penati aveva fornito il supporto per la formazione e la trasmissione delle virtù repubblicane. Più tardi, quando all’imperatore sarà tributato per legge un culto divino funzionale al rafforzamento del principato, i cristiani che si rifiuteranno di sacrificare a lui verranno accusati di ateismo e perseguitati per questo delitto di lesa maestà, imperdonabile da un punto di vista politico.
Lo Stato moderno che non deriva più la propria legittimazione da un’autorità trascendente, e non riconosce altra morale oltre quella dettata dalle proprie finalità, vede la religione come fenomeno sociale da governare, e le garantisce la possibilità di manifestarsi liberamente nei limiti in cui sono riconosciute le libertà civili e indipendentemente dai contenuti di valore. Dopo che i motivi di religione avevano accompagnato tante guerre sanguinose, la libertà di professare la fede è diventato diritto primario che deve essere garantito dallo Stato laico e liberale. Esso acquisterà così un posto fondamentale nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, e come tale verrà inserito nelle Costituzioni moderne. Dunque lo stato laico si disinteressa dei contenuti di ogni credo religioso, ma ne garantisce il libero esercizio fino a quando esso non si traduca nella perturbazione dell’ordine pubblico. La tutela della libertà religiosa fa parte della buona amministrazione e questa, come è noto, è regolata dai principi di opportunità e convenienza.
È così evidente che non esiste alcun rapporto tra la libertà cristiana presupposta per la scelta di fede e la libertà di professione religiosa garantita dallo Stato all’individuo e alle associazioni nell’ambito delle libertà civili. Si tratta di due concetti sostanzialmente estranei l’uno all’altro e che operano su piani totalmente diversi tra loro. Mentre nella visione cristiana si risponderà a Dio della scelta interiore di fede, allo Stato si chiede che venga garantita la libertà religiosa, sia nel senso che possa essere professata liberamente una qualunque fede, sia nel senso che non si possa essere costretti a professarne una determinata.
Ora, da un Concilio, sia pure “pastorale”, che affronta il tema della libertà religiosa, ci si sarebbe dovuti aspettare un chiarimento dottrinale sul contenuto della libertà della fede. Una riaffermazione del principio cristiano secondo cui essa, come possibilità di scegliere tra il bene e il male, implica la responsabilità della scelta e la assunzione delle relative conseguenze. Invece il proposito manifestato subito dalla D.H. è stato quello di richiamare l’attenzione sulla libertà che lo Stato deve garantire ad ogni credente, sicché viene subito spontaneo da chiedersi perché proprio un Concilio abbia sentito l’urgenza di porre il tema della libertà religiosa non nei termini della fede, ma nella prospettiva della rivendicazione dei diritti “politici” che devono essere garantiti dallo Stato.
Di certo anche una tale scelta avrebbe potuto essere giustificata da condizioni storiche concrete, cioè da una situazione obiettiva di intollerabile restringimento della libertà sofferta dalla Chiesa. Tuttavia, all’inizio degli anni Sessanta, quando viene indetto il Concilio, un tale problema non riguarda sicuramente l’occidente e in particolare l’Italia che, come altri paesi europei, ha regolato la propria costituzione postbellica anche sulla Dichiarazione dei diritti del 1948, fra i quali figura appunto quello della libertà religiosa. Inoltre, la vigenza dei Patti Lateranensi e un humus nazionale profondamente radicato nel cattolicesimo, hanno imposto un trattamento in qualche modo privilegiato della religione cattolica rispetto ad altri “culti ammessi” pur disciplinati dalla Costituzione. D’altra parte, la situazione giuridica della Chiesa Cattolica riflette anche il valore teologico di unica vera Chiesa di Cristo che essa riconosce a se stessa. Una posizione codificata nel 1949 dalla Istruzione del Sant’Uffizio sull’ecumenismo, dove si afferma che l’unica via per conseguire l’unità fra le Chiese separate è quella del loro ritorno in seno alla Chiesa di Roma.
Solo negli anni successivi, con il mutare delle condizioni politiche e culturali, la religione cattolica ha perduto quella condizione di relativo privilegio in seno allo stato italiano e rispetto ad altre religioni. Si è rafforzato quel principio della parità di trattamento per i culti che ha ispirato la revisione dei Patti Lateranensi del 1984, e ha lasciato alla Chiesa cattolica solo pochi residui spazi di privilegio, in omaggio ad una ancora notevole preponderanza numerica e al fortissimo radicamento culturale del cattolicesimo nella storia italiana.
Ora, se al tempo del Concilio un vero problema di libertà religiosa non riguarda i paesi occidentali, la questione è invece scottante per i paesi comunisti dove sopravvive a stento la “Chiesa del silenzio”. Ma poichè la nuova politica papale è arrivata ad assicurare al regime sovietico, pressoché in cambio di nulla, l’esclusione di una condanna conciliare del comunismo, non era plausibile che fosse poi dedicato proprio alla situazione di quella Chiesa un documento come la D. H. che, contenendo la appassionata difesa della libertà religiosa, avrebbe implicato per forza di cose anche una aperta condanna dei regimi in cui quella libertà era notoriamente conculcata. Non per nulla sono mancati del tutto riferimenti espliciti a quanto andava accadendo nello impero sovietico e di cui un vero vescovo cattolico come Athanasius Schneider è ancora in grado di fornirci i ricordi personali. Infatti, la pretesa di libertà religiosa da parte della chiesa dell’est e la persecuzione costante che essa subiva nei paesi di influenza sovietica dovevano essere sentite come una fastidiosa pietra di inciampo dalla diplomazia di un Paolo VI, già promotore degli accordi di Metz, che pensò di compensare quella persecuzione rimuovendo il primate di Ungheria che l’aveva subita, come ci ha ricordato di recente Roberto De Mattei.
Così la D.H. si presenta quasi come una discettazione teorica tutta incentrata sul valore in sé del diritto alla libertà religiosa, di cui tesse l’elogio incondizionato e che eleva addirittura a perno della stessa libertà della fede. Già il proemio è un inno alla libertà intesa come l’autodeterminazione in cui si realizza la dignità dell’uomo e a partire dalla quale il Concilio “rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa”. L’idea della libertà religiosa è tutta sbilanciata nel senso della non coercibilità della fede, e si dice che lo Stato la deve garantire, da una posizione di neutralità, “perché per la dottrina dei padri gli esseri umani sono tenuti a rispondere a Dio credendo volontariamente, nessuno può essere costretto ad abbandonare la fede contro la sua volontà, quindi risponde alla natura della fede che in materia religiosa si escluda ogni costrizione di fede” (12), perché “Dio vuole che non venga offesa la dignità che si esprime appunto nella libertà”. La libertà religiosa diventa anche la condizione prima della stessa libertà di fede, della quale assicura la perfetta realizzazione ed è lo strumento per raggiungere nientemeno che la verità: questa infatti, sempre per la D.H., “va ricercata, in modo da rispondere alla dignità della persona e alla sua natura sociale”, “per mezzo dello scambio e del dialogo con cui gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperto e che ritengono di avere scoperto”! (12).
Da questi passaggi risulta anzitutto, come abbiamo visto, che la libertà religiosa invocata nei confronti dello Stato è funzionale alle ragioni religiose per le quali siamo “tenuti a rispondere a Dio volontariamente”. Così, però, si confondono i due piani, politico e religioso, che rispondono a criteri ed esigenze estranei gli uni agli altri, e si tradisce anche il senso della verità cristiana. Infatti è vero che “non appartiene alla religione (cristiana ) di costringere alla religione”, ma non è vero che il mancato costringimento sia una condizione della fede, perché la libertà cristiana non si identifica col mancato costringimento e non è esclusa da questo. Essa è la capacità di volere il bene secondo retta ragione, e questa capacità non viene meno neppure quando la volontà risulta schiacciata, poiché essa si forma e si sviluppa nella inviolabilità della coscienza: rispondiamo solo della scelta sulla fede che viene operata nel foro interno e che può coesistere anche con una volontà coartata. Del resto per il cristiano la fede non si identifica affatto con la sua professione esteriore, sull’adempimento delle regole rituali o sacramentali, che non bastano a salvare l’anima, ma sulla intenzione che le sorregge e le precede. Tutti i martiri cristiani sono stati tali, cioè “testimoni” della fede, perché l’hanno scelta in condizioni di coercizione estrema: così è avvenuto per padre Kolbe ed Edith Stein, e così è stato per le Carmelitane di Compiègne salite al patibolo una dopo l’altra cantando le lodi del Signore. Così per quelli che li hanno preceduti e che li seguono adesso.
Insomma, nell’intento di ribadire l’incoercibilità della fede, la D.H. finisce per attribuire alla libertà religiosa la funzione di garantire la genuinità della fede della quale fornisce anche una interpretazione distorta. E a rafforzare l’equivoco, come abbiamo visto, si arriva a dire che la libertà religiosa deve essere garantita perché “Dio vuole che non venga offesa la dignità che si esprime appunto nella libertà”. Questa è il bene in sé capace di condurre alla verità e di dare all’uomo la sua dignità. In altre parole, l’uomo non ha dignità in quanto creatura ma perché libero di cercare la propria verità. Se ne dovrebbe dedurre che se la dignità è data dalla libertà, e non comporta l’obbedienza alla volontà di Dio attraverso la scelta del bene, finisce per persistere anche nella scelta del male, e la libertà è l’a priori che giustifica ogni scelta.
Secondo questa edificante lezione, in principio c’è la libertà, che genera prima la verità e poi la dignità dell’uomo. Una professione di relativismo assoluto non poteva essere più esplicita, esauriente e risolutiva, e l’uomo di chiesa che volesse indagare sugli aspetti della dittatura del relativismo potrebbe scavare con profitto vicino piuttosto che cercare lontano.
Ora, se è comprensibile che la Chiesa rivendichi per sé la possibilità di continuare ad esprimersi liberamente, meno comprensibile è che in un atto del Magistero Supremo, volto ad orientare la predicazione e la guida della vita cristiana, essa si affanni a fissare il principio secondo cui qualunque culto religioso non deve trovare ostacoli sulla via della propria promozione e diffusione. Si può anche concedere che questa libertà venga invocata in vista di quella pacificazione sociale, che tanto spesso viene compromessa dalla coesistenza di più confessioni religiose. Tuttavia è anche vero che certe religioni propagandano principi distruttivi per la società in generale e contrari a quelli cristiani: è il problema non trascurabile dei contenuti che segnano la differenza fra una religione e l’altra, problema che, se anche viene accantonato dallo stato liberale, non può comunque essere ignorato da ogni persona responsabile. Insomma, la libertà religiosa pone sul tappeto una questione etica di importanza capitale e lascia perplessi che quella libertà venga invocata con tanta sollecitudine proprio dalla parte che dovrebbe sapere bene quali ne siano le possibili implicazioni. Questa sollecitudine fa pensare più al nichilismo che ad una neutralità non obbligatoria.
Su questo sfondo, viene poi ripreso quasi ossessivamente il tema della incoercibilità della fede, che dovrebbe essere solo un ovvio corollario della libertà religiosa. Perché tanta insistenza? E a quali realtà di costringimento alla fede fa riferimento il documento conciliare? Esso risulta difficilmente ipotizzabile nella realtà dello Stato laico. Infatti è solo lo Stato teocratico che può costringere alla conversione religiosa o lo Stato confessionale che abbia assunto un determinato credo religioso come base di pensiero funzionale alle proprie finalità politiche. Semmai è vero che certe ideologie laiciste assomigliano perversamente a religioni imposte mediaticamente nella forma del mainstream, ovvero del pensiero unico politicamente corretto. Ma non è di questo che sembra essersi preoccupata la DH, né delle conversioni forzate sempre praticate dall’Islam e oggi tornate tragicamente in auge.
Allora tanta insistenza sulla incoercibilità della fede finisce per manifestarsi qual è, cioè come la excusatio non petita da parte di una Chiesa che riconosce di essere “venuta meno qualche volta allo spirito evangelico”, ed è più propensa a ricordare antiche costrizioni circoscritte storicamente, piuttosto che persecuzioni persistenti o ricorrenti, mai esaurite e ora riesplose in forme di inaudita violenza, estensione e ferocia. E alla fine il principio della incoercibilità della fede diventa l’alibi per coprire la rinuncia alla propria missione evangelizzatrice, che d’ora in poi sarà ripudiata come indebito “proselitismo”. Quello più volte condannato senza appello dall’inesauribile Vescovo di Roma.
A questo punto torna dunque a porsi la domanda: a cosa mira la Dignitatis Humanae?
Brunero Gherardini, che ha dedicato all’argomento le illuminanti pagine dei suoi scritti sul Concilio, ricorda un particolare importante che, ignorato dai più, fa assumere al documento un significato particolare. Esso fu redatto da quel monsignor De Smedt che aveva preparato anche i testi sull’ecumenismo. La circostanza non è casuale. L’ecumenismo conciliare, espresso in particolare dall’Unitatis Redintegratio, si è risolto in una parificazione di tutte le Chiese cristiane che alla fine risultano assimilate alla chiesa cattolica in quanto in tutte “sussiste la Chiesa di Cristo”. Sicché la ricostituzione dell’unità cristiana non consiste nel ritorno in seno al cattolicesimo romano, ma nella convergenza delle Chiese cristiane in Cristo. E poiché frattanto la stessa figura di Cristo è stata spogliata della sua divinità, si tratta alla fine della convergenza verso un nuovo arianesimo. Ne emerge una rinuncia della Chiesa cattolica alla propria specificità, ai propri dogmi, soprattutto alla propria pretesa veritativa e alla necessità di considerare eretiche le confessioni religiose germinate in seno al cristianesimo. Così sullo sfondo della U.R. quella rinuncia a rappresentare la vera Chiesa di Cristo viene ad armonizzarsi con la libertà religiosa garantita dallo Stato.
Ma la Dignitatis Humanae supera di molto il raggio della Unitatis Redintegratio, che della prima rappresenta un semplice corollario.
Qui la libertà religiosa che viene invocata ha come beneficiari non soltanto i cristiani separati che, grazie alla teologia conciliare, appaiono separati solo per modo di dire, perché comunque sono idonei a “convergere” in una nuova chiesa ecumenica pluralista. Il fronte della potenziale convergenza viene infatti esteso a dismisura grazie all’idea che sarà addirittura codificata nella lettera apostolica “Tertio millennio adveniente” dove leggiamo che “Cristo è il compimento dell’anelito di tutte le religioni del mondo e, per ciò stesso ne è l’unico definitivo approdo”.
Del resto dalle idee rahneriane più che l’identità dei cristiani è venuta meno quella di Cristo, ed è stato compromesso il principio stesso della Rivelazione. Se l’ecumenismo si allarga ben oltre la varietà delle strade imboccate dal cristianesimo, si affaccia il concetto della equivalenza di tutte le confessioni religiose qualunque ne sia il contenuto, secondo quel nuovo “orizzonte” tristemente segnato dallo spirito di Assisi.
Inoltre una Chiesa che non crede più alla propria verità ma teme comunque per la propria sopravvivenza, da quando i diritti degli uomini hanno sostituito i diritti di Dio, si aggrappa anche al principio di uguaglianza nonostante esso possa esserle rovesciato contro. La religione comunista ha conquistato il mondo e la Chiesa sposa l’egualitarismo, come fuga in avanti per prevenire i danni della rivoluzione anticristiana, mentre coltiva la illusione della impossibile coesistenza con l’islam. Ricorda in questo la pronta adesione alla rivoluzione francese di quegli aristocratici che però non riuscirono ugualmente a salvare la propria testa.
L’ecumenismo deviato si salda così con l’egualitarismo giacobino e l’indifferentismo religioso liberale. Una miscela micidiale che pone una pietra tombale sul cattolicesimo e su tutto il messaggio evangelico, deformato in una religione nuova ma spacciata ancora come cattolica. È evidente che nella strada aperta dalla Dignitatis Humanae, la Chiesa si considera ormai una istituzione di diritto umano, promotrice e partecipe di una più vasta organizzazione sovranazionale dei culti religiosi ritenuti tutti capaci di convergere verso una idilliaca coesistenza pacifica. Quella garantita dai diritti per tutti, umani e disumani, stabiliti di volta in volta da e per l’uomo collettivo telecomandato.
Ecco dunque che tutta la carica dirompente della dichiarazione conciliare, la si può misurare nel tempo attuale, di fronte alla forza distruttiva del nichilismo etico da un lato e a quella ancora sotto traccia di un credo “religioso” in senso stretto sanguinario e tirannico. Entrambe minacciano da vicino senza trovare ostacoli un occidente senza verità e senza più religione.
È vero che per un breve periodo la chiesa cattolica ha visto nella riunione delle Chiese cristiane, e persino in una alleanza mirata con l’islam, anche la possibilità di fronteggiare l’attacco portato dalle ideologie laiciste di ogni risma all’etica cristiana. Verso tale obiettivo si è orientato, per vero forse troppo ottimisticamente, soprattutto il pensiero di Benedetto XVI. Ma quella prospettiva, in sé poco realistica, ha perso ogni significato adesso che il problema etico esce platealmente dall’orizzonte del nuovo corso vaticano.
Ora proprio questa chiesa ecumenica e aggiornata, messa da parte già da tempo la verità in nome della libertà, fa profferte d’amore alla cultura laicista, e corteggia con discrezione l’islam il quale non mancherà di ripagare tanta premura anche in occidente come sta facendo con successo nelle terre che furono la culla del cristianesimo. Per questo le porte di Roma non avranno neppure bisogno di essere aperte con le cannonate, perché sono state socchiuse da tempo, mentre il popolo di Dio rimane indifferente, l’occhio collettivo fisso sul maxischermo in attesa che l’annunciatrice dica cosa bisogna pensare e quando bisogna applaudire.

–  di Patrizia Fermani



Redazione
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