ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 2 dicembre 2014

Ecumenismo e dialogo interreligioso

Ortodossi: bei gesti, nessun vero passo avanti

Gli echi di stampa a commento dell’incontro del Papa con il patriarca Bartolomeo a Istanbul hanno fatto sperare i cristiani sensibili alle esigenze dell’ecumenismo che ci sia stato un altro importante passo avanti in direzione della ricomposizione dell’unità tra tutti i credenti in Cristo. Ma, oltre ai commenti giornalistici, che hanno i loro insuperabili limiti intrinseci (vedi quanto ho scritto recentemente sul blogwww.isoladipatmos.com), l’opinione pubblica cattolica ha diritto ad avere anche qualche commento rigorosamente teologico. 
Il tema dell’ecumenismo è infatti facilmente strumentalizzabile da chi, più che la fede professata e vissuta dai cristiani, è interessato ai processi socio-politici connessi alle “relazioni esterne” tra la Chiesa Cattolica e le altre comunità cristiane. Mentre quella - la fede professata e vissuta dai cristiani  - richiede che il discorso sia sempre rapportata alla verità della rivelazione divina, queste – le “relazioni esterne” tra la Chiesa Cattolica e le altre comunità cristiane (in questo caso, il variegato mondo dell’Ortodossia) – possono essere presentate sotto il profilo dei buoni rapporti istituzionali tra le diverse autorità religiose della nostra Europa e del Vicino Oriente. E questo profilo, indubbiamente importante per i sociologi e gli analisti delle vicende geopolitiche dell’attualità, è di scarso interesse per un credente.
Per di più, pochi, tra i lettori di giornali e tra i teleascoltatori hanno avuto modo di essere illuminati su che cosa sia davvero l’ecumenismo e a quali risultati si spera possa condurre. Gli stessi giornalisti confondono l’ecumenismo con il dialogo interreligioso, e la differenza non è da poco se ci si rivolge ai credenti. Infatti, mentre il dialogo interreligioso si può agganciare alla Scrittura soltanto nella sua forma “apostolica” (di evangelizzazione, di apostolato ad fidem), l’ecumenismo ha un rapporto testuale strettissimo con la rivelazione divina e pertanto con la fede professata e vissuta dai credenti di tutte le comunità cristiane. Essi sanno o dovrebbero sapere che Cristo stesso ha voluto che tutti coloro che credono in Lui siano “una sola cosa”, come Egli è una sola cosa con il Padre e con lo Spirito Santo. Per l’unità di tutti i credenti Cristo ha pregato il Padre e continua a operare con efficacia divina, per mezzo del suo Spirito, il quale ispira e dona la forza necessaria ai ministri della sua Chiesa. Tutto ciò è tato solennemente ricordato dal decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, del Vaticano II, e ogni fedele ne può leggere una sintesi chiara e aggiornata nel Catechismo della Chiesa Cattolica. 
In base a questa dottrina, già da secoli è sorto il cosiddetto “movimento ecumenico”, ad opera di cristiani cattolici e di cristiani acattolici, ossia appartenenti (per professione di fede) a quelle comunità cristiane che nei secoli passati si sono separate da Roma: gli ortodossi, i protestanti, gli anglicani. I motivi della separazione sono diversi, ma il principale è  il  rifiuto di accettare il “ministero petrino”, ossia il primato di giurisdizione del vescovo di Roma sugli altri vescovi. La rottura dell’unità dei cristiani si è verificata appunto nella forma dello “scisma”, ossia come disconoscimento della funzione che Cristo stesso ha affidato a Pietro, capo del collegio apostolico, allo scopo di garantire l’indefettibilità della Chiesa mediante il carisma dell’infallibilità nella custodia e nell’interpretazione della verità rivelata e il potere di santificare e di governare tutti i battezzati. 
Qual è la meta del movimento ecumenico? Contribuire, con gli studi teologici, la preghiera e il dialogo fraterno, a far sì che i cattolici e i fedeli delle altre comunità cristiane superino le divisioni, lo scisma. Ciò significa vivere e operare con l’intenzione di assecondare la volontà di Cristo, espressamente rivelata agli Apostoli e scritta nei Vangeli, il quale chiede ai cristiani di restare uniti o di superare le divisioni, storicamente prodotte, più che da equivoci dottrinali, dalle interferenze dei poteri politici nella vita delle comunità religiose. Il caso dello scisma anglicano, provocato nel Cinquecento dal rifiuto di Enrico VIII di riconoscere la giurisdizione del Papa sulle questioni canoniche che lo riguardavano, è paradigmatico.

San Tommaso Moro, primo ministro del re d’Inghilterra, preferì subire la decapitazione comminata da Enrico VIII piuttosto che riconoscere la legge da lui promulgata, secondo la quale la suprema giurisdizione sui cristiani in Inghilterra non era più del vescovo di Roma ma del re stesso, da allora capo della Chiesa cosiddetta “anglicana”. I documenti del processo che portò alla condanna  di sir Thomas More mostrano come le ragioni dell’umanista martire non fossero di natura politica ma di natura squisitamente teologica. La resistenza alla divisione non ha altro motivo spirituale che la fedeltà a Cristo e alla Chiesa come Lui la vuole. Così, l’impegno per ripristinare l’unità non può che far leva sulla fede e suoi veri fondamenti, mettendo da parte interessi temporali che alla pratica effettiva di tale fede possano opporsi.
Ora, l’incontro di papa Francesco con il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, non interessa tutto l’orizzonte dell’ecumenismo, ma solo quello più importante per la vita della Chiesa e che riguarda lo “scisma d’Oriente”, con la separazione delle “chiese autocefale” che hanno assunto la denominazione di “Ortodossia”, ritenendo che la vera fede cristiana si sia persa in Occidente con i concili ecumenici dell’epoca moderna, dopo quello di Firenze. E l’incontro di papa Francesco con il patriarca di Costantinopoli non riguarda nemmeno tutte il mondo dell’Ortodossia, perché il patriarca di Costantinopoli non rappresenta tutti gli ortodossi e tanto meno quelli che fanno capo al patriarca di Mosca.
Si tratta comunque di un gesto di rispetto e di amicizia tra istituzioni che è stato giustamente esaltato come un “passo avanti” perché ha un grande valore  simbolico – e si sa che nei rapporti tra istituzioni i messaggi pubblici passano anche attraverso gesti simbolici. Del resto, si tratta di un gesto che fa seguito a tanti altri che in precedenza sono stati prodotti dal beato Paolo VI, da san Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Nel frattempo, il lavoro dei teologi, i quali debbono superare le incomprensioni che l’Ortodossia nutre nei riguardi del primato del vescovo di Roma, continua lentamente, senza per ora aver raggiunto risultati sostanziali.

Chi tra i commentatori cattolici è animato da buone intenzioni ma non ha le idee chiare sugli scopi dell’ecumenismo, pensa che sarebbe ora di abbandonare il lavoro dei teologi e risolvere i problemi “pragmaticamente”, cioè con l’esibizione di “buoni sentimenti” e con suggestive scene di amicizia fraterna davanti alle telecamere. Pia illusione: mettere da parte il dogma – il cui rifiuto è stato all’origine dello scisma – non porterebbe mai a ricomporre l’unità dei cristiani con una sola  professione di fede. Perché la fede cristiana è un corpo unico di dottrina rivelata, e i suoi elementi essenziali (che si chiamano “articuli fidei”, per dire appunto le articolazioni, ossia le membra di un unico corpo) non possono essere separati uno dall’altro o uno dall’insieme.

La dottrina sullo Spirito Santo, che la Chiesa di Roma introdusse nel Simbolo Niceno-costantinopolitano mille anni or sono, riguardava il dogma trinitario, e su questo dogma iniziò a formarsi il dissenso teologico – motivato certamente da incomprensioni e fraintendimenti - che portò allo scisma d’Oriente. Il riavvicinamento tra la Chiesa d’Oriente (di lingua greca) quella di Occidente (di lingua latina) fu poi possibile, anche se provvisoriamente, solo sulla base di chiarimenti dottrinali sulla differenza tra dogma e interpretazioni teologiche, come ho avuto occasione di spiegare in un convegno teologico sul “Filioque” svoltosi recentemente preso l’Ateneo Pontifico Regina Apostolorum. I gesti esteriori di amicizia e l’esibizione di buoni sentimenti non risolvono alcun problema se servono soltanto a mettere da parte le questioni dogmatiche.
Ciò vale anche per la questione del primato, anch’essa di natura dogmatica. Non si può progredire sulla strada della ricomposizione dell’unità con gli ortodossi se non si rende accettabile – non con il cedimento sul dogma ma con l’intesa sulla sua possibile interpretazione teologica e sui possibili adattamenti alle necessità della multiforme prassi ecclesiale – il dogma del ministero del vescovo di Roma, che comprende le prerogative volute da Cristo proprio per l’unità della Chiesa, come è stato definito dal magistero ecclesiastico, dal Concilio Vaticano I (vedi la costituzione dogmatica Pastor Aeternus) fino al Concilio Vaticano II incluso (vedi la costituzione dogmatica Lumen gentium).
Ecco allora come “vedere”, da cattolici, l’evento recente di Istanbul. Ci dobbiamo compiacere del fatto che il patriarca Bartolomeo abbia  ricevuto con gesti di cordialità e di rispetto il capo della Chiesa Cattolica. Ma, a parte i gesti, le sue parole non segnano alcun progresso reale nell’intesa sul dogma. Egli infatti ha detto che la visita del vescovo di Roma fa ben sperare «che l’avvicinamento delle nostre due grandi antiche Chiese continuerà a edificarsi sulle solide fondamenta della nostra comune tradizione, la quale da sempre rispettava e riconosceva nel corpo della Chiesa un primato di amore, di onore e di servizio, nel quadro della sinodalità, affinché con una sola bocca ed un sol cuore si confessi il Dio Trino e si effonda il suo amore nel mondo».

Come si vede, il primato, secondo Bartolomeo, non va attribuito dai cristiani al vescovo di Roma ma al corpo della Chiesa, ossia all’insieme di tutti i vescovi (“sinodalità”). Poi Bartolomeo, riferendosi al campo ortodosso, ha aggiunto che “la divina provvidenza attraverso l’ordine costituito dai santi concili ecumenici, ha assegnato la responsabilità del coordinamento e della espressione della omofonia delle santissime Chiese ortodosse locali” proprio al patriarca ecumenico di Costantinopoli, cioè a lui stesso. Già questo “coordinamento” non assomiglia per nulla a una funzione primaziale, e poi non riguarda tutta la Chiesa ma solo gli ortodossi.

Da parte sua, nemmeno papa Francesco ha potuto affrontare la questione cruciale ma si è accontentato di ricordare che «la Chiesa cattolica riconosce che le Chiese ortodosse hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il sacerdozio e l’eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli». Poi ha auspicato la futura realizzazione di accordi istituzionali che portino al ristabilimento della piena comunione, la quale – ha detto per rassicurare gli ortodossi - «non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno. […]. Per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e dell’esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze». Ben sapendo che la fede comune non si dà senza la comune accettazione dei medesimi dogmi.
A torto quindi molti commentatori, come quelli di Vatican Insider, hanno scritto che “per l’attuale successore di Pietro il ripristino della piena comunione tra cristiani cattolici e ortodossi sarebbe possibile già ora, senza porre ai fratelli ortodossi pre-condizioni di carattere teologico o giurisdizionale”. Dico “a torto” perché la giurisdizione del vescovo di Roma deriva direttamente, nei suoi elementi essenziali, dal dogma; questi commentatori, ripetendo gli slogan di Enzo Bianchi,  fingono di ignorare che l’accantonamento del dogma sarebbe per i cattolici un peccato contro la fede, e agli occhi degli ortodossi, così attaccati alla tradizione dogmatica dei primi Concili ecumenici, apparirebbe come un miserabile espediente politico dei “latini” per dissimulare le loro vere intenzioni.   
di Antonio Livi 02-12-2014

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-ortodossi-bei-gesti-nessun-vero-passo-avanti-11101.htm

Pourquoi le patriarche de Constantinople n’a pas voulu bénir le pape François


Le pape Fran‡ois avec Bartholom‚e 1er … Istanbul(LA CROIX) Mais pourquoi donc le patriarche de Constantinople n’a-t-il pas voulu bénir le pape François ? Car si chacun a pu voir le geste incroyable de l’évêque de Rome, samedi, la tête inclinée et demandant sa bénédiction, rares sont ceux qui ont noté qu’en réalité, le patriarche de Constantinople avait « botté en touche », refusant de bénir le pape pour finalement l’embrasser sur sa tête, dans un geste affectueux.
Une demande inouïe
Est-ce de la timidité ? De la réticence ? Non. Sans aucun doute, le patriarche a été surpris par la demande. Elle est d’ailleurs inouïe : une manière pour le successeur de Rome, près de mille ans après le Grand schisme de 1054, de signifier qu’il refuse de se situer au-dessus des autres Églises chrétiennes, et de considérer que l’Église catholique seule, détient la Vérité. Ce n’est pas sans rappeler le geste imprévu en 1975, du pape Paul VI s’agenouillant devant le métropolite Méliton, envoyé du patriarche Dimitrios, pour lui baiser les pieds.
L’incompréhension du puissant patriarche de Moscou
Pourtant, ce samedi 29 novembre, le patriarche Bartholomeos n’a pas hésité l’espace d’une seconde : il ne pouvait répondre positivement à la demande de bénédiction. Cela aurait été aller beaucoup trop loin par rapport aux autres patriarches orthodoxes, plus hostiles à Rome, et aurait provoqué notamment la colère et l’incompréhension du puissant patriarche de Moscou. Déjà, la condamnation du conflit ukrainien, dans la Déclaration commune de Bartholomeos et François, a dû faire grincer des dents du côté de la capitale russe…
Rupture avec Dominus Iesus
Geste inutile ? Non, car il résume, à lui seul, la conception de l’œcuménisme développé par le pape François dans un discours essentiel, le dimanche, au cours de la liturgie commune. Un texte qui ouvre une nouvelle étape dans le dialogue œcuménique, quatorze ans après la déclaration Dominus Iesus du cardinal Ratzinger.
Souhaitant en finir avec une approche strictement théologique, le pape François a en effet définit ce qu’il entendait par la primauté de Pierre, point d’achoppement entre l’Église catholique et les Églises orthodoxes, à partir de deux termes : ni soumission, ni absorption.
Ni soumission, ni absorption
En clair, l’Église catholique ne cherche pas à imposer la juridiction universelle du pape partout. Elle ne souhaite pas non plus absorber les orthodoxes, en les faisant rentrer dans l’Église catholique (uniatisme).
En 2000 Dominus Iesus, en reconnaissant l’Église catholique comme seule Église ayant la plénitude du Salut, avait profondément froissé les « Églises sœurs » orthodoxes. Pour le pape François, ces réserves ne tiennent pas, et les obstacles théologiques ne doivent pas entraver le retour à une pleine communion : celle-ci est possible, du moment que la confession de foi est la même.
Des Églises nationales autocéphales
Mais alors, que reste-t-il à faire pour parvenir à la communion, et en finir avec un millénaire de séparation entre l’Occident et l’Orient ? Que l’Église orthodoxe soit disposée à répondre à cette demande. Ce n’est pas le cas, tant elle est aujourd’hui enfoncée dans ses problèmes nationaux, comme le montre la dérive politique de l’Église de Moscou, et déchirée par les conflits entre les différents autocéphalismes de chaque Église nationale. Le refus, discret mais ferme, du patriarche Bartholomeos à la demande de François ne voulait rien signifier d’autre.
Isabelle de Gaulmyn
http://www.conciliovaticanosecondo.it/in-rete/pourquoi-le-patriarche-de-constantinople-na-pas-voulu-benir-le-pape-francois/

Verso la terza Roma

Formidabile slancio ecumenico e missionario di Francesco, che farà (quasi) tutto per l’abbraccio
di Maurizio Crippa 02Dicembre2014

Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo (foto AP)
Roma. Aggiornare l’iconografia della chiesa, con Papa Francesco, è uno sport facilotto. Ma dopo il viaggio in Turchia sarà impossibile non aggiornare quella del dialogo ecumenico con gli ortodossi, bloccata sul fermo immagine dell’abbraccio tra Paolo VI e Atenagora in Terra Santa, cinquant’anni fa. La fotografia ora sarà quella del capo del vescovo di Roma chinato in richiesta di benedizione sul petto del Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli, che quella testa ha baciato. Il simbolo è forte, la sostanza non è da meno. “L’unica cosa che la chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma è la comunione con le chiese ortodosse”, ha detto Bergoglio dopo aver celebrato con il patriarca nella cattedrale di San Giorgio la divina Liturgia per la festa di Sant’Andrea. Bartolomeo gli ha risposto ribadendo la speranza dei fratelli ortodossi che questo sia il tempo per “l’avvicinamento delle nostre due grandi antiche chiese, che continuerà a edificarsi sulle solide fondamenta  della nostra comune tradizione”, e tra i due i riferimenti alla chiesa del Primo millennio come modello non mancano. Nel suo intervento, Bergoglio ha detto cose impegnative per un vescovo di Roma: il patrimonio delle chiese d’oriente va custodito non solo per la ricchezza liturgica e spirituale, ma anche per “le discipline canoniche, sancite dai santi padri e dai concili, che regolano la vita di tali chiese”. E che “per giungere alla meta sospirata” la chiesa cattolica non vuole “imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune”. Quasi spingere a un limite tendente a zero le richieste di parte cattolica, nella consapevolezza che non tutti apprezzeranno.

ARTICOLI CORRELATI Chi siamo noi per crocifiggere? Papa Francesco un po’ stanco tra vestigia kemaliste e fuochi dell’islam Pontificare stancaDietro le parole di Bergoglio c’è senza dubbio una specifica sensibilità. Chiacchierando in aereo con la stampa (parlava in realtà di dialogo interreligioso) ha ad esempio detto di reputare “bello” che il dialogo interreligioso possa essere sostituito con “un salto di qualità, un dialogo tra persone religiose”. Sia lui che Bartolomeo hanno nel proprio stile questo gettare il cuore oltre l’ostacolo, appellandosi più alla “esperienza religiosa” di ognuno che al dettaglio. In più c’è “l’ecumenismo del sangue” (Bergoglio) dei nuovi martiri più volte evocato come un nuovo collante di fratellanza. Ma quanto lungo sia il salto, per portare il cuore alla meta, è tutto da misurare. Andrebbe ricordato che solo a fine settembre 2014, ad Amman, l’ennesimo round negoziale della commissione mista creata nel 2006 per verificare se esistano una definizione e un esercizio del primato del Vescovo di Roma accettabili anche dagli ortodossi (23 delegati cattolici e due delegati per ognuna delle quattordici chiese ortodosse autocefale), che doveva portare a un’intesa su un documento di lavoro intitolato “Sinodalità e Primato”, s’era chiuso con un nulla di fatto. A frenare, soprattutto ma non è una novità, era stato il Patriarcato di Mosca, pronto a snocciolare “una quantità di obiezioni di fondo”. Le discussioni “hanno svelato seri disaccordi sulla questione del primato nella chiesa”. E per quanto il cardinale Kurt Koch, presidente del pontificio consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani, abbia manifestato prudente ottimismo, le cose si sono arenate, e il punto del contendere è sempre il primato petrino esattamente come all’inizio del pontificato di Benedetto XVI, che disse di volersi “assumere come impegno fondamentale quello di lavorare con tutte le energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo”. Per ora se ne riparlerà nel 2015. Francesco ha lanciato l’ennesimo messaggio al patriarca Kirill, “ci incontriamo dove vuoi, tu chiami e io vengo”. Ma il contenzioso con la Terza Roma resta più complicato, anche per spessore politico, di quello con il fratello di Costantinopoli.
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/123407/rubriche/papa-francesco-turchia-ortodossi-patriarca-bartolomeo-verso-la-terza-roma.htm
Al direttore - Disastroso il tour mediorientale del Vescovo di Roma. Ha portato fiori al mausoleo di Atatürk, corresponsabile del genocidio dei cristiani armeni, ha pregato con i capi islamici nella Moschea Blu (come se il giorno dopo la notte di San Bartolomeo gli ugonotti si fossero uniti in preghiera con il vescovo di Parigi a Notre-Dame), ha dichiarato che il sogno del Califfato nasce dalla miseria economica di quelle genti (come si esprimerebbe ormai solo la signora che presiede il Parlamento italiano). Quest’ultima uscita è particolarmente grave, manca del doveroso rispetto per dei combattenti sia pure feroci. In epoca di droghe diffuse e tollerate in ogni ambiente, il sulfureo Marx si sarebbe ricreduto da tempo su questa sciocchezza della religione oppio dei popoli e avrebbe sghignazzato assai su un Papa che, buon ultimo, la fa sua.  
Francesco Miozzi  
http://www.ilfoglio.it/lettere/lettera_del_giorno.htm

Meglio uniti che “uniati”. Con gli ortodossi Francesco vuole cambiare strada

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Sul volo di ritorno da Costantinopoli a Roma, interpellato da un giornalista russo ortodosso, papa Francesco ha fatto una battuta non immediatamente comprensibile dai non esperti:
“Dirò una cosa che forse qualcuno non può capire, ma… Le Chiese cattoliche orientali hanno diritto di esistere, è vero. Ma l’uniatismo è una parola di un’altra epoca. Oggi non si può parlare così. Si deve trovare un’altra strada”.
Per capire il senso di questa battuta viene in soccorso la seguente nota.
L’autore insegna storia della Chiesa ortodossa nell’università statale di Bologna e nella facoltà teologica dell’Emilia Romagna. È diacono e presiede la commissione per l’ecumenismo dell’arcidiocesi di Bologna.
*
“PAROLA DI UN’ALTRA EPOCA”
di Enrico Morini
“Uniatismo” è una brutta parola, anche se è un termine ormai consacrato dall’uso ed è difficile farne a meno. L’alternativa corretta sarebbe infatti una parafrasi: “insieme dei cristiani orientali uniti a Roma”. L’espressione è stata coniata in ambito ortodosso, con un senso pesantemente dispregiativo, per designare il frutto di un’unione spuria, ingannevole, sleale e provocatoria.
Si tratta di un fenomeno iniziato, nella dinamica dei rapporti tra le Chiese, in età moderna, quando la Chiesa cattolica si rese conto che, dopo il fallimento dell’unione con la Chiesa ortodossa sottoscritto a Firenze nel 1439, qualsiasi altro tentativo di giungere ad una unione completa tra le due Chiese – anche per le mutate condizioni culturali e politiche dell’Ortodossia, sotto il dominio turco – non aveva più la benché minima possibilità di successo.
Si passò pertanto dall’obiettivo tradizionale, e più ambizioso, dell’unione globale con l’Ortodossia nel suo complesso, alla nuova strategia delle unioni parziali, strette con singoli episcopati di una regione, che accettavano sinodalmente i termini dell’unione sancita a Firenze, i quali comportavano l’accettazione del dogma cattolico con la garanzia di mantenere il proprio rito e, più in generale, le proprie tradizioni religiose (quale, ad esempio, il calendario giuliano).
Il fenomeno iniziò nel 1596 con l’unione, sancita a Brest, dell’episcopato dell’Ucraina orientale – allora sotto la corona unita polacco-lituana –, che guardava a Roma per superare una profonda crisi culturale e morale.
Continuò con l’unione sancita a Uzhorod nel 1646 da parte del clero ortodosso della Rutenia subcarpatica, allora nel regno d’Ungheria.
E si concluse con l’unione dei Romeni ortodossi di Transilvania, che seguirono il vescovo di Alba Iulia, nel 1700, nell’adesione alla Chiesa di Roma.
Poiché alla fine del XVIII secolo, sotto Caterina II, la Chiesa ucraina unita venne abolita per legge, ma la Santa Sede la riorganizzò nell’Ucraina occidentale, cioè in Galizia, attorno alla sede episcopale Leopoli (Lviv), tutti questi cattolici di rito orientale vennero a trovarsi all’interno dell’impero austro-ungarico, che si assunse il compito di proteggerli e di promuoverne lo sviluppo e dove essi assunsero la denominazione di greco-cattolici.
Nel frattempo anche nell’antico patriarcato di Antiochia – allora sotto i turchi – si era prodotto un movimento di riavvicinamento a Roma e quando, nel 1724, uno degli esponenti di questo movimento arrivò al patriarcato si produsse una scissione in questa Chiesa, che sussiste tuttora nel Vicino Oriente, tra greco-cattolici ed ortodossi, entrambi di lingua araba.
Infine successivamente la Santa Sede ha istituito degli esarcati apostolici in Russia (1917), in Bulgaria (1926) e in Grecia (1932) per i fedeli cattolici di rito “bizantino”, frutto dell’attività missionaria cattolica tra gli ortodossi.
Per gli ortodossi il fenomeno rappresenta una ferita sempre aperta. Non si tratta infatti semplicemente di rispettare la libertà religiosa: la loro avversione nasce da una incomprensione legata alla loro stessa ecclesiologia.
Gli ortodossi non concepiscono infatti il rito separato dal dogma: il modo in cui si prega è il riflesso di ciò che si crede. Da questo punto di vista gli “uniati” sono un ibrido mostruoso: hanno il rito ortodosso, ma professano la fede cattolica e, non essendo pertanto né ortodossi né cattolici, sono percepiti esclusivamente come uno strumento di propaganda, per svuotare di fedeli le Chiese ortodosse. In altri termini, sono come il “cavallo di Troia” per espugnare l’Ortodossia.
Quando queste Chiese ritornarono alla luce dopo il periodo del comunismo – che la aveva liquidate promuovendo il ritorno dei loro fedeli all’Ortodossia – gli ortodossi posero un aut-aut alla Chiesa cattolica: il dialogo teologico poteva proseguire soltanto dopo avere risolto il problema dell’”uniatismo”.
Ne uscì, nel 1993, il documento di Balamand, nel Libano, della commissione paritetica per il dialogo teologico, che però non è stato recepito né dalla Chiesa cattolica, per la quale era troppo severo nel giudizio storico sull’“uniatismo”, né dalla maggioranza delle Chiese ortodosse, che lo ritengono troppo permissivo nel difendere la sopravvivenza di queste Chiese. Anche una successiva sessione plenaria della commissione a Baltimora nel 2000, sempre su questo tema, si è conclusa con un nulla di fatto.
Le parole del Santo Padre, nel suo volo di ritorno da Costantinopoli, riprendono esattamente i termini del testo di Balamand, che del resto egli aveva già citato nell’intervista a “La Civiltà Cattolica” del 2013.
Il documento afferma che queste Chiese devono continuare ad esistere, in quanto ormai hanno conseguito una particolare fisionomia, una propria identità ecclesiale e culturale, all’interno del Cattolicesimo, che anche arricchiscono infondendo in esso la linfa vitale della spiritualità e della teologia orientale (basti pensare al ruolo del patriarca greco-cattolico di Antiochia, Massimo IV Saigh, al Concilio Vaticano II; il patriarca Atenagora gli disse: “Voi ci rappresentate!”) e hanno testimoniato con il sangue la loro fedeltà alla Chiesa di Roma.
Nel contempo il documento riconosce che il metodo di costruire l’unità tra le due Chiese attraverso le unioni parziali è oggi superato, in quanto ferisce la carità ed è assolutamente incompatibile con l’ecclesiologia delle Chiese sorelle.
*
UNA POSTILLA – Tra gli “uniati” gli ucraini sono il gruppo più numeroso, con più di cinque milioni di fedeli. E sono anche quello più in conflitto con la Chiesa ortodossa. Sono infatti i greco-cattolici ucraini il principale ostacolo all’incontro tra il papa e il patriarca di Mosca, con l’ulteriore aggravante – richiamata da Francesco nella conferenza stampa del 30 novembre – della guerra civile in corso nel paese.
Il prossimo 10 dicembre i greco-cattolici ucraini celebreranno a Kyiv il venticinquesimo anniversario del loro ritorno alla libertà, dopo il crollo dell’impero sovietico che li aveva forzatamente annessi all’ortodossia. E per l’occasione papa Francesco invierà come suo rappresentante il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e quindi della storica capitale di quell’impero asburgico che li protesse dall’imperialismo russo politico e religioso.

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