ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 12 gennaio 2015

Caino & Abele reloaded in Bose *

Continua il dialogo ebraico-cristiano

Salerno 24-26 novembre 2014

[Il rapporto ebraico-cristiano] […] non è un rapporto tra uguali, non è un rapporto simmetrico…Ma soprattutto l’asimmetria è legata all’essenza delle due fedi: per il cristiano è impossibile una fede che non sia radicata in quella originaria di Israele, ma nella quale si manifesta l’incarnazione; per l’ebreo proprio quell’incarnazione è negazione della fede originaria. Per il cristiano l’incontro con l’Ebraismo è la riscoperta delle radici della sua fede; per l’ebreo l’incontro con il Cristianesimo è la scoperta di una diversità inserita nelle sue radici. Teologicamente, il cristiano non può fare a meno di Israele; l’ebreo, se non vuole negare la propria fede, deve fare a meno del Cristianesimo.
[R. DI SEGNI, «Progressi e difficoltà del dialogo dal punto di vista ebraico», in N. J. HOFMANN - J. SIEVERS - M. MOTTOLESE (edd.), Chiesa ed ebraismo oggi. Percorsi fatti, questioni aperte, Centro Cardinal Bea per gli Studi Giudaici, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2005, 19-29, qui 26 e 20]


Questa sintetica esposizione delle differenze tra “l’essenza delle due fedi”, ebraica e cristiana, dovrebbe, come si usa dire, tagliare la testa al toro: ove il toro è la moderna macchina da guerra denominata “ecumenismo”, la testa “l’ecumenismo ebraico-cristiano” e il tagliatore della testa la semplice persona di buon senso che non soggiace alle lusinghe moderne della rinuncia all’uso dell’intelligenza.

Cosa dice in parole povere il noto dott. Di Segni, rabbino capo di Roma, tra le massime autorità ebraiche in Italia?
Egli sostiene, ed insegna agli Ebrei e… ai non ebrei, che esiste una sola fede vera: l’Ebraismo; al punto che un cristiano non può fare a meno dell’Ebraismo, mentre un ebreo che volesse far proprio il Cristianesimo negherebbe la sua vera fede.
Ora, di fronte a tale chiarezza, qui presentata con questa espressione sintetica, ma ripetuta in tutte le salse dai varii rabbini per duemila anni, cosa decide di fare la gerarchia cattolica moderna? Spingersi sempre più avanti sulla strada del dialogo ebraico-cristiano, mirando evidentemente, anche se per certi aspetti in maniera incosciente, all’apostasia di fatto e alla formulazione di una sua giustificazione in chiave supposta teologica.È quello in cui si esercitano tanti cattolici, tutti preti moderni, che frequentano incontri come quello svoltosi a Salerno il 24-26 novembre 2014, patrocinato dalla CEI e intitolato: “Invocheranno il Nome dell’Eterno concordemente uniti - Prospettive sul re-incontro tra Ebrei e Cristiani”.

Citiamo solo alcuni passi tratti qua e là, perché non è nostra intenzione soffermarci a considerare, con più attenzione di quanto meriti, la manifesta abiura della Fede che sgorga dalle bocche di tanti chierici impazziti o in mala fede o l’uno e l’altro insieme.
[Abbiamo utilizzato due fonti: l’articolo del Centro Ebraico di Milano: “Ebrei e cattolici e la svolta di Salerno: il dialogo interreligioso fa un balzo in avanti”; e quello di Vatican insider: “I vescovi italiani sponsor del colloquio internazionale ebraico-cristiano”.]

Mons. Bruno Forte, noto teologo eterodosso che proprio per questo è diventato arcivescovo ed è membro della commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, sostiene:
«La mia è una dichiarazione d’amore verso la fede dei patriarchi di Israele che sono parte costitutiva del nostro essere cristiani. Non si può essere cristiani senza questa prossimità col popolo ebraico. Tutti siamo nati lì. La nostra è una relazione indistruttibile e necessaria. La Chiesa ha bisogno della fede di Israele e Gesù può essere compreso solo nella fede ebraica. È ora di ascoltare insieme la voce di sottile silenzio che è la voce del divino. Ecco perché l’unico modello percorribile oggi tra ebrei e cristiani è la complementarietà, alla luce del Berit Olam e dell’alleanza con Dio». 

Tutto apparentemente serio, tranne la palese incongruenza della distinzione tra l’alleanza eterna (Berit Olam) e l’alleanza con Dio – che è uguale - e che – insieme? – dovrebbero costituire la luce per capire il modello della complementarietà… complementarietàtra che cosa? Tra la fede vera – l’Ebraismo, secondo il rabbino Di Segni – e la fede che nega la fede vera - il Cristianesimo, secondo il rabbino Di Segni.
La complementarietà tra una cosa e il suo contrario.

Evidentemente Bruno Forte queste cose che dice Di Segni non le sa o se le sa non le ha capite, e dispiace, perché dà mostra di non aver capito che è proprio lui che dovrebbe rappresentare la continuazione dell’Ebraismo portato a compimento da Nostro Signore con la Nuova Alleanza, da cui Dio ha voluto la nascita del nuovo vero Israele, la Chiesa cattolica.
Cosa che Di Segni conosce benissimo, ma che si rifiuta di accettare perché si rifiuta di accettare la volontà di Dio e i comandi del Suo Figlio Unigenito, Gesù Cristo Nostro Signore. Oggi come duemila anni fa, Gesù è rifiutato dagli Ebrei, e oggi è rifiutato anche da tutti i cattolici che vogliono la complementarietà tra la Chiesa di Gesù e i seguaci della Sinagoga che rigetta Gesù.Siamo alla follia dell’ecumenismo senza consistenza, fondato sulla vacuità di parole che si contraddicono.

Il punto focale di simile dissociazione mentale che caratterizza tanti chierici moderni è rappresentato dalla frase un po’ ad effetto: La Chiesa ha bisogno della fede di Israele e Gesù può essere compreso solo nella fede ebraica.
Il monsignore che ha fatto tale affermazione, sembra che non abbia mai letto i Vangeli, dove si narra di Gesù che cresce da ebreo, discetta con i dottori del Tempio, ebrei, e richiama gli stessi Ebrei all’osservanza della legge.
E chi meglio di Lui poteva conoscere la fede di Israele, la fede ebraica?
Affermare quindi che “la Chiesa ha bisogno della fede di Israele” è una solenne corbelleria, perché avendo già la fede di Gesù e in Gesù, la Chiesa ha per ciò stesso la fede di Israele e quindi non ha alcun bisogno di avere ciò che ha già; corbelleria rafforzata da quel “Gesù può essere compreso solo nella fede ebraica”: una tautologia, visto che Gesù è la fede ebraica, ed è la fede ebraica perfezionata da Lui, il Figlio del Padre, che il Padre ha mandato a confermare e a completare la Legge e i Profeti… ebraici, appunto.

Ma dobbiamo essere noi a ricordare queste cose elementari ai chierici come Mons. Bruno Forte? Dobbiamo essere noi a ricordare ai pastori ciò che loro stessi dovrebbero conoscere e dovrebbero insegnare ai fedeli cattolici?

Questo stravolgimento dei ruoli è una tipica conseguenza del Vaticano II: attuato volutamente lo scambio tra il culto di Dio e il culto dell’uomo, ecco che le cose non si riconoscono più per ciò che sono, ma solo per ciò che sembrano essere a Tizio o a Caio.
Mons. Forte non si rende conto che la fede ebraica vera è quella praticata dalla Chiesa per duemila anni e incentrata in Nostro Signore Gesù Cristo, e crede invece che la fede ebraica sia quella praticata oggi dai rabbini, figli di quelli che Gesù venne ad istruire e che rifiutarono Lui e il suo insegnamento, che è l’insegnamento di Dio; egli crede che la fede d’Israele non sia quella praticata da lui, come sacerdote a modo di Melchisedec, ma sia quella praticata dai rabbini figli di quei rabbini che rifiutarono l’insegnamento di Dio e che quindi vennero respinti da Lui e sostituiti con altri, veri credenti in Dio e nel Suo Figlio Incarnato, veri figli di Israele, l’eletto del Signore.
Accecato com’è dai pregiudizi umani, Mons. Forte non si rende conto che invitare i cattolici a completare la loro fede con la fede di Israele, equivale a sostenere che è possibile completare gli insegnamenti e i comandi di Gesù Cristo, con le pratiche religiose di coloro che rifiutarono e che continuano a rifiutare Gesù.La contraddizione dovrebbe essere palese e facile da evitare, se non fosse che vi è un elemento pregiudiziale che va chiarito: cos’è la fede di Israele? Esiste ancora l’Ebraismo?

Quando si parla di Ebraismo si dà per scontata la continuità tra l’Ebraismo prima di Cristo e quello dopo Cristo, dimenticando, stranamente, non solo la venuta di Cristo, che è uno spartiacque più che evidente, ma anche la drastica menomazione subita dall’Ebraismo con la distruzione del Tempio.
La venuta di Cristo col suo epilogo terreno ad opera degli Ebrei, ha sancito la morte dell’Ebraismo mosaico e la sostituzione della vecchia Alleanza con la nuova Alleanza, che ovviamente include tutta la legge e i Profeti. 
Tale fine dell’Ebraismo poi venne suggellata dalla distruzione del Tempio, con la rimozione del cuore del culto: il sacrificio. In tal modo dell’Ebraismo rimase solo un residuo legato agli uomini, ai rabbini e ai legislatori, una sorta di superstizione esteriore, ormai vincolata alla ragione umana e slegata dalla presenza divina.

Da un punto di vista esteriore, l’Ebraismo ha continuato a sopravvivere, ma come mera pratica residuale, senza il suo centro e senza il suo cuore, come un involucro vuoto. Il centro, il cuore, il contenuto si era già trasferito, con Gesù, dal popolo eletto inteso in termini razziali, al popolo eletto inteso in termini spirituali. È il paradigma manifestato dalla vicenda personale di Paolo: da ebreo vincolato alla Legge e ad un popolo, ad Apostolo delle genti; nasce una nuova storia del popolo eletto.

Altro prete che ha studiato, altra perla ecumenica.
Don Cristiano Bettega, direttore UNEDI (Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, della CEI) e uno dei principali organizzatori dell’evento, se ne viene fuori dicendo:
«Era tempo per noi che si tornasse alla santa radice di Israele, radice come fonte di nutrimento e di vita indispensabile. Nutrimento che ha bisogno di essere voluto e fortemente desiderato. Per troppo tempo siamo stati lontani, indifferenti se non ostili. Parlo con un sentimento di commozione perché siamo qui non solo per l’urgenza del tema in questione ma perché da oggi “invocheremo il Nome dell’Eterno concordemente uniti”».

C’è tutto il cuore in questo caloroso ed entusiasta auspicio, peccato che manchi la testa, il cervello, perché solo pensare che il nutrimento del cattolicesimo sarebbe “la sana radice di Israele”, significa dar prova di una superficialità che se non è colpevole per erranza lo è per interesse. Ma la sana radice di Israele non è Dio e il Suo Figlio Unigenito che Lui ha inviato per la nostra salvezza?
Evidentemente questo prete, supposto cattolico, non lo è.

Invocheremo il Nome dell’Eterno concordemente uniti”, si esalta il Bettega; ma uniti semmai nell’invocazione, perché in quanto alla concordia tra chi crede in ciò che è rimasto della vecchia legge e chi invece crede nel vero Dio rivelato da Gesù Cristo, è cosa palesemente impossibile.Senza contare che, come dice Di Segni, o un cristiano si converte all’Ebraismo o è fuori dalla vera fede. 
Altro che “concordemente uniti”: gli Ebrei propongono la rinuncia alla verità e l’adesione al loro bi-millenario errore; i cristiani propongono la rinuncia all’errore e l’adesione alla rinnovata Alleanza; l’unica soluzione è che gli Ebrei abbandonino l’errore e si convertano.

Non bisogna dimenticare che ciò che rimane dell’Ebraismo è fondato sul rifiuto del Messia, così che si realizza una falsa religione umana che mette insieme certe forme antiche e la moderna disubbidienza a Dio. Tragico e instancabile errore  di un popolo che continua a ricalcare le orme dei padri e ad incorrere nei castighi di Dio.

Ed è a questo “concordemente uniti” che si richiama il Segretario generale della CEI, Mons. Galantino, che precisa :
«dire “concordemente uniti” è una sfida, un’attesa, una possibilità da annunciare: perché per troppo tempo siamo vissuti, noi cristiani con gli ebrei,  da separati in casa, con l’ombra del sospetto e dell’antisemitismo.»  

La scoperta dell’acqua calda, visto che furono gli Ebrei a rifiutare la concordia e la verità. Altro che antisemitismo, tutto è iniziato con l’anti Gesù Cristo, con gli Ebrei che si stracciarono le vesti, che accusarono di blasfemia il Figlio di Dio, che lo consegnarono ai Romani perché fosse crocifisso. Tutto è cominciato con l’anticristianesimo degli Ebrei, irrorato dal sangue dei primi cristiani uccisi e coltivato per duemila anni fino al Di Segni che ci ammonisce: “Teologicamente, il cristiano non può fare a meno di Israele”.
Come dire che chi scrive non potrebbe fare a meno di Di Segni: una palese e sfacciata corbelleria, fondata solo sulla presunzione di chi pensa di appartenere ancora al “popolo eletto”, dopo aver rifiutato sdegnosamente la volontà di Dio e il Messia da Lui inviato, e dopo aver coltivato per duemila anni tale rifiuto e l’avversione per il Cristianesimo.

Ma Galantino è un magistrale giocoliere e suggerisce che
dobbiamo mettere sul tavolo [del dialogo] i nostri dubbi. Per poter sentire il profumo di una fraternità sincera e rispettosa, che sappia godere della sinfonia delle differenze.”

Passando così dal “concordemente uniti” alla “sinfonia delle differenze”, due condizioni che suggeriscono la confusione mentale del prelato. Che sinfonia potrà mai esserci tra la religione che si chiama cristiana perché fondata su Cristo e la religione che si riconosce tale a partire dal rifiuto di Cristo?

Ma tutto questo non tocca minimamente le certezze del Cardinale Cocopalmerio che imperterrito dichiara:
Israele è il popolo dalle promesse divine mai revocate, ‘perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!’ Da ciò logicamente deriva la ormai chiara falsità della dottrina cosiddetta della sostituzione, secondo la quale la Chiesa, nuovo popolo di Dio avrebbe sostituito Israele, precedente popolo di Dio.  Nessuna sostituzione e, soprattutto, nessuna possibilità di tale sostituzione!… Noi cristiani diciamo con convinzione, però con umiltà che la Chiesa è il popolo di Dio o è il nuovo popolo di Dio.  Ma rifiutiamo con pari convinzione di ritenere che il popolo di Israele non sia più il popolo di Dio.  Il popolo di Israele era un tempo, è attualmente e sarà sempre il popolo di Dio! … immediatamente illogico e inaccettabile appare ogni desiderio o, peggio, ogni tentativo di convertire gli ebrei alla fede cristiana.”;  

dimostrando un supremo sprezzo del pericolo: il pericolo di far deflagrare il cervello a causa di tanti botti.

Vediamo: i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili, quindi la dottrina della sostituzione è falsa.Dopo duemila anni, ecco che scopriamo che la Chiesa ha insegnato il falso, e solo perché questo insegnamento oggi non coincide con la pretesa moderna che ci sarebbero due vie parallele per condursi in Cielo: la Chiesa e la sinagoga. 
Ora, non è questo il momento per ribadire quanto insegnato dallo stesso San Tommaso, noi ricordiamo solo che il Canone della Messa, che è il fondamento del culto che la Chiesa rende a Dio e quindi della religione cattolica, nella formula della consacrazione riporta le parole stesse di Gesù: “Questo è il Calice del mio Sangue, della nuova ed eterna Alleanza: mistero di Fede: Il Quale per voi e per molti sarà sparso in remissione dei peccati.”

La nuova ed eterna Alleanza di cui parla Gesù sarebbe allora, secondo i prelati filo ebraici, un’altra possibilità per ricondursi a Dio, fermo restando la possibilità dell’Ebraismo. La cosa è talmente assurda che finisce col minare l’intera religione cattolica, per la quale Cristo si sarebbe immolato “senza alcuna necessità”, per così dire, quasi per un capriccio, visto che c’era già l’Ebraismo. 
E se anche si volesse sostenere, come fa il cardinale Cocopalmerio, che “Israele era un tempo, è attualmente e sarà sempre il popolo di Dio!”, a fianco del nuovo popolo di Dio che è la Chiesa,resterebbe da spiegare questa stranezza di un Dio che si è scelto “due popoli” e per far questo fa immolare il Suo Figlio sulla Croce per mano del primo popolo che si pregia di non riconoscerlo e di metterlo a morte, e questo per stabilire che tale primo popolo continua ad essere il popolo di Dio.
Siamo alla aperta offesa all’intelligenza, praticata da questi nuovi prelati con una disinvoltura che appalesa la pesante incidenza del demonio.
È logico poi dedurne che gli Ebrei non debbano essere convertiti, ma questo il signor Cardinale non deve semplicemente affermarlo di bell’e nuovo, deve conciliarlo con i Vangeli e con San Paolo…tranne che non voglia arrivare a sostenere che anche questi per duemila anni hanno insegnato il falso.

Per ultimo citiamo un caso che sembra poggiare sul patologico e che invece rivela semplicemente il grado di apostasia a cui sono giunti certi chierici moderni, sospinti dai luoghi comuni e dalle frasi fatte e miranti a distruggere quanto di cattolico è ancora rimasto dopo l’imperversare incontrollato del Vaticano II.
Si tratta  di tale Luigi Nason, monsignore, professore, biblista ed esperto del dialogo ebraico-cristiano, che col compiacimento dei rabbini presenti ha sciorinato una tiritera di invettive contro la Chiesa, i Padri e i Santi, riproponendo i punti di vista interessati dell’Ebraismo e le accuse da esso formulate in duemila anni contro la Chiesa.
Riportiamo solo qualche esempio.
è anche necessaria una nuova lettura delle Scritture ebraiche. Basta con i passi estrapolati dal loro contesto, quello della Torà, che sono stati alla base dell’antigiudaismo cristiano.” 

Espressione che sembra suggerita pari pari da uno di quei rabbini che continuano a coltivare l’atavico anticristianesimo ebraico. E il nostro monsignore non fa altro che riproporla sotto l’etichetta cattolica, auspicando di fatto la scomparsa di ogni lettura cristiana del testo biblico da rimpiazzare con una lettura ebraica.
è inutile cercare Gesù di Nazareth nel Tanach - come invece hanno fatto duemila anni di metodo allegorico, pensiero e ermeneutica cristiana - perché non c’è, cercarlo lì è stato una forzatura, un travisamento.”
Altra espressione interamente ebraica ripresentata in tinta cattolico modernista, a significare che il lavoro dei Padri e dei teologi cattolici in questi duemila anni è stato solo un’impostura. Eppure è un prete cattolico quello che dice queste cose, un prete cattolico che con l'ecumenismo muore dalla voglia di fare il rabbino del moderno Ebraismo.

Come abbiamo sostenuto altre volte, l’ecumenismo nel suo complesso e l’ecumenismo ebraico cristiano in particolare, partono dall’idea irreale di far andare d’accordo cose che stanno agli antipodi e finiscono col giungere all’unico risultato possibile: l’apostasia della vera Fede.Quanto abbiamo riportato qui dimostra a sufficienza che sotto le vesti dell’ecumenico abbraccio si appalesa sempre un aggancio mortale che trascina il cattolico nel vortice dell’incongruenza e gli fa perdere la Fede nella Chiesa e in Cristo, trasformandolo da fedele in infedele, al pari degli infedeli con cui ha provato colpevolmente a giuocare all’ecumenismo.



di Belvecchio

*Ebrei e cristiani fratelli gemelli

Marc Chagall La colomba e la Menorah, litografia
Abbiamo vissuto cinquant’anni ricchi di novità nell’incontro e nel dialogo tra ebrei e cattolici, iniziato durante il Vaticano II. La dichiarazione conciliare Nostra aetate nella parte dedicata all’ebraismo ha dato indicazioni autorevoli per la riflessione comune di ebrei e cristiani e ha offerto un’ispirazione creativa per gesti che in questo mezzo secolo hanno non solo confermato il dato conciliare, ma gli hanno permesso di esplicitare tutte le sue potenzialità su strade mai percorse, inattese.

Dobbiamo riconoscere una buona ricezione del dettato conciliare nella chiesa, nonostante si possano ancora denunciare inadempienze a livello di periferie ecclesiali: le stesse autorità delle chiese sono sovente coinvolte in incontri, dialoghi, iniziative che segnano l’assodata novità nel comportamento dei cristiani nei confronti degli ebrei. Il paragrafo 4 di Nostra aetate, dedicato al mistero di Israele, aveva osato affermare con forza che “c’è un legame spirituale tra il popolo del Nuovo Testamento e la stirpe di Abramo”. La chiesa, ramo d’olivo selvatico innestato sul tronco santo di Israele, confessa l’imprescindibile legame con il popolo delle promesse e delle benedizioni e nello stesso tempo si sente posta di fronte al mistero del permanere di Israele nella storia accanto alla chiesa, segno questo del “non-ancora” compiuto disegno di salvezza da parte di Dio. Tra Israele e chiesa resta una tensione che deve essere feconda: quella dello zelo, della gelosia in vista dell’unità attesa da Dio (cf. Rm 11,14).
La strada per una fiduciosa, trasparente pratica dell’ecumenismo era così stata aperta dal concilio, una strada specifica, non assimilabile al dialogo interreligioso, perché il legame tra Israele e chiesa non è sullo stesso livello del legame con le altre fedi. Ma in cosa consiste questo legame? Giovanni Paolo II – nella sua personale attenzione verso gli ebrei e con l’intento di riparare colpe cui non erano estranee responsabilità anche da parte di cristiani – coniò una formula molta efficace: “gli ebrei sono nostri fratelli maggiori!”. L’espressione fu ben accolta e risuonò in ogni incontro di dialogo ebraico-cristiano, ma teologicamente e storicamente gli ebrei attuali non sono fratelli maggiori, nati prima di noi o in una posizione di eccellenza rispetto a noi: è indispensabile, anche se tutt’altro che semplice, saper leggere la storia umana e la storia della salvezza, cogliendo, ebrei e cristiani insieme, una derivazione da un unico tronco (quello da noi chiamato Antico Testamento), una derivazione che non dà precedenza all’uno sull’altro. Sarebbe più esatto dire che siamo “fratelli gemelli”. È infatti nell’interpretazione dell’Antico Testamento che si sono formate – in un’epoca di pluralismo di forme e di appartenenze: sadducei, esseni, farisei... – due comunità separate e diverse, sebbene entrambe riferentesi agli stessi testi e alla medesima storia della salvezza. Come annotava il cardinal Ratzinger, “fede cristiana e giudaismo sono due modi di fare proprie le Scritture di Israele che in definitiva dipendono dalla posizione assunta nei confronti di Gesù”. L’Antico Testamento apre a entrambe le strade, e se l’interpretazione cristiana vede il realizzarsi in Gesù Cristo delle profezie dell’Antico Testamento perché ormai centro della fede è lui, il Messia e Signore, l’interpretazione ebraica ha messo al centro la Torah che, con i commenti rabbinici di Mishna e Talmud, va amata e custodita “più di Dio stesso”.
Ecco perché dobbiamo dire che le due fedi sono fratelli gemelli piuttosto che definire gli ebrei “fratelli maggiori”, espressione che tra l’altro rimanda alle vicende dell’Antico Testamento in cui il fratello minore scalza sempre il maggiore, aspetto non so quanto gradito agli ebrei. San Paolo nella Lettera ai Romani dirà in tono profetico: “Se il loro rifiuto [di Cristo] ha segnato la riconciliazione con il mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione se non una resurrezione dai morti?” (Rm 11,15). Ecco perché oggi la chiesa non organizza alcuna missione verso gli ebrei, come l’ha tentata e praticata nei secoli passati, arrivando a usare anche la tortura, la persecuzione e l’imposizione: gli ebrei sono già convertiti dagli idoli al Dio vivente e la loro entrata nella chiesa, come per Paolo a Damasco, non sarà mai “conversione” ma solo “rivelazione” di Cristo (cf. At 22,6 ss.; Gal 1,16). Dialogo sì – e convinto e necessario – ma nessuna azione di proselitismo verso gli ebrei: questa è oggi la coscienza e la volontà della chiesa.
Dalla Nostra aetate ci sono stati molti gesti e molte parole dei papi, soprattutto Giovanni Paolo II e, in continuità con lui, Benedetto XVI. Ora, con l’avvento di papa Francesco – che già in Argentina aveva posto come grande compito nella sua pastorale l’incontro con la comunità ebraica – il dialogo ha preso nuovo slancio e si è rinvigorito di speranze.
Sì, molto è cambiato dagli anni del dopoguerra – quando eravamo invitati a diffidare dei “giudei”, presenza forte ed eloquente nel mio Monferrato natale – ad oggi, quando anche la possibilità di viaggi nei luoghi santi costituisce una forte opportunità di conoscere il popolo ebraico, la sua preghiera, i suoi costumi, la sua cultura... Forse nelle chiese locali – salvo casi come Milano, grazie all’episcopato del card. Martini – non c’è nella pastorale e nella catechesi una particolare attenzione a questo tema e a questa speranza, ma è pur vero che cinquant’anni su duemila segnati da antigiudaismo sono una breve stagione che può essere solo di semina e non di crescita e di raccolta.
Fratelli gemelli, con uguale diritto ad appellarsi alle Scritture del popolo di Israele, fratelli gemelli che confessano lo stesso Dio e sono in attesa del Messia, quel Messia che i cristiani già riconoscono in Gesù Cristo, quel Messia che per gli ebrei è ancora velato ma è invocato nella storia come salvezza definitiva del mondo. Anche noi cristiani attendiamo così come loro “che possano giungere i tempi della consolazione e il Signore mandi quello che aveva destinato [agli ebrei] come Messia, cioè Gesù” (At 3,20).
Questa “pietra miliare”dell’attesa messianica ci colloca entrambi come eredi dell’Antico Testamento e ci pone gli uni accanto agli altri in una situazione particolarissima: Israele non fa parte delle diverse religioni del mondo, ma è accanto a noi cristiani come una presenza fraterna che ci intriga, di cui non possiamo fare a meno e che dobbiamo considerare (guardando non a tutti gli ebrei, ma a quelli credenti, consapevoli di essere in alleanza con Dio e di essere suoi testimoni nel mondo, l’ “Israele di Dio” di cui parla san Paolo) legati a noi da una relazione costitutiva nella quale è chiesta loro l’osservanza della Legge e la missione di testimoniare il Dio unico attendendo il suo Giorno. Verso di loro spetta a noi una testimonianza, ma nessun proselitismo perché, come disse Giovanni Paolo II a Magonza nel 1982, “l’antica alleanza non è mai stata revocata da Dio”.
Sì, accanto a noi c’è un fratello, popolo di Dio, Israele “cui appartengono le promesse, le benedizioni, la gloria, le alleanze ... e da cui proviene Cristo” (Rm 9,4 ss.). Lo sappiamo bene e non possiamo negarlo: Cristo Gesù ci unisce e ci separa. Ci unisce come ebreo, figlio di ebrei, credente giudeo, profeta in opere e parole; ma ci separa come Messia, figlio di Dio, unico mediatore della nostra salvezza. Non c’è dunque per ora una sola missione di Israele e della chiesa nei confronti del mondo: restano due e diverse, in attesa che si compiano “i tempi dei pagani”, i tempi dell’evangelizzazione, e che Dio porti a unità ciò che a causa del peccato è stato diviso.
Pubblicato su: Avvenire

Avvenire, 11 gennaio 2015
di ENZO BIANCHI


2 commenti:

  1. l’antica alleanza non è mai stata revocata da Dio”

    Eh si, vero, quindi il gp2 colui che baciò il corano l'ecumenista ad oltranza e chi più ne ha più ne metta, ha così negato la Divinità di Gesù Cristo. ma lo vogliamo capire o no che l'ecumenismo è l'arma di satana?

    prima del maledetto cv2. e il mondo era più pulito in ordine e in pace, poi è arrivata l'eresia blasfema del dialogo ecumenico interreligioso e da allora abbiamo avuto, orde di immigrati che hanno invaso le nostre città e paesi, un clero protestante giudaizzante , seminari vuoti, chiese deturpate come ai tempi di napoleone e i veri cattolici messi alla gogna, papi postconciliari colpevoli di averci fatto perdere la nostra identità cultura e amore per la nostra amata Patria, per la nostra Storia, vedasi il gp2 con le scuse che ha chiesto per le Crociate e non solo.

    Ciò che mi consola è che comunque per questi signori che tanto hanno sfidato Dio e per i politici che hanno distrutto l'Italia e l'Europa tutta, verrà il Giudizio di Dio e sarà terribile ed eterno.

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  2. E allora, se la " antica alleanza " non è mai stata revocata da DIO, a che serve tutto sto' dialogo e micio micio che i nostri soloni continuano imperterriti a fare con i nostri fratelloni e supersanti ebrei ?. Gli ebrei detengono i massimi introiti mondiali, tantissime banche sono loro, società di varia natura, fabbriche anche quelle di varia natura e tutto quello che fa denaro e potere è loro; non mi risulta che siano discriminati in qualche settore della società, ne' tanto meno nella vita quotidiana. Quindi, se la salvezza finale non escluderà ne' i fratelloni ebrei , che tanto hanno da insegnarci , ne' tutte le altre religioni ( ovviamente quelle che Roma caput mundi riconosce ) , a che serve tutto questo dialogo. Mah ! Ai posteri l' ardua sentenza. jane

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