ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 29 gennaio 2015

Eresia si,no?

Un Papa che cadde nell’eresia Giovanni XXII e la visione beatifica dei giusti dopo la morte

(di Roberto de Mattei) Tra le verità più belle e misteriose della nostra fede c’è il dogma della visione beatifica delle anime in cielo. La visione beatifica consiste nella contemplazione immediata e intuitiva di Dio riservata alle anime passate all’altra vita nello stato di Grazia e completamente purificate da ogni imperfezione. Questa verità di fede, enunciata nella Sacra Scrittura e confermata nei secoli dalla Tradizione, è un dogma irreformabile della Chiesa cattolica.
Il Nuovo Catechismo lo ribadisce al n. 1023: «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono “così come egli è” (1 Gv 3,2), “a faccia a faccia” (1 Cor 13,12)».

All’inizio del XIV secolo un Papa, Giovanni XXII, impugnò questa tesi nel suo magistero ordinario e cadde nell’eterodossia. I cattolici più zelanti del suo tempo lo ripresero pubblicamente. Giovanni XXII – ha scritto il cardinale Schuster – «ha delle gravi responsabilità innanzi al tribunale della storia (…)», perché «offrì alla Chiesa intera lo spettacolo umiliante dei principi, del clero e delle università che rimettono il Pontefice sulla retta via della tradizione teologica cattolica, mettendolo nella dura necessità di disdirsi» (Idelfonso Schuster o.s.b., Gesù Cristo nella storia. Lezioni di storia ecclesiastica, Benedictina Editrice, Roma 1996, pp. 116-117).
Giovanni XXIIal secolo Jacques Duèze fu eletto al soglio pontificio a Lione il 7 agosto 1316, dopo una sede vacante di due anni, seguita alla morte di Clemente XV. Egli si trovò a vivere un’epoca tormentosa della storia della Chiesa, tra l’incudine del re di Francia Filippo il Bello e il martello dell’Imperatore Lodovico il Bavaro, entrambi avversi al Primato di Roma. Per ribadire la supremazia del Romano Pontefice, contro le spinte gallicane e laiciste serpeggianti, il teologo agostiniano Agostino Trionfo (1243 1328) compose, per commissione del Papa, tra il 1324 e il 1328, la sua Summa de ecclesiastica potestate. Ma Giovanni XXII entrò in contrasto con la tradizione della Chiesa su un punto di primaria importanza.
In tre sermoni pronunciati nella cattedrale di Avignone tra il 1 novembre 1331 e il 5 gennaio 1332, egli sostenne l’opinione secondo cui le anime dei giusti, anche dopo la loro perfetta purificazione in purgatorio, non godono la visione beatifica di Dio. Solo dopo la risurrezione della carne e il giudizio finale sarebbero elevate da Dio alla visione della divinità. Poste «sotto l’altare» (Apoc. 6. 9) le anime dei santi sarebbero consolate e protette dall’umanità di Cristo, ma la visione beatifica sarebbe differita fino alla risurrezione dei corpi e al giudizio finale (Marc Dykmans in Les sermons de Jean XXII sur la vision béatifique, Università Gregoriana, Roma 1973, ha pubblicato i testi integrali dei sermoni pronunciati da Giovanni XXII; cfr: anche Christian Trottman, La vision béatifique. Des disputes scolastiques à sa définition par Benoît XII, Ecole Française de Rome, Roma 1995, pp. 417-739).
L’errore secondo cui la visione beatifica della Divinità sarebbe concessa alle anime non dopo il primo giudizio, ma solamente dopo la resurrezione della carne era antico, ma nel XIII secolo era stato confutato da san Tommaso d’Aquino, soprattutto nel De veritate (q. 8 ad 1) e nella Summa Theologica (I, q. 12, a. 1). Quando Giovanni XXII ripropose quest’errore, fu apertamente criticato da molti teologi. Tra coloro che intervennero nel dibattito, furono Guillaume Durand de Saint Pourcain, vescovo di Meaux (1270-1334), che accusò il Papa di riproporre le eresie dei catari, il domenicano inglese Thomas Waleys (1318–1349), che per la sua resistenza pubblica soffrì processo e prigionia, il francescano Nicola da Lira (1270-1349) e il cardinale Jacques Fournier (1280-1342), teologo pontificio, autore di un trattato De statu animarum ante generale iudicium.
Quando il Papa cercò di imporre questa erronea dottrina alla Facoltà di teologia di Parigi il re di Francia Filippo VI di Valois ne proibì l’insegnamento e, secondo quanto racconta il cancelliere della Sorbona Jean Gerson, giunse a minacciare Giovanni XXII di rogo, se non avesse ritrattato. I sermoni di Giovanni XXII, totus mundum christianum turbaverunt (turbarono tutto il mondo cristiano), disse il Maestro degli Eremiti di sant’Agostino Tommaso di Strasburgo (in Dykmans, op. cit., p. 10).
Alla vigilia della morte, Giovanni XXII affermò di essersi pronunciato solo come teologo privato, senza impegnare il magistero che deteneva. Giovanni Villani riporta nella suaCronica una ritrattazione che il Papa fece della sua tesi, il 3 dicembre 1334, il giorno prima della sua morte, su sollecitazione del cardinale Dal Poggetto, suo nipote, e degli altri suoi parenti. Il 20 dicembre 1334 fu eletto Papa il cardinale Fournier, che assunse il nome di Benedetto XII (1335-1342).
Il nuovo pontefice volle chiudere la questione con una definizione dogmatica, la costituzione Benedictus Deus del 29 gennaio 1336, che così si esprime: «Con la nostra apostolica autorità definiamo che, per disposizione generale di Dio, le anime di tutti i Santi… anche prima della riassunzione dei loro corpi e del giudizio finale, furono, sono e saranno in cielo… e che queste anime hanno visto e vedono l’essenza divina con una visione intuitiva e, più ancora, faccia a faccia, senza la mediazione di alcuna creatura» (Denz-H, n. 1000). Era un articolo di fede che fu ripreso il 6 luglio 1439 dalla bolla Laetentur coeli del Concilio di Firenze (Denz-H, n. 1305).
Dopo queste decisioni dottrinali, la tesi sostenuta da Giovanni XXII deve essere considerata formalmente eretica, anche se all’epoca in cui il Papa la sostenne non era stata ancora definita come dogma di fede. San Roberto Bellarmino, che si è occupato ampiamente di questo caso nel De Romano Pontifice (Opera omnia, Venetiis 1599, Lib. IV, cap. 14, coll. 841-844), scrive che Giovanni XXII propugnò una tesi eretica, con l’intenzione di imporla come verità ai fedeli, ma morì prima di aver potuto definire il dogma, senza perciò intaccare con il suo comportamento il principio dell’infallibilità pontificia.
L’insegnamento eterodosso di Giovanni XXII era certamente un atto di magistero ordinario, riguardante la fede della Chiesa, ma non infallibile, perché privo di carattere definitorio. Se dovessimo applicare alla lettera l’Istruzione Donum Veritatis del 24 maggio 1990, questo magistero autentico, seppure non infallibile, secondo alcuni avrebbe dovuto essere recepito come un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il «carisma della verità» (Dei Verbum, n. 8), «rivestiti dell’autorità di Cristo» (Lumen gentium, n. 25), «alla luce dello Spirito Santo» (ibidem). La sua tesi avrebbe richiesto, il grado di adesione denominato «ossequio religioso della volontà e dell’intelletto, radicato nella fiducia nell’assistenza divina al magistero» e perciò «nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede» (Mons. Fernando Ocariz, “Osservatore Romano”, 2 dicembre 2011).
I difensori dell’ortodossia cattolica invece di resistere apertamente alle dottrine ereticali del Papa, avrebbero dovuto inchinarsi di fronte al suo “magistero vivente”, e Benedetto XII non avrebbe dovuto opporre alla dottrina del suo predecessore il dogma di fede che ci assicura che le anime dei giusti, dopo la morte, godono dell’Essenza divina con una visione intuitiva e diretta. Ma, grazie a Dio, alcuni buoni teologi e prelati del tempo, mossi dal loro sensus fidei,rifiutarono pubblicamente il loro assenso alla suprema autorità. Un’importante verità della nostra fede poté essere così conservata, trasmessa e definita. (Roberto de Mattei)

Papa Giovanni XXII fu davvero eretico?      

di CdP Ricciotti.
Recentemente Corrispondenza Romana ha pubblicato l’articolo «Un Papa che cadde nell’eresia Giovanni XXII e la visione beatifica dei giusti dopo la morte», firmato dal prof. Roberto De Mattei.
Tolte le note di carattere storico, sempre puntuali, che caratterizzano la firma del professore, lascia davvero perplessi il significato “teologico” dello scritto.
Sin dal titolo, «Un Papa che cadde nell’eresia Giovanni XXII», sorgono seri dubbi sull’affidabilità teologica dello scritto.
Si legge: «In tre sermoni pronunciati nella cattedrale di Avignone tra il 1 novembre 1331 e il 5 gennaio 1332, egli sostenne l’opinione secondo cui le anime dei giusti, anche dopo la loro perfetta purificazione in purgatorio, non godono la visione beatifica di Dio. Solo dopo la risurrezione della carne e il giudizio finale sarebbero elevate da Dio alla visione della divinità. Poste “sotto l’altare” (Apoc. 6. 9) le anime dei santi sarebbero consolate e protette dall’umanità di Cristo, ma la visione beatifica sarebbe differita fino alla risurrezione dei corpi e al giudizio finale».
Ho sottolineato quella che, secondo il professore, sarebbe l’eresia nella quale cadde Papa Giovanni XXII.
Ancora: «L’errore secondo cui la visione beatifica della Divinità sarebbe concessa alle anime non dopo il primo giudizio, ma solamente dopo la resurrezione della carne era antico, ma nel XIII secolo era stato confutato da san Tommaso d’Aquino, soprattutto nel De veritate (q. 8 ad 1) e nella Summa Theologica (I, q. 12, a. 1). Quando Giovanni XXII ripropose quest’errore, fu apertamente criticato da molti teologi».
Errore antico, certamente, ma … la Chiesa ancora non aveva definito dogmaticamente il contrario, parimenti condannando solennemente le proposizioni avverse. Inoltre è naturale, nella Chiesa, che il teologo confuti una dottrina quantomeno dubbia o comunque apparentemente contraria alla Rivelazione, ma fino ad un certo punto: quello che si è già definito, non può più essere oggetto di discussione fra i teologi (cf. Humani Generis, Pio XII).
Poi c’è un invito alla legittimazione della resistenza al Pontefice, che l’autore  chiaramente vuol traslare all’epoca contemporanea, così come ha già fatto molte volte in passato: «[…] il domenicano inglese Thomas Waleys (1318–1349), che per la sua resistenza pubblica soffrì processo e prigionia».
Prosegue: «Quando il Papa cercò di imporre questa erronea dottrina alla Facoltà di teologia di Parigi il re di Francia Filippo VI di Valois ne proibì l’insegnamento e, secondo quanto racconta il cancelliere della Sorbona Jean Gerson, giunse a minacciare Giovanni XXII di rogo, se non avesse ritrattato […]». Qui si tenta di attribuire ad un laico, sebbene Re e cattolico, un potere che questi non ha mai avuto, se non dopo aver richiesto un “esame dall’Inquisizione; l’esame iniziò il 19 dicembre 1333″. Non fu, quindi, il laico ad intervenire direttamente, ma fu la Chiesa, per mezzo della Santa Inquisizione, a prendersi canonicamente in carico il problema.
Dove vuole arrivare l’autore del pezzo, noto per alcune sue discutibili posizioni teologiche (qui maggiori info)? Che scopo può avere, oggi, un articolo del genere? Solamente uno: cercare disperatamente di convincere i suoi lettori che un Pontefice possa promulgare documenti di Magistero ordinario contenenti eresie, continuando a conservare il Pontificato, col fine di fomentare forme di resistenza all’Autorità in atto (Chiesa docente), così provando a legittimarle, a tutto vantaggio dei laici (possiamo dire della Chiesa discente), come lui. Nel contempo, chiaramente inficiando l’infallibilità pontificia nelle eventuali definizioni di Magistero ordinario.
Teologicamente, invece, si deve parlare di Chiesa in stato di privazione, come ricorda sant’Alfonso Maria de Liguori, Dottore della Chiesa. In «Verità della fede», parte III, cap. VIII, il Liguori scrive:«Niente ancora importa che ne’ secoli passati alcun pontefice sia stato illegittimamente eletto, o fraudolentemente siasi intruso nel pontificato; basta che poi sia stato accettato da tutta la chiesa come papa, attesoché per tale accettazione già si è renduto legittimo e vero pontefice. Ma se per qualche tempo non fosse stato veramente accettato universalmente dalla chiesa, in tal caso per quel tempo sarebbe vacata la sede pontificia, come vaca nella morte de’ pontefici. Così neppure importa che in caso di scisma siasi stato molto tempo nel dubbio chi fosse il vero pontefice; perché allora uno sarebbe stato il vero, benché non abbastanza conosciuto; e se niuno degli antipapi fosse stato vero, allora il pontificato sarebbe finalmente vacato». Nella versione del testo Verità della Fede, Volume primo, Giacinto Marietti, Torino, 1826, alla pagina 142, si leggono le parole del santo Dottore: «La seconda cosa certa si è, che quando in tempo di scisma si dubita, chi fosse il vero papa, in tal caso il concilio può esser convocato da’cardinali, e da’ vescovi; ed allora ciascuno degli eletti è tenuto di stare alla definizione del concilio, perchè allora si tiene come vacante la sede apostolica. E lo stesso sarebbe nel caso, che il papa cadesse notoriamente e pertinacemente in qualche eresia. Benché allora, come meglio dicono altri, non sarebbe il papa privato del pontificato [potestà di giurisdizione] dal concilio come suo superiore [difatti è inferiore], ma ne sarebbe spogliato immediatamente da Cristo, divenendo allora soggetto affatto inabile, e caduto dal suo officio». Concetto chiaramente ripreso dal CJC 1917 al can 188 § 4.
Questa mia interpretazione del pezzo del prof. De Mattei potrebbe sembrare una congettura, ma non è affatto così, difatti si legge: «L’insegnamento eterodosso di Giovanni XXII era certamente un atto di magistero ordinario, riguardante la fede della Chiesa, ma non infallibile, perché privo di carattere definitorio»; «[…] grazie a Dio, alcuni buoni teologi e prelati del tempo, mossi dal loro sensus fidei, rifiutarono pubblicamente il loro assenso alla suprema autorità». Il professore applica lo stesso ragionamento ai documenti del “concilio” Vaticano II che, a suo dire, non avrebbero definito, pertanto il laico, che secondo lui sarebbe dotato di sensus fidei più di tutta la gerarchia contemporanea, deve rifiutarsi pubblicamente di dare assenso alla suprema autorità. Abbiamo precedentemente dimostrato che non è così (Clicca qui o qui).
Posso solo supporre cosa abbia spinto il preparato storico prof. De Mattei a scrivere un articolo del genere, ma, è bene precisarlo, Papa Giovanni XXII, per l’epoca, non proferì eresia. L’eresia è una dichiarazione che apertamente si contrappone ad una verità rivelata e definita, mentre, nel caso di Giovanni XXII, la Chiesa ha sempre parlato di “prossimità all’eresia”, ovvero di una dichiarazione che si contrappone ad una verità rivelata, anche Tradizionale, ma non ancora definita. Questo sembra saperlo il De Mattei (dice di sfuggita: «anche se all’epoca in cui il Papa la sostenne non era stata ancora definita come dogma di fede»), eppure il suo articolo formula ben altre gravissime accuse: «Un Papa che cadde nell’eresia Giovanni XXII». Fra le conseguenze in caso di eresia e quelle in caso di prossimità all’eresia, secondo Diritto c’è una differenza abissale.
Affronto l’argomento in vari capitoli del mio «Apologia del Papato», EffediEffe 2014. Cito qualche stralcio dal capitolo Giovanni XXII e le anime dei giusti:
L’«Enciclopedia Cattolica»[1] racconta la questione dottrinale sollevata da Papa Giovanni XXII sulle anime dei giusti, ed anche questa vicenda troppo spesso viene strumentalizzata ed usata come clava dai Protestanti, dai disertori e dai disobbedienti di ogni risma per inficiare il dogma dell’infallibilità pontificia.
«Giovanni XXII provocò poi inoltre una controversia sullo stato delle anime dei giusti prima della resurrezione generale [in attesa di Giudizio universale, NdA]. Egli sostenne, a titolo privato, che esse restavano sub Altare Dei, godevano cioè della contemplazione dell’umanità di Cristo, ma non della visione beatifica. Questa sua strana opinione gli valse violenti attacchi contro la sua ortodossia da parte dei Francescani michelisti (seguaci di Michele da Cesena), rivoltatisi contro di lui. Prima di morire il Pontefice ritrattò[2] quello che aveva insegnato».
Papa Giovanni XXII cadde in «prossimità all’eresia», poiché la materia non era stata già esplicitamente definita, tuttavia non in insegnamenti di Magistero ordinario ed universale (in tre omelie ed una dissertazione)[3], dunque non impegnanti l’infallibilità, inoltre si disse disposto a ritrattare se la sua dottrina si fosse dimostrata contraria alla dottrina cattolica, pertanto si evince, dalla sua manifesta intenzione, che non fu affatto pertinace. Infatti convocò una Commissione per valutare la sua dottrina, fatto che pienamente mostra la sua NON pertinacia della volontà. Morì poco dopo aver scritto la «Ne super his», datata al 3 dicembre 1334, in cui ritrattava la sua dottrina. La Bolla fu rinvenuta ed emanata dal suo successore Papa Benedetto XII.
… Secondo molti religiosi e teologi, ai giorni nostri, invece, la vicenda sarebbe ben diversa poiché da quasi cinquant’anni vescovi, preti e laici autoproclamatisi “tradizionalisti” di ogni ramo hanno rumorosamente sollevato questioni e scritto diligentemente alla gerarchia vaticanosecondista più volte, soprattutto circa l’eresia evidente, qui già menzionata, che sarebbe presente in «Dignitatis Humanæ», ecc…; ben documentando[4] e confutando con il Magistero precedente. Nessun cedimento c’è mai stato, come non c’è stata alcuna ritrattazione, ma solo conferme: questo modus operandi potrebbe evidenziare, come abbiamo studiato, la «pertinacia della volontà». Ciò rende evidente che siamo in uno di quei casi che il Vescovo “Sedevacantista” Tesista[5] mons. Donald J. Sanborn,  già nominato in precedenza, ha definito «difficile (ma non impossibile)» di constatazione della pertinacia. 
Lo scritto DE LUTHERO, CALVINISMO, SCHIMATICO QUIDEM, SED RECONCILIABILI – R. AC. EX. P. FR. AUGUSTINUS GIBBON DE BURGO, O.S.A. 1663, può essere molto utile allo studio della questione:
Quaestio 4. An ignorantia vincibilis excuset ab haeresi formali?

XVIII. Objiciunt 1. authores 1. sententiae: Solus ille dicitur absolute et simpliciter haereticus, qui scienter recedit ab Ecclesia, dissentiendo iis quae sufficienter ab illa proponuntur. Sed qui ab illa recedit errando ex ignorantia vincibili non scienter recedit. Ergo non est absolute et simpliciter haereticus.
XIX. Distinguo majorem: Simpliciter haereticus formalis dicitur qui scienter scientia formali vel aequivalenti recedit ab Ecclesia, concedo majorem: Scientia tantum formali et distincta, nego majorem. Eodem modo distinguenda venit minor: Qui enim ex ignorantia vincibili errat, recedit ab Ecclesia scienter scientia virtuali et aequivalenti, licet non formali, quia tam voluntaria ignorantia aequiparatur scientiae in ordine ad effectum subsecutum, ex eo quod tam supine ignorans advertat ad obligationem sciendi, et praecaventi effectum malum secuturum, potueritque scire. Ergo prudenter censetur noluisse scire, cum diligentiam debitam omisit. Ergo censetur voluisse ignorantiam et errorem ex ea secutum; et quidem scienter, quia praevidit vel saltem praevidere poterat et tenebatur hunc errorem, (quo actu se opponit authoritati Ecclesiae) ex sua negligentia secuturum. Ac proinde scienter recedit ab Ecclesia, illique contradicit, saltem indirecte et interpretative.
XX. Objectio 2. Nemo censetur haereticus, quamdiu est ita dispositus ut velit acceptare et credere quidquid ei sufficienter proponitur, tanquam dogma Ecclesiae. Sed qui errat circa aliquem articulum, quem vincibiliter ignorat fuisse ab Ecclesia propositum, ita potest esse affectus, ut paratus sit credere quidquid ei sufficienter ab Ecclesia proponeretur: Non obstante enim illo errore et ignorantia potest serio et syncere affirmare se firmiter credere omnia quae Ecclesia proposuerit. Ergo non potest dici haereticus formalis.
XXI. Resp. Concedendo majorem et negando minorem: Qui enim per ignorantiam vincibilem, quam facili negotio deponere poterat, errat contra ea, quae sufficienter proponit Ecclesia, hujus authoritatem efficaciter et cum effectu censetur contemnere, et postponere suae phantasiae et errandi libidini; atque; adeo cum hac voluntate efficaci dissentiendi iis quae ab Ecclesia proponuntur, non est compatibilis alia voluntas efficax, sed tantum inefficax subjiciendi seu captivandi suum intellectum in obsequium fidei, et credendi ea quae ab Ecclesia proponuntur; essent enim voluntates contradictorie oppositae. Cum effectu igitur et efficaciter discredit ea, quae dicit se velle credere, sed valde inefficaciter. Facto negat, quod fallaci ore affirmat.
XXIII. Ob. 3. Fides Catholica per quemlibet actum infidelitatis aut formalis haeresis deperditur. Atqui per errorem subsecutum ex ignorantia vincibili non deperditur. Ergo ejusmodi error non est formalis haeresis. Minor probatur. Habitus fidei infusae non perditus, quamdiu homo est ita dispositus, ut possit et velit actus fidei divinae elicere circa articulos a Deo revelatos et sibi sufficienter ab Ecclesia propositos. Atqui errans ex ignorantia vincibili potest adhuc ita esse dispositus, ut paratus sit credere omnia revelata, et ab Ecclesia proposita, quamvis nolit adhibere diligentiam ut illa sciat. Ergo per ejus errorem non perditur habitus fidei.
XXIII. Resp. Concedendo majorem et negando minorem. Ad cujus probationem concessa etiam majori, negatur minor. Errans enim ex ignorantia vincibili, tantum inefficaciter potest revelata, quae cum effectu discredit, vele credere fide divina, quae per contrarium errorem jam expulsa est. Si quae autem postea credit, fide tantum humana et adquisita credere censetur. Et hoc ipsum tenetur asserere ipsemet Card. De Lugo, qui disp. 17. sect. 6, n. 13. fatetur habitum fidei expelli per actum erroris circa articulum fidei sufficienter propositum, etiamsi errans non cogitet de authoritate Ecclesiae, adeoque illam ignoret.

Note:
[1] «Enciclopedia Cattolica», vol. VI, Città del Vaticano, 1951, p. 592.
[2] Cf. «Chartularium Universitatis Parisiensis», II, E. Denifle – E. Châtelain, Parigi, 1890, nn. 970-87 in Op. cit.
[3]Il giorno 1 novembre 1331, il 15 dicembre 1331 ed il 5 gennaio 1332, la dissertazione è dell’anno 1333.
[4]Per es. il vescovo della Diocesi di Campos, mons. de Castro Mayer, il 25 gennaio 1974 invia un dossier denuncia a Montini (Paolo VI). Il 22 marzo 1974 il Nunzio Apostolico, Carmine Rocco, trasmette a mons. Antonio de Castro Mayer la seguente scarna risposta: «Le lettere del 25 gennaio u.s. dirette all’Eminentissimo Card. Baggio e a Sua Santità Paolo VI, insieme con gli studi fatti da Vostra Eccellenza, sono pervenute a destinazione».
[5]Tesista poiché segue la «Tesi di Cassiciacum», ovvero l’ipotesi teologica seguita anche dall’«Istituto Mater Boni Consilii» di orientamento Sedevacantista. Secondo la tesi,  la Sede Apostolica sarebbe formalmente vacante ma non materialmente. Così è chiamata poiché esposta per la prima volta nei «Quaderni di Cassiciacum» (trad. it.), fu elaborata dal teologo domenicano mons. Michel Guérard des Lauriers, già collaboratore di mons. Marcel Lefebvre nella lotta contro il Modernismo Cattolico, «uscito vincitore dal Concilio Vaticano [II]» (cf. Wikipedia, v. Tesi di Cassiciacum). La Tesi del padre domenicano, filosoficamente una speculazione tomista tipica della filosofia cattolica, spiega come sia possibile per un eletto canonicamente al Soglio di Pietro, proferire, nella sua funzione di docente (Magistero ordinario ed universale o solenne) delle proposizioni che sono chiaramente in contrasto con altre già infallibilmente definite da precedenti Pontefici, basti pensare ai Documenti sulla «libertà religiosa», condannati da numerosi Papi del passato, tuttavia  approvati con spregio da Montini (Paolo VI). Mons. Sanborn nel suo – già qui menzionato – libro «De Papatu Materiali» sostiene: «Tra coloro che negano che Benedetto XVI sia vero Papa, troviamo due schieramenti: 1) il campo di coloro che negano che sia Papa sia materialiter (materialmente) sia formaliter (formalmente); 2) il campo di coloro che negano che sia Papa formaliter (formalmente) ma sostengono che è Papa materialiter (materialmente). La distinzione tra materia e forma del Papato e dell’autorità in genere è “classica” e la si trova in quasi tutti i teologi [ne cita numerosi, NdA]. La prima è nudo possesso della Sede, cioè possesso della Sede senza l’autorità, la seconda è possesso della Sede con l’autorità. […] L’autorità è una facoltà morale in una persona, sia individuale sia collettiva che ha cura della comunità, di emanare, promulgare ed applicare singoli ordini che sono o necessari o utili per promuovere il bene comune [nella “Società Chiesa”, il bene comune corrisponde alla salvezza delle anime, NdA]. Ne consegue che colui che gode dell’autorità deve avere l’intenzione abituale di promuovere il bene comune, altrimenti non può avere l’autorità. Egli deve avere l’intenzione abituale poiché per natura propria l’autorità civile o ecclesiastica è un diritto permanente e non soltanto transitorio o “per modum actus”. […] Governa legittimamente colui [Papa materialiter e formaliter, NdA] che è stato legittimamente  eletto dalla società [Chiesa, NdA] per ricevere l’autorità e che in più non ha alcun impedimento a ricevere l’autorità. Governa illegittimamente colui che ha assunto l’autorità illegittimamente, vale a dire senza designazione legale oppure quando, pur essendo stato validamente designato, ha un impedimento a ricevere l’autorità [Papa materialiter, NdA]. […] Le cause che impediscono l’unione tra materia e forma dell’autorità: […] Colui che ha l’intenzione di diffondere la falsa dottrina non può adempiere l’ufficio di Cristo, Somma Verità; colui che ha l’intenzione di stabilire un falso culto non può svolgere il compito di Cristo Sommo Sacerdote; colui che ha l’intenzione di emanare leggi nocive non può adempiere l’ufficio di Cristo Re [sarebbe pertanto già solamente Papa materialiter, a prescindere dalle monizioni canoniche, ed i suoi atti di Magistero/Governo sarebbero comunque nulli, NdA]».
http://radiospada.org/2015/01/papa-giovanni-xxii-fu-davvero-eretico/

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