La nuova “Croce” del giornalismo di corte
Ad arricchire il panorama culturale legato al giornalismo più maturo e impegnato, ecco “la Croce”, che fa il “punto” su tutta una temperie spirituale, su un climax, destinato a segnare il presente e il futuro del rinnovato popolo di Dio e dei popoli limitrofi. Ovviamente non si tratta di una croce qualunque, ma, a dispetto di false ritrosie, proprio quella cristiana, che viene brandita finalmente – bisogna riconoscerlo – con baldanzosa sicurezza.
di Patrizia Fermani
L’articolo che ha inaugurato il primo numero del quotidiano, e intitolato con qualche ricercatezza “il dribbling dei papi”, è stato affidato alla penna affilata di Giovanni Marcotullio, che non nasconde l’intento apologetico nei confronti del Vescovo di Roma. E si capisce, perché chi meglio di lui potrebbe incarnare la croce che si estende da ogni lato sulla chiesa universale? Ma, a voler rimanere nello spettro dei generi letterari, troviamo nell’articolo, ben definiti, anche i caratteri dell’invettiva.
Infatti, possiamo sintetizzare così l’idea portante, anche a costo di non rendere giustizia alla profondità dei contenuti: poiché il Vescovo di Roma, accanto a tanti riconoscimenti che raccoglie a destra e soprattutto a manca, è riuscito ad assemblare anche un certo contingente di oppositori e molte critiche, a volte anche esagerate, si rivela per questo imitatore puntuale e accorto del Cristo che non ha mai nascosto di essere venuto a dividere e non ad unire. Il vescovo di Roma “sa dividere” – ci assicura infatti l’autore – suscitando nemici e inducendoli poi ad appalesarsi. Infatti egli è capace di smascherare i pensieri più reconditi degli antagonisti e far sì che vengano a galla. Una sorta di abilità da agente provocatore che richiede fiuto e indiscutibile predisposizione. E questo ad maiorem Dei gloriam, in quanto opera di alto valore caritativo e pedagogico. D’altra parte è evidente come gli oppositori, che magari accarezzano l’idea di avvicinarsi al modello di Lutero, evidentemente troppo ambizioso per loro, praticano l’eresia in modo dilettantesco perché del tutto saltuario. Insomma, non sono neanche all’altezza della eresia.
Tuttavia, poiché si torna ad insistere sulla metafora del dribbling, ci permettiamo di osservare la sua scarsa pregnanza, dato che con questo termine viene indicata la finta con cui si scarta l’avversario. Il paragone, a nostro modesto avviso, risulta non proprio calzante poiché in questa prospettiva i fatti e i detti papali non dovrebbero essere rispondenti alle intenzioni del loro autore, in quanto volti esclusivamente a disarmare l’avversario. Ma siccome i critici si appuntano proprio sui contenuti del pensiero bergogliano (senza trascurare la forma, che pure fornisce loro qualche argomento non secondario), il risultato a rigore di logica dovrebbe essere che, alla fine, sia Begoglio che gli oppositori pensano e vogliono le stesse cose, con un inutile dispendio di energia da entrambe le parti: insomma, si avrebbe che alcuni combattono le intenzioni dell’uno, le quali sono in realtà le loro stesse intenzioni, ma solo mascherate da quelle contrarie che li mettono in allarme. Un gran pasticcio dal quale non si esce se non accantonando pretese arti calcistiche che tra l’altro male dovrebbero accordarsi con la spontaneità: la vera, se non unica, dote riconosciuta da tutti al Vescovo di Roma.
Non per nulla l’ invettiva apologetica prosegue con un passaggio, per vero un pò oscuro, dove si tocca proprio il tema della spontaneità di Bergoglio. Vi si afferma che le sue mosse sono studiate, ma che allo stesso tempo i suoi critici “a torto” lo accusano di essere costruito. In mancanza di elementi certi che risolvano il problema della naturalezza di Bergoglio, si può timidamente ipotizzare che frasi come quella citata dall’autore, rivolta dal neoeletto ai giornalisti subito dopo il conclave: “Ah! Avete lavorato tanto eh!”, siano frutto di una disposizione speculativa e di una sensibilità del tutto native, per nulla enfatizzate da severe discipline di studio e da approcci mimetici.
Del resto bisogna riconoscere che l’autore, anche a rischio di qualche ermetismo, si sforza costantemente di sintetizzare in poche righe concetti complessi, come quando scende ad individuare gli oppositori di Bergoglio in quanti hanno sfogato le proprie manie estetiche, i propri pregiudizi contro la modernità e il pallino dello scontro di civiltà, parandosi dietro il fulgido pontificato di Benedetto che – diciamolo, fa capire il nostro autore – qualche pretesto a tutto questo bailamme l’ha pure dato. Sennò, come gli cascava in mente a quei mentecatti di ripararsi dietro la sua sottana? Insomma, se si debbono bastonare le pecore, è bene che qualche fendente arrivi anche all’improvvido pastore tedesco che tante angustie procurò al buon Leonardo Boff finalmente ritornato al posto che si meritava accanto al Vescovo di Roma. La cui sagacia consiste dunque soprattutto – insiste il nostro – nello stanare tutti, anche i finti bergogliani o i bergogliani dell’ultima ora, quelli che finiscono anche per fondare giornali in suo onore.
Purtroppo, deve constatare alla fine il Marcotullio, tra le file della resistenza si è acquattato anche un Messori con la fissa del ministero petrino e della romanità della Chiesa manco fosse un fascistello nostalgico. Ma tanto lui che Socci non meritavano la inutile pubblicità regalata loro dalle trombe dei loro critici. In fondo si tratta di uno psicotico il primo e di un visionario esaltato il secondo, sui quali sarebbe stato meglio tacere. Loro non aspettavano altro per farsi vedere e soprattutto Socci si appiccherebbe il fuoco da solo se fosse sicuro di diventare un martire della fede come Giovanna d’Arco.
Più in generale – conclude l’articolista – dietro tutti questi fenomeni ci sono errori di fondo molto diffusi: la confusione tra il ministero petrino e le persone che lo ricoprono, il confondere le proprie simpatie con argomenti di critica storica, lo scambiare le interpretazioni dei media con il magistero della Chiesa.
Tutto vero.
Tuttavia qualche malevolo potrebbe chiedersi se forse non sia stato proprio il vescovo di Roma a confondere la propria” filosofia” con l’esercizio del ministero petrino, se non siano proprio gli argomenti di critica storica o, meglio ancora, di dottrina cattolica a generare qualche insofferenza anche personale (come è umano o troppo umano), e infine se non è accertato che sempre il Vescovo di Roma ha eletto la teologia scalfariana a magistero della Chiesa, tanto da pretendere l’inserimento delle proprie interviste repubblicane negli Acta Apostolicae Sedis.
Ma queste sono domande inopportune che, per chi porta ora il peso di tanta Croce, potrebbero risultare non poco fastidiose, se non imbarazzanti.
L’articolo che ha inaugurato il primo numero del quotidiano, e intitolato con qualche ricercatezza “il dribbling dei papi”, è stato affidato alla penna affilata di Giovanni Marcotullio, che non nasconde l’intento apologetico nei confronti del Vescovo di Roma. E si capisce, perché chi meglio di lui potrebbe incarnare la croce che si estende da ogni lato sulla chiesa universale? Ma, a voler rimanere nello spettro dei generi letterari, troviamo nell’articolo, ben definiti, anche i caratteri dell’invettiva.
Infatti, possiamo sintetizzare così l’idea portante, anche a costo di non rendere giustizia alla profondità dei contenuti: poiché il Vescovo di Roma, accanto a tanti riconoscimenti che raccoglie a destra e soprattutto a manca, è riuscito ad assemblare anche un certo contingente di oppositori e molte critiche, a volte anche esagerate, si rivela per questo imitatore puntuale e accorto del Cristo che non ha mai nascosto di essere venuto a dividere e non ad unire. Il vescovo di Roma “sa dividere” – ci assicura infatti l’autore – suscitando nemici e inducendoli poi ad appalesarsi. Infatti egli è capace di smascherare i pensieri più reconditi degli antagonisti e far sì che vengano a galla. Una sorta di abilità da agente provocatore che richiede fiuto e indiscutibile predisposizione. E questo ad maiorem Dei gloriam, in quanto opera di alto valore caritativo e pedagogico. D’altra parte è evidente come gli oppositori, che magari accarezzano l’idea di avvicinarsi al modello di Lutero, evidentemente troppo ambizioso per loro, praticano l’eresia in modo dilettantesco perché del tutto saltuario. Insomma, non sono neanche all’altezza della eresia.
Tuttavia, poiché si torna ad insistere sulla metafora del dribbling, ci permettiamo di osservare la sua scarsa pregnanza, dato che con questo termine viene indicata la finta con cui si scarta l’avversario. Il paragone, a nostro modesto avviso, risulta non proprio calzante poiché in questa prospettiva i fatti e i detti papali non dovrebbero essere rispondenti alle intenzioni del loro autore, in quanto volti esclusivamente a disarmare l’avversario. Ma siccome i critici si appuntano proprio sui contenuti del pensiero bergogliano (senza trascurare la forma, che pure fornisce loro qualche argomento non secondario), il risultato a rigore di logica dovrebbe essere che, alla fine, sia Begoglio che gli oppositori pensano e vogliono le stesse cose, con un inutile dispendio di energia da entrambe le parti: insomma, si avrebbe che alcuni combattono le intenzioni dell’uno, le quali sono in realtà le loro stesse intenzioni, ma solo mascherate da quelle contrarie che li mettono in allarme. Un gran pasticcio dal quale non si esce se non accantonando pretese arti calcistiche che tra l’altro male dovrebbero accordarsi con la spontaneità: la vera, se non unica, dote riconosciuta da tutti al Vescovo di Roma.
Non per nulla l’ invettiva apologetica prosegue con un passaggio, per vero un pò oscuro, dove si tocca proprio il tema della spontaneità di Bergoglio. Vi si afferma che le sue mosse sono studiate, ma che allo stesso tempo i suoi critici “a torto” lo accusano di essere costruito. In mancanza di elementi certi che risolvano il problema della naturalezza di Bergoglio, si può timidamente ipotizzare che frasi come quella citata dall’autore, rivolta dal neoeletto ai giornalisti subito dopo il conclave: “Ah! Avete lavorato tanto eh!”, siano frutto di una disposizione speculativa e di una sensibilità del tutto native, per nulla enfatizzate da severe discipline di studio e da approcci mimetici.
Del resto bisogna riconoscere che l’autore, anche a rischio di qualche ermetismo, si sforza costantemente di sintetizzare in poche righe concetti complessi, come quando scende ad individuare gli oppositori di Bergoglio in quanti hanno sfogato le proprie manie estetiche, i propri pregiudizi contro la modernità e il pallino dello scontro di civiltà, parandosi dietro il fulgido pontificato di Benedetto che – diciamolo, fa capire il nostro autore – qualche pretesto a tutto questo bailamme l’ha pure dato. Sennò, come gli cascava in mente a quei mentecatti di ripararsi dietro la sua sottana? Insomma, se si debbono bastonare le pecore, è bene che qualche fendente arrivi anche all’improvvido pastore tedesco che tante angustie procurò al buon Leonardo Boff finalmente ritornato al posto che si meritava accanto al Vescovo di Roma. La cui sagacia consiste dunque soprattutto – insiste il nostro – nello stanare tutti, anche i finti bergogliani o i bergogliani dell’ultima ora, quelli che finiscono anche per fondare giornali in suo onore.
Purtroppo, deve constatare alla fine il Marcotullio, tra le file della resistenza si è acquattato anche un Messori con la fissa del ministero petrino e della romanità della Chiesa manco fosse un fascistello nostalgico. Ma tanto lui che Socci non meritavano la inutile pubblicità regalata loro dalle trombe dei loro critici. In fondo si tratta di uno psicotico il primo e di un visionario esaltato il secondo, sui quali sarebbe stato meglio tacere. Loro non aspettavano altro per farsi vedere e soprattutto Socci si appiccherebbe il fuoco da solo se fosse sicuro di diventare un martire della fede come Giovanna d’Arco.
Più in generale – conclude l’articolista – dietro tutti questi fenomeni ci sono errori di fondo molto diffusi: la confusione tra il ministero petrino e le persone che lo ricoprono, il confondere le proprie simpatie con argomenti di critica storica, lo scambiare le interpretazioni dei media con il magistero della Chiesa.
Tutto vero.
Tuttavia qualche malevolo potrebbe chiedersi se forse non sia stato proprio il vescovo di Roma a confondere la propria” filosofia” con l’esercizio del ministero petrino, se non siano proprio gli argomenti di critica storica o, meglio ancora, di dottrina cattolica a generare qualche insofferenza anche personale (come è umano o troppo umano), e infine se non è accertato che sempre il Vescovo di Roma ha eletto la teologia scalfariana a magistero della Chiesa, tanto da pretendere l’inserimento delle proprie interviste repubblicane negli Acta Apostolicae Sedis.
Ma queste sono domande inopportune che, per chi porta ora il peso di tanta Croce, potrebbero risultare non poco fastidiose, se non imbarazzanti.
... E chi siamo noi, per giudicare?!...
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