Ed ora c’è anche chi vuol abolire la blasfemia come colpa
(di Mauro Faverzani) «La bestemmia è contraria al rispetto dovuto a Dio ed al Suo Santo Nome. Per sua natura è un peccato grave». Lo dice il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2148, precisando come, col termine «bestemmia» si debbano intendere le «parole di odio, di rimprovero, di sfida» proferite «contro Dio», il «parlar male» di Lui, mancarGli «di rispetto» anche «nei propositi» o «abusare del nome» Suo. Non solo: «La proibizione della bestemmia si estende alle parole contro la Chiesa di Cristo, i santi, le cose sacre».
Peccato che ciò, ora, sembri valere solo per il Catechismo, ma non più per una parte della Chiesa Cattolica.
Unitasi, proprio il giorno prima dell’attentato alla redazione di “Charlie Hebdoˮ (tempismo perfetto!), a protestanti, ebrei e musulmani, per chiedere ufficialmente che venga abolito il reato di blasfemia, sopravvissuto in Alsazia e Mosella quale retaggio del codice penale tedesco, dopo l’annessione alla Francia, avvenuta nel 1918.
Attualmente prevede la reclusione fino a tre anni per chi «abbia causato scandalo, bestemmiando pubblicamente contro Dio con intenti oltraggiosi». Ad invocare tale reato di fronte ad un tribunale di Strasburgo, fu nel 2013 la Lega per la difesa giudiziaria dei musulmani, dichiaratasi offesa da una vignetta pubblicata proprio su “Charlie Hebdoˮ. Ma la procedura venne annullata per questioni formali. Nel resto della Francia, invece, offender Dio non è più considerato un crimine già dai tempi della rivoluzione francese.
L’Arcivescovo di Straburgo, mons. Jean-Pierre Grallet, ha confermato come i rappresentanti delle varie religioni abbiano «maturato da diverso tempo» la convinzione di chiedere l’abrogazione di tale capo d’imputazione, considerato «obsoleto». «La Repubblica ha mezzi sufficienti per invitare al rispetto reciproco», ha dichiarato. Gli ha fatto eco Abdellaq Nabaoui, vicepresidente del CRCM-Consiglio regionale del culto musulmano d’Alsazia, dettosi «sulla stessa linea. Ciò che ci interessa, è la libertà d’espressione»: infatti, si è visto di lì a poche ore cosa ne pensassero alcuni suoi correligionari…
La sconcertante richiesta è stata mossa formalmente nel corso di un’audizione comune, tenutasi a Parigi di fronte all’Osservatorio della Laicità, ente direttamente alle dipendenze del primo ministro. Osservatorio, subito congratulatosi con i propri interlocutori, per il fatto che abbiano compreso il «carattere eccessivo di tale misura, attentato alla libertà d’espressione. Ci hanno proposto loro stessi di porvi termine», ritenendola una disposizione «ormai desueta», ha affermato il relatore generale dell’ente, Nicolas Cadène.
Una parte della Chiesa Cattolica, compreso un Arcivescovo, ritiene quindi «obsoleto» punire chi offenda Dio. Nonostante Sacra Scrittura, Magistero e Tradizione dicano un’altra cosa. Come anche il Catechismo dimostra. Chissà se, per cambiare le carte in tavola anche su questo punto, si giunga prima o poi a richiedere la convocazione di un Sinodo straordinario? (Mauro Faverzani)
http://www.corrispondenzaromana.it/ed-ora-ce-anche-chi-vuol-abolire-la-blasfemia-come-colpa/
Il coraggio è stato considerato per millenni una risorsa indispensabile per giocare al meglio la partita con l’esistenza. Poi esso si è perfezionato nella virtù cristiana della fortezza che consente di affrontare senza cedimenti il mistero della vita e della morte, nel sostegno offerto dalla fede. Ma da cinquant’anni a questa parte è nata una virtù nuova venuta a sostituire tutte le altre, il buonismo, che è l’ atteggiamento e quindi la caricatura della bontà, e la versione mascherata della fellonia. Si presenta nel paradosso dello adeguamento a cosa e a chi dovrebbe essere considerato come male e come nemico, stravolgendo anche i precetti evangelici dietro i quali va a nascondersi. Ha forgiato un nuovo cattolicesimo, una nuova lettura delle fonti, una nuova teologia e soprattutto una nuova mentalità destinata a diventare anche in campo laico, habitus diffuso e tanto cogente quanto privo di sostanza razionale e culturale. Chi lo pratica si sente sollevato da ogni sforzo di intelligenza della realtà e dalla fatica di assumere forti responsabilità o decisioni impegnative, mentre chi se ne avvantaggia non ha di che lamentarsi. Né l’uno né l’altro sarà disposto a riconoscere che il male prodotto è incomparabile in quanto taglia i gangli vitali di intere società rendendole invertebrate e perciò stesso amorali. E nessuno oserà mettere in discussione la bontà delle intenzioni di chi è buono per professione. Anzi si fondano movimenti, prendono corpo persino filoni “letterari” e “pensiero politico”, tutti felicemente convogliati nella cultura del piagnisteo.
Il grande liberatore – di Patrizia Fermani
Posto che il peccato e il castigo presuppongono la legge, la Chiesa, che pure ha avuto il potere di assolvere il peccatore pentito, cioè di giudicarlo meritevole di perdono in virtù del suo pentimento, non ha il potere di rendere lecito ciò che è male e la misericordia non può andare al di là del soccorso da apprestare a chi soffre per le conseguenze del peccato, cosa del resto che la stessa Chiesa non ha mai mancato di fare da che esiste.
di Patrizia Fermani
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Il coraggio è stato considerato per millenni una risorsa indispensabile per giocare al meglio la partita con l’esistenza. Poi esso si è perfezionato nella virtù cristiana della fortezza che consente di affrontare senza cedimenti il mistero della vita e della morte, nel sostegno offerto dalla fede. Ma da cinquant’anni a questa parte è nata una virtù nuova venuta a sostituire tutte le altre, il buonismo, che è l’ atteggiamento e quindi la caricatura della bontà, e la versione mascherata della fellonia. Si presenta nel paradosso dello adeguamento a cosa e a chi dovrebbe essere considerato come male e come nemico, stravolgendo anche i precetti evangelici dietro i quali va a nascondersi. Ha forgiato un nuovo cattolicesimo, una nuova lettura delle fonti, una nuova teologia e soprattutto una nuova mentalità destinata a diventare anche in campo laico, habitus diffuso e tanto cogente quanto privo di sostanza razionale e culturale. Chi lo pratica si sente sollevato da ogni sforzo di intelligenza della realtà e dalla fatica di assumere forti responsabilità o decisioni impegnative, mentre chi se ne avvantaggia non ha di che lamentarsi. Né l’uno né l’altro sarà disposto a riconoscere che il male prodotto è incomparabile in quanto taglia i gangli vitali di intere società rendendole invertebrate e perciò stesso amorali. E nessuno oserà mettere in discussione la bontà delle intenzioni di chi è buono per professione. Anzi si fondano movimenti, prendono corpo persino filoni “letterari” e “pensiero politico”, tutti felicemente convogliati nella cultura del piagnisteo.
I fatti recenti hanno fornito un repertorio completo delle implicazioni, effetti e manifestazioni anche planetarie di una virtù che da privata è diventata pubblica, sui quali non è il caso ora di tornare, ma che offrono lo spunto per risalire ad una matrice che va trovata proprio in casa cristiana, soprattutto cattolica. Del resto, tante idee degenerate che hanno stravolto la cristianità sono state prodotte da una degenerazione di principi cristiani, cioè dalla loro lettura eretica e non per nulla la via praticata da nemici più o meno dichiarati per combattere il cristianesimo, è stata quella di torcergli contro proprio certi suoi principi manipolati. Primo fra tutti l’amore senza criteri di riferimento che si fa giustificazione morale della libertà senza condizioni. E proprio da questo la Chiesa ha innescato quel processo di emancipazione dai propri fondamenti e da alcune virtù predicate per secoli, fino ad arrendersi all’uomo nuovo libero e autodeterminato, intollerante verso la legge di Dio perché comprime il proprio diritto alla felicità e si salva da solo in terra come il famoso barone di Munchhausen. Quest’uomo, disarmato di fronte alla sofferenza che gli viene dalla natura o dal caso o dalle malefatte degli uomini e che sola sfugge al suo controllo, è impegnato soprattutto ad aggirarla, nasconderla, esorcizzarla, pur di evitare ogni sforzo per affrontarla con la forza d’animo, con la ragione e con l’affidamento al Padre.
Dunque, anche sullo sfondo della nuova idolatria del successo, la Chiesa ha inteso anzitutto di doversi fare “amica” nel senso della accondiscendenza, e di fornire a tutti un Vangelo indulgente per definizione. Per questo doveva liberare dai comandamenti di una religione troppo esigente e dai lacci ancora stretti della propria Tradizione. Se nell’orizzonte dell’edonismo moderno, i doveri sono stati scalzati dai diritti in campo civile, bisognava alleggerire anche i fedeli dal peso dei precetti cristiani, a cominciare dalla fatica del digiuno e dell’inginocchiatoio, e poi dalla osservanza di regole più impegnative. Così si è affrettata a buttare a mare principi e liturgia come inutile zavorra, senza capire, come diceva Prezzolini, che era quanto la teneva in equilibrio.
La mossa decisiva viene fatta da Giovanni XXIII con la allocuzione inaugurale del Concilio, dove si annuncia che d’ora in poi, per guarire l’errore sarà distribuita la medicina della misericordia e non la severità. Era la consacrazione ufficiale del buonismo occidentale che divenne da allora la bandiera, innalzata da la Pira, del cattocomunismo e di quel progressismo laicista divenuto attualmente bergogliano per grazia ricevuta. Esso era parente stretto del pacifismo con cui il regime sovietico, a partire dagli anni della guerra e mentre questa era ancora in corso, è riuscito a disarmare l’occidente conquistandolo ideologicamente e risparmiandosi così i carrarmati, riservati d’ora in poi agli irriducibili di Budapest e di Praga.
La incongruenza sottolineata da Amerio, per cui nel discorso papale all’errore veniva associata la misericordia piuttosto che la correzione, era soltanto apparente, perché le parole non potevano e non erano state scelte a caso. Quello che doveva diventare il nuovo unico principio teologico conteneva anche un programma politico e “l’errore” era la fatidica fava con cui si prendono due piccioni: esso da un lato faceva riferimento al comunismo, ridotto ufficialmente a sviamento temporaneo e redimibile della visione cristiana (dato che Gesù Cristo era già per tanti avanguardisti il primo dei socialisti ), dall’altro stava ad indicare pudicamente il peccato, ma retrocesso ad innocuo incidente di percorso. Un peccato che, dopo essere stato processato ed espulso anche in sede di comunità europea, concluderà definitivamente la propria carriera nella Chiesa del nuovo vescovo di Roma dove a sorpresa pare sia stato invece promosso a ingrediente insostituibile di una sana vita cristiana.
Insomma, mentre Roncalli rassicurava i fratelli d’oltrecortina sulla buona disposizione della Chiesa verso gli “errori” del comunismo, rassicurava anche i peccatori che non avrebbero più dovuto temere alcun giudizio, perché il peccato, declassato ad errore, in ogni caso era destinato ad essere misericordiosamente perdonato. Ecco dunque la nuova funzione della misericordia come medicina preventiva che agisce sulle cause e non solo sulle conseguenze.
Ma nell’uso disinvolto delle parole si insinuava un capovolgimento radicale di prospettiva. Lo schema della giustizia divina, sulla quale anche la ragione umana ha cercato di modellare i propri sistemi giuridici, contempla che Dio ha dato all’uomo la legge per la sua salvezza, quindi gli ha concesso la possibilità di scegliere tra l’obbedienza e la trasgressione, e attraverso il giudizio, il perdono per chi riconosce la propria colpa e si pente. La misericordia di Dio si manifesta sia nella posizione della legge, sia nella possibilità della redenzione, mentre il perdono riguarda il trasgressore che si giudica pentito e presuppone la violazione del comandamento. Come per noi il giudizio è l’attività speculativa con la quale valutiamo un qualunque oggetto secondo un criterio determinato, nel quadro della giustizia di Dio, il criterio di giudizio dei comportamenti umani è dato dalla Sua legge eterna e immodificabile che disegna appunto le possibilità del peccato, secondo quanto sta anche scritto a chiare lettere, se ce ne fosse bisogno, negli atti degli Apostoli (I Giovanni, 3,1-12 ).
Posto dunque che il peccato e il castigo presuppongono la legge, la Chiesa, che pure ha avuto il potere di assolvere il peccatore pentito, cioè di giudicarlo meritevole di perdono in virtù del suo pentimento, non ha il potere di rendere lecito ciò che è male e la misericordia non può andare al di là del soccorso da apprestare a chi soffre per le conseguenze del peccato, cosa del resto che la stessa Chiesa non ha mai mancato di fare da che esiste. Perché un conto è la misericordia divina e un conto quella praticata generosamente dall’uomo, un conto il perdono di Dio concesso attraverso i suoi servi ordinati, e un conto il perdono umano che è svincolato da esigenze di giustizia oggettiva ed è lasciato alla libera iniziativa privata. La misericordia di Dio è un aspetto della Sua giustizia ma anche della Sua Provvidenza e ad essa possiamo solo rimetterci con umiltà. La misericordia dell’uomo che muove dalla compassione e nella tradizione cristiana ha significato in ogni tempo l’operare concreto a favore del sofferente con lo scopo di mitigarne il dolore. Non per nulla era chiamato misericordia il pugnale col quale si dava il colpo di grazia al nemico colpito a morte per risparmiargli il protrarsi della sofferenza. Le opere di misericordia sono state come è noto l’aspetto visibile della sensibilità cristiana e una delle manifestazioni più significative della missione evangelica della Chiesa, materializzata nei secoli negli orfanotrofi, nelle confraternite, negli ospedali, nelle Scuole e nell’impegno quotidiano dei singoli sacerdoti.
Ma nell’orizzonte di Roncalli, definito dalla teologia politica di Loris Capovilla, lo schema appare invertito. Dal momento che la misericordia della Chiesa viene presentata come novità curativa, sembra non agire più semplicemente sulle conseguenze del peccato, ma sui suoi stessi presupposti, e abolire la legge che lo prevede perché tutti risultino mondati. Un po’ come quando vengono modificati i parametri dello inquinamento marino per alzare il limite di balneazione. Cosa che, come è noto, rende immediatamente il mare più pulito.
Inoltre, posto che logicamente una cosa sono i peccati e una cosa i peccatori, se ne deduce che possano essere giudicati i primi senza giudicare i secondi. Come se le azioni umane esistessero in rerum natura staccate dagli uomini che le compiono e la confessione fosse solo un mezzo per catalogarle a fini statistici: si prevede il premio o il castigo in quanto ci sia un uomo cui venga inflitto o cui venga condonato, ma il perdono non va a toccare il peccato come ipotesi formulata dalla legge. Il perdono del peccato indipendentemente dal peccatore vuol dire semplicemente che si abolisce la legge che prevede il primo garantendo per questa via l’impunità al secondo. Così la legge non è più al servizio dell’uomo ma tutt’al più dell’ufficio demoscopico
Messa dunque da parte la questione di Dio creatore e legislatore, ed entrata in gioco la misericordia che cancella il peccato col perdono anticipato, più tardi è invalso l’uso originale di perdonare anche le offese fatte ad altri, e non soltanto come sarebbe logico, quelle subite dal diretto interessato, e di questa curiosa novità sono piene le cronache correnti.
La Chiesa di Roncalli, in attesa che fosse organizzato l’ospedale da campo di Bergoglio, aveva di punto in bianco allestito la farmacia, e questo bastò al progressismo illuminato, vera classe dirigente dell’occidente, per conferire allo speziale l’onorificenza della Bontà Socialista. Forse proprio perché il ritrovato terapeutico era in grado di abbattere i bastioni della Chiesa tout court, e questa volta non in senso solo metaforico.
Quello che però sembrava sfuggire all’ideatore di questa confortante prospettiva assolutoria , è l’indisponibilità della materia e la gravità delle conseguenze. E queste sfuggono tuttora anche a quanti hanno adottato oggi quella prospettiva. Infatti essa viene riproposta e imposta a chiare lettere da Bergoglio e dal suo team operativo, attraverso l’affrancamento generico dalla legge divina, ovvero da quella naturale in cui essa pure si esprime, e dalla questione, diventata troppo ingombrante, della differenza tra il bene e il male. Il presupposto è che l’unica salvezza meritevole di attenzione è quella terrena minacciata dal bisogno e ostacolata dal dolore. ll primo problema pare sia stato superato elevando oculatamente la povertà ad unica virtù morale riconosciuta. Per quanto riguarda il dolore, assodato che è tuttora impossibile eliminare quello che viene dalla natura o dal caso, ci si è concentrati sul disagio derivante al singolo dal peccato proprio e altrui, e lo si è risolto ancora una volta abolendo il peccato, fatti salvi i reati di evasione fiscale e quelli contro la Pubblica amministrazione. Così, soprattutto i peccati una volta legati alla morale famigliare e alle forme con cui per dritto o per rovescio può essere violato il sesto comandamento, debbono essere considerati finalmente come un maligno ostacolo sulla via della conquista della felicità. Questo comporta ovviamente, se qualcuno ne fosse ancora oppresso, anche la liberazione dal senso di colpa. Chi invece non è toccato dal problema morale, perché in lui la cultura ha preso il sopravvento sulla natura, è ora sollevato anche dalla fatica di combattere la Chiesa in base al vecchio pregiudizio per cui si riteneva che essa intralciasse la realizzazione di molti sacrosanti desideri.
Insomma la Chiesa del terzo millennio, dopo il tentativo malriuscito di Benedetto di riportare l’uomo alla fede attraverso la ragione, che era pretendere troppo dai contemporanei e non rispondeva alle esigenze del mercato, libera tutti dai fastidi del denaro e da quelli della morale, ma soprattutto libera dalla fatica e dalla forza della verità. Le conseguenze possibili sull’ordine sociale non la preoccupano, perché il criterio tra ciò che è bene e ciò che è male lo fornisce con sicurezza solo l’indice di gradimento .
Eppure proprio la Chiesa dovrebbe chiedersi se tutto questo non significhi che così noi tutti veniamo privati anche dell’ arma fondamentale per difenderci da noi stessi e dagli altri, per difendere noi e i nostri figli dal male dell’uomo che non può essere cancellato indossando gli occhiali deformanti del buonismo obbligatorio. Per uscire dalla gabbia delle realtà virtuali occorre la fortezza, anche se è virtù che male si accorda con la cultura del piagnisteo, buonista e liberata. Sappiamo che per questa anche i morti accidentali si chiamano vittime, il nemico vero è meglio dell’amico, viene prima dei figli, va solo blandito, e all’occorrenza, per esorcizzarne le minacce, basta creare un nemico fittizio a tavolino; il desiderio deve essere comunque assecondato perché si chiama diritto; di nulla si è responsabili personalmente; il caso pietoso che ci commuove, detta la regola generale capace di nuocere a tutti, e via discorrendo.
Ma si tratta di una miserabile commedia dell’assurdo che ormai a tutti dovrebbe risultare imbarazzante come una lettura di Benigni .
http://www.riscossacristiana.it/il-grande-liberatore-di-patrizia-fermani/
«Conquisteremo Roma, spezzeremo le sue croci, faremo schiave le sue donne col permesso di Allah, l’Eccelso», ha dichiarato ai suoi seguaci il portavoce dello “Stato islamico”, che non ha semplicemente ripetuto di sterminare gli “infedeli” ovunque si trovino, ma ha indicato loro anche le modalità: «Piazzate l’esplosivo sulle loro strade. Attaccate le loro basi, fate irruzione nelle loro case. Troncate loro la testa. Che non si sentano sicuri da nessuna parte! Se non potete trovare l’esplosivo o le munizioni, isolate gli Americani infedeli, i Francesi infedeli o non importa quale altro loro alleato: spaccate loro il cranio a colpi di pietra, uccideteli con un coltello, travolgeteli con le vostre auto, gettateli nel vuoto, soffocateli oppure avvelenateli».
Cristo crocifisso, scandalo per i musulmani e stoltezza per i laicisti…
(di Roberto de Mattei) Marcher contre la Terreur , “Marcia contro il Terrore”, è stato il titolo con cui “Le Monde”, il “Corriere della Sera” e i principali giornali occidentali hanno presentato la grande sfilata laicista dell’11 gennaio. Mai nessuno slogan è stato più ipocrita di questo, imposto dai mass media come reazione alla strage di Parigi del 7 gennaio. Che senso ha infatti parlare di Terrore senza aggiungere al sostantivo l’aggettivo “islamico”?
L’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” è stato perpetrato al grido di «Allah akbar ! » per vendicare Maometto offeso dalle caricature e dietro i kalashnikof dei terroristi c’è una visione del mondo precisa: quella musulmana. Solo ora i servizi segreti occidentali cominciano a prendere sul serio le minacce di Abu Muhamad al Adnani, contenute in un comunicato multilingue diffuso il 21 settembre 2014 dal quotidiano on line “The Long War Journal”.
Ci si illude che la guerra in corso non sia quella dichiarata dall’Islam all’Occidente, ma una guerra che si combatte all’interno del mondo musulmano e che l’unico modo per salvarsi sia di aiutare l’Islam moderato a sconfiggere l’Islam fondamentalista, come ha scritto sul “Corriere della Sera” dell’11 gennaio Sergio Romano, un osservatore che pure passa per intelligente. In Francia, lo slogan più ripetuto è quello di evitare l’“amalgama”, ossia l’identificazione tra l’Islam moderato e quello radicale. Ma il fine comune a tutto l’Islam è la conquista dell’Occidente e del mondo. Chi non condivide questo obiettivo non è un moderato, semplicemente non è un buon musulmano.
Le divergenze, semmai, non riguardano il fine, ma i mezzi: i musulmani di Al Qaeda e dell’Isis hanno abbracciato la via leninista della azione violenta, mentre i Fratelli Musulmani utilizzano l’arma gramsciana dell’egemonia intellettuale. Le moschee sono il centro di propulsione di quella guerra culturale che Bat Ye’or definisce il soft-jihad, mentre con il terminehard-jihad definisce la guerra militare per terrorizzare e annientare il nemico. Si può discutere, e certamente si discute all’interno dell’Islam, sulla scelta dei mezzi, ma c’è concordia sull’obiettivo finale, l’estensione al mondo della sharia’a, la legge coranica.
Islam è in ogni caso un sostantivo verbale traducibile con “sottomissione”. La sottomissione per evitare il Terrore, lo scenario del futuro europeo immaginato dal romanziereMichel Houellebecq nel suo ultimo libro, precipitosamente ritirato dalle librerie francesi. No al Terrore significa per i nostri uomini politici no alla sottomissione violenta degli jihadisti, sì ad una sottomissione pacifica, che porti dolcemente l’Occidente in una condizione di dhimmitudine.
L’Occidente si dice disposto ad accettare un Islam “dal volto umano”, ma in realtà, ciò che dell’Islam rifiuta non è solo la violenza, ma anche il suo assolutismo religioso. Per l’Occidente c’è licenza di uccidere in nome del relativismo morale, ma non in nome di valori assoluti. Eppure l’aborto è sistematicamente praticato in tutti i Paesi occidentali e nessuno dei capi di Stato che hanno sfilato a Parigi contro il Terrore lo ha mai condannato. Ma cos’è l’aborto se non la legalizzazione del Terrore, il Terrore di Stato promosso, incoraggiato, giustificato? Che diritto hanno i leader occidentali di manifestare contro il Terrore?
Su “La Repubblica” del 13 gennaio 2015, mentre l’ex capo di Lotta Continua Adriano Sofri celebra L’Europa che rinasce sotto la Bastiglia, la filosofa postmoderna Julia Kristeva, cara al cardinale Ravasi, afferma che «la piazza illuminista ha salvato l’Europa», e che «di fronte al rischio che stavano correndo, libertà, uguaglianza e fratellanza hanno smesso di essere concetti astratti, incarnandosi in milioni di persone». Ma chi ha inventato il Terrore se non la Francia repubblicana, che lo ha usato per annientare tutti gli oppositori alla Rivoluzione francese? L’ideologia e la prassi del terrorismo si affacciano per la prima volta nella storia con la Rivoluzione francese, soprattutto a partire dal 5 settembre 1793, quando il “Terrore” fu messo dalla Convenzione all’ordine del giorno e divenne una parte essenziale del sistema rivoluzionario. Il primo genocidio della storia, quello vandeano, venne perpetrato in nome degli ideali repubblicani di libertà, uguaglianza e fratellanza. Il comunismo che pretese di portare a compimento il processo di secolarizzazione inaugurato dalla Rivoluzione francese, attuò la massificazione del terrore su scala planetaria, provocando, in meno di settant’anni, oltre 200 milioni di morti. E che cos’è il terrorismo islamico se non una contaminazione della “filosofia del Corano” con la prassi marx-illuminista importata dall’Occidente?
“Charlie Hebdo” è un giornale in cui, fin dalla sua fondazione, la satira è stata posta al servizio di una filosofia di vita libertaria, che affonda le sue radici nell’illuminismo anticristiano. Il giornale satirico francese è stato reso noto dalle sue caricature di Maometto, ma non vanno dimenticate le disgustose vignette blasfeme pubblicate nel 2012 per rivendicare l’unione omosessuale. I redattori di “Charlie Hebdo” possono essere considerati un’espressione estrema ma coerente della cultura relativista ormai diffusa in tutto l’Occidente, così come i terroristi che gli hanno sterminati possono essere considerati espressione estrema ma coerente dell’odio contro l’Occidente di tutto il vasto mondo islamico.
Coloro che rivendicano l’esistenza di una Verità assoluta e oggettiva vengono equiparati dai neoilluministi ai fondamentalisti islamici. Mai noi equipariamo il relativismo all’islamismo, perché entrambi sono accomunati dal fanatismo. Il fanatismo non è l’affermazione della verità, ma lo squilibrio intellettuale ed emotivo che nasce dall’allontanamento della verità. E c’è una sola verità in cui il mondo può trovare la pace, che è la tranquillità dell’ordine: Gesù Cristo, Figlio di Dio, a cui tutte le cose devono essere ordinate in Cielo in terra, perché si realizzi la pace di Cristo nel Regno di Cristo additata come l’ideale di ogni cristiano da Papa Pio XI nella enciclicaQuas Primas dell’11 dicembre 1925.
Non si può combattere l’Islam in nome dell’illuminismo e tanto meno del relativismo. Ciò che sola vi si può opporre è la legge naturale e divina, negata in radice sia dal relativismo che dall’Islam. Per questo leviamo in alto quel Crocifisso che il laicismo e l’islamismo rigettano e ne facciamo una bandiera di vita e di azione. «Noi ‒ affermava san Paolo ‒ predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani» (I Cor 1, 23). Potremmo ripetere: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i musulmani e stoltezza per i laicisti». (Roberto de Mattei)
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