ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 16 gennaio 2015

Per i "duri di cuore"

Eucarestia e Divorzio

Chiarimento necessario in attesa del Sinodo sulla Famiglia del 2015 

Se si può comprendere un ateo che critica la posizione della Chiesa Cattolica sul divorzio e sul divieto di accedere all’Eucarestia per i divorziati sposati con rito civile, non si capisce assolutamente la critica sollevata da molti che si dicono cattolici.
Partiamo dal presupposto che se uno dice di essere cattolico sa cos’è la Fede cattolica, conosce cioè i dettami alla base della stessa ed i principi a cui la Chiesa deve rifarsi. Conosce quindi il Catechismo. Conosce il Magistero. Almeno conosce i tratti fondamentali di quel che sostiene di credere.
Dato questo presupposto, riassumiamo in breve (per quanto possibile) quel che da sempre è la legge sul matrimonio e sull’Eucarestia.
Fondamentale è, in primis, ricordare, e purtroppo mi rendo conto ce ne sia spesso il bisogno, che «il matrimonio non fu istituito né restaurato dagli uomini, ma da Dio; non dagli uomini ma da Dio, autore della natura, e da Gesù Cristo, Redentore della medesima natura, fu presidiato di leggi e confermato e nobilitato. Tali leggi perciò non possono andar soggette ad alcun giudizio umano e ad alcuna contraria convenzione, nemmeno degli stessi coniugi» (Pio XI, Casti connubii, 31.12.1930).
E tra quelle leggi ricordate da Pio XI ce ne sono alcune in cui Cristo certifica l’indissolubilità del matrimonio e condanna senza mezzi termini divorzio e seconde nozze: «Fu anche detto: - Chiunque rimanda la propria moglie, le dia il libello del divorzio. - Io invece dico a voi: - Chiunque manda via la propria moglie, salvo il caso di fornicazione, la rende adultera, e chiunque sposa la donna mandata via, commette adulterio» (Mt 5, 31-32); «Allora i Farisei andarono a trovarlo, e per tentarlo gli domandarono: “È lecito mandar via la propria moglie per qualunque motivo?”. Egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: - Per questo lascerà l’uomo suo padre e sua madre e si unirà con sua moglie e i due saranno una sola carne-? Perciò essi non sono più due, ma una sola carne. Non divida dunque l’uomo quello che Dio ha congiunto”. “Perché dunque,” gli chiesero “Mosè prescrisse di darle il libello del ripudio e di mandarla via?”. Rispose loro. “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi permise di ripudiare le vostre mogli; ma da principio non era così. Io poi vi dico che chiunque mandi via sua moglie, salvo il caso di fornicazione, e ne sposa un’altra, commette adulterio, e chi s’ammoglia con la donna ripudiata, diventa adultero» (Mt 19, 3-9); cfr. anche Mc 10, 2-12 e Lc 16, 18.
Impossibile dunque continuare a cercare un modo per sostenere che non è possibile riportare a Gesù la condanna del divorzio e delle seconde nozze e che fu la Chiesa a inventare tutto, così sostenendo anche che la Chiesa ha manipolato a proprio piacimento il “vero” insegnamento di Cristo.
Gesù Cristo condanna con chiarezza e forza «il divorzio, come causa di peccati e di dissoluzione. Egli condanna ogni degradazione dei sensi e riconduce il matrimonio alla sua nobiltà; ridona alla donna la sua dignità, negando con forza che ella sia oggetto di piacere o termine di ammirazioni sensuali o sentimentali … Toglie ogni pretesto anche legale alla corruzione e alla degradazione della donna e abolisce la legge del ripudio; vuole che la donna sia regina e madre nella casa e non sia come un oggetto di divertimento che si desidera e si abbandona come si vuole»[1].
Nella Sua infinita sapienza, si rifà alle parole della Genesi (2, 24) che determina la natura del matrimonio e chiarisce che «non si trattava di un’unione capricciosa o accidentale di due creature, ma di un’unione intima, così piena da formare come una sola carne, benedetta da Dio per attuare la riproduzione e la conservazione del genere umano. L’uomo, dunque, non poteva separare ciò che Dio ha congiunto con una legge di provvidenza e di amore che è sacra»[2].
Il Magistero della Chiesa Cattolica, dunque, non può che essersi attenuto a quel che il suo Fondatore ha insegnato e ha ribadito con chiarezza lungo il corso dei secoli[3].
Da tutto quanto riportato appare chiaro che il divorzio è da considerare una grave offesa al sacramento del matrimonio[4], ma ancor prima alle parole stesse di N.S. Gesù Cristo che ordinò «non divida dunque l’uomo quello che Dio ha congiunto».
Ulteriore e indiscutibile conseguenza di questi dettami di Cristo, almeno per uno che si dice cattolico, è che la grave offesa procurata al sacramento del matrimonio con il divorzio e le seconde nozze “rate e consumate” pone chi l’ha fatta nella condizione di peccato mortale.
Il Catechismo di San Pio X ci insegna che «il peccato mortale è una disubbidienza alla legge di Dio in cosa grave, fatta con piena avvertenza e deliberato consenso» (can. 143) e che la grazia di Dio perduta per il peccato mortale «si riacquista con una buona confessione sacramentale o col dolore perfetto che libera dai peccati, sebbene resti l’obbligo di confessarli» (can. 146).
Sempre il Catechismo di San Pio X ci insegna che «essere in grazia di Dio significa avere la coscienza monda da ogni peccato mortale» (can. 336).
Tutta questa premessa è utile a riassumere alcuni punti fondamentali della dottrina cattolica, che, ribadisco, chi si dice cattolico dovrebbe conoscere; punti necessari anche per poter capire perché una persona che ha divorziato e poi si è sposata con rito civile con un altro/a partner non è in grazia di Dio.
Non è palese che, se Gesù ha condannato il divorzio, ammonendo l’uomo di non dividere ciò che Dio ha unito, se Gesù ha chiamato adultero/a chi, ripudiati la moglie o il marito, si congiunge con altra persona, chi contravviene ai Suoi insegnamenti ed alle Sue prescrizioni in modo grave cade nella condizione di peccato mortale? Possibile ci sia chi si dice cattolico e gli sembra strano quanto ricordato?
Data però la certezza di quanto sopra riportato, arriviamo alla centro del nostro discorso.
Alla base del dubbio sul divieto di accedere all’Eucarestia per i divorziati sposati civilmente non c’è tanto la non conoscenza approfondita della dottrina sul matrimonio, quanto (peggio) la mancata conoscenza di cosa sia l’Eucarestia. O, forse, in alcuni casi, il non volerlo vedere. Altrimenti non si spiega.
Se, infatti, uno sa cos’è l’Eucarestia, Chi c’è nell’Eucarestia, come fa a sostenere che chi è in peccato mortale possa avvicinarsi a questo Sacramento?
Misteri della vita. O, forse, semplicemente effetti della crisi della e nella Chiesa.
È necessario un piccolo sunto.
Sempre riportandosi al Catechismo di San Pio X, studiamo che l’Eucaristia «è il sacramento che, sotto le apparenze del pane e del vino, contiene realmente Corpo, Sangue, Anima e Divinità del Nostro Signor Gesù Cristo per nutrimento delle anime» (can. 316) e che «nell’Eucaristia c’è lo stesso Gesù Cristo che è in cielo, e che nacque in terra da Maria Vergine» (can. 322)[5]. Inoltre sappiamo che «sotto le apparenze del pane c’è tutto Gesù Cristo, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità; e così sotto quelle del vino» (can. 331).
Anche questa  è una verità indiscutibile e costantemente ricordata dal Magistero della Chiesa[6].
Per poter fare una buona Comunione, il cattolico sa che deve essere in grazia di Dio e che deve essere consapevole di Chi si va a ricevere[7]. Quindi che non deve essere in peccato mortale (anche se comunque sarebbe meglio evitare anche di avere peccati veniali) e avere certezza che ci si sta accostando a N.S. Gesù Cristo[8].
Non si può aver il minimo dubbio che chi si trova nella condizione che Cristo ha avvertito di evitare, cioè aver sciolto il matrimonio ed essersi unito ad altra persona, è in stato di peccato mortale costante, esattamente come chi convive more uxorio, ma anche di chi intrattiene rapporti sessuali con una persona sposata con altri. L’unione successiva al divorzio, pur avendola certificata di fronte ad un’autorità civile, non esiste per Dio.
Chi è in questa condizione inoltre contravviene anche all’altro elemento necessario per la validità e utilità della Confessione: il dolore dei peccati ed il proponimento di non commetterne più[9]. Non può essere assolto chi non abbia questi requisiti ed allora l’unico modo che ha il divorziato sposato civilmente di potervi accedere è quello di uscire dalla situazione di grave peccato e viverla in continenza e secondo le regole di Dio (anche se, per motivi gravi, come l’educazione dei figli, dovesse continuare a vivere con il partner).
A quanto sembra, si chiede invece da parte di molti che si ammettano alla Comunione i divorziati sposati civilmente solo con un “percorso di penitenza” che servirebbe quasi solo a “bonificare” il secondo matrimonio.
Alla luce di quanto appena ricordato si comprende facilmente l’impossibilità di accogliere questa ipotesi: è in netto contrasto con il dettato divino, perché permetterebbe a chi è in peccato grave (il periodo di “penitenza” non sarebbe certo il sacramento della Confessione) e, soprattutto, continua ad esserlo (non si dice che si debba essere pentiti, né che si debba lasciare la condizione di peccato, anzi, il contrario, dopo il periodo di “penitenza” si potrà tranquillamente continuare a vivere come se nulla fosse stato) di avvicinarsi comunque a Cristo.
In conclusione, alla luce della dottrina pervenutaci da Gesù, come si può continuare a cercare un modo per avvicinare i divorziati sposati civilmente all’Eucarestia? Come si può voler accostare chi è in peccato mortale a Cristo, senza con ciò stravolgere e manipolare l’insegnamento del nostro Signore?
Sostenere questi tentativi, come si diceva, vuol dire ignorare, o peggio non voler più vedere, a Chi si vuole far questo e disinteressarsi dell’aspetto divino delle istituzioni in oggetto, nonché del sacrilegio a cui si va incontro.
Portando così se stessi, e chi in buona fede segue queste tesi, alla morte dell’anima: «perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna»[10].
Iniziamo invece a dire la verità, senza la paura di dar fastidio al mondo, ricordandoci che si è nel mondo, ma non si è del mondo. Iniziamo a fare la vera carità che è dire la verità a chi ne è lontano. Iniziamo a ricordare che l’unico modo che abbiamo per accostarci degnamente a Cristo, e quindi all’Eucarestia, è quello di accedere prima al sacramento della Confessione, «sacramento istituito da Gesù Cristo per rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo»[11]. Che questo prima ancora che un obbligo è un nostro interesse, perché ci permette di salvare la nostra anima.
E ritorniamo a spiegare che, se la Chiesa non ammette alla Comunione eucaristica chi ha divorziato e si è unito civilmente ad altra persona, è perché «sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia»[12] ed anche che «c’è un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio»[13].
Così come si deve tornare a spiegare che è la riconciliazione nel sacramento della Confessione l’unica strada possibile per il riavvicinamento all’Eucaristia e che questa «può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio»[14] e quindi la continenza.
Solo così, con chiarezza e fermezza (che non vogliono assolutamente significare intolleranza!), si potrà imboccare la strada di un ritorno ad un credo totalmente e realmente cattolico.
In primis, è questo è il problema più serio, a cominciare da molti esponenti del Clero.         



[1] Don Dolindo Ruotolo, Commento ai quattro Vangeli, Vangelo di Matteo, Casa Mariana Editrice
[2] Ibid.
[3] «…non è lecito alla donna andare sposa a un altro. E qualora si sia sposata, e quand’anche ne sia seguita l’unione carnale, deve da lui separarsi, e essere costretta dal rigore ecclesiastico a tornare dal primo, anche se altri pensano diversamente e in altro modo talvolta sia stato giudicato anche da alcuni nostri predecessori», Alessandro III, Lettera (frammenti) Verum postall’arcivescovo di Salerno, data incerta; «Certamente quello che il Signore dice nel Vangelo, non è lecito all’uomo ripudiare sua moglie, se non in caso di fornicazione [Mt 5,32; 19,9], è da intendersi, secondo l’interpretazione della santa Parola, riferito a coloro il cui matrimonio è stato consumato con l’unione carnale, senza la quale il matrimonio non può essere consumato, e dunque, se la suddetta donna non è stata conosciuta da suo marito, le è lecito passare alla vita religiosa», Lettera Ex publico instrumento al vescovo di Brescia, data incerta, Concilio Lateranense III; «Se qualcuno dirà che il matrimonio non è in senso vero e proprio uno dei sette sacramenti della legge evangelica, istituito da Cristo, ma che è stato inventato dagli uomini nella chiesa, e non conferisce la grazia, sia anatema”» e «Se qualcuno dirà che la chiesa sbaglia quando ha insegnato e insegna, secondo la dottrina del Vangelo e degli apostoli, che il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio di uno dei coniugi; che nessuno dei due, nemmeno l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio, può contrarre un altro matrimonio, vivente l’altro coniuge; che commette adulterio il marito che, cacciata l’adultera, ne sposi un’altra, e la moglie che, cacciato l’adultero, ne sposi un altro, sia anatema», Concilio di Trento, Sez. XXIV, Dottrina e canoni sul matrimonio, Cann. 1 e 7, 11 novembre 1563; «Se poi la chiesa non sbagliò né sbaglia, allorché insegnò o insegna queste cose, ed è perciò del tutto certo che il matrimonio non può essere sciolto neppure a causa dell’adulterio, è evidente che gli altri motivi più lievi di divorzio che si suole addurre, valgono ancor meno e sono da ritenere del tutto inconsistenti» ed «E anzitutto, quanto all’indissolubile fermezza del patto coniugale, Cristo medesimo vi insiste dicendo: “Ciò che Dio ha congiunto, l’uomo non separi” [Mt 19,6]; e: “Chiunque ripudia la propria moglie e ne prende un’altra commette adulterio: e chiunque prende quella che è stata ripudiata dal marito commette adulterio” [Lc 16,18]. In questa indissolubilità ripone appunto sant’Agostino il bene che egli chiama del sacramento, con queste chiare parole: “Nel sacramento poi [si fa in modo] che il matrimonio non sia sciolto e il ripudiato o la ripudiata non si unisca ad altri, neppure a motivo della prole” [De Genesi ad litteram, IX, 7, n. 12]» ed ancora «E se l’uomo ingiuriosamente tenta di separarlo [ciò che Dio ha unito, ndr], il suo atto è del tutto nullo; e resta valido perciò quanto Cristo apertamente confermò: “Chiunque rimanda la moglie e ne sposa un’altra, è adultero e chi sposa la rimandata dal suo marito, è adultero” [Lc 16,18]. E queste parole di Cristo riguardano qualsiasi matrimonio, anche quello soltanto naturale e legittimo, giacché a ogni vero matrimonio spetta quella indissolubilità, per la quale esso è sottratto, quanto alla soluzione del vincolo, e all’arbitrio delle parti e ad ogni potestà civile», Pio XI, Casti connubii, 31.12.1930
[4] Cfr. cann. 2382 e 2385 Catechismo della Chiesa Cattolica
[5] Si vedano anche i cann. 325 e 327
[6] «Noi fermamente e senza dubbio alcuno con cuore puro crediamo, e con semplicità con parole credenti affermiamo, che il sacrificio, cioè il pane e il vino, dopo la consacrazione è il vero corpo e il vero sangue del Signore nostro Gesù Cristo; nel quale noi crediamo che nulla di più da un sacerdote buono e nulla di meno da uno cattivo è compiuto; perché si compie non per merito del consacrante, ma per la parola del Creatore e per la forza dello Spirito Santo», Innocenzo III, Lettera Eius exemplo all’arcivescovo di Tarragona, 18.12.1208, Professione di fede prescritta ai valdesi; «…infatti il suo corpo e il suo sangue sono contenuti veramente nel sacramento dell’altare, sotto la specie del pane e del vino, poiché il pane è transustanziato nel corpo, e il vino nel sangue per divino potere», Concilio Lateranense IV, Cap. 1, 11-30/11/1215; Nella Lettera di Clemente IV Quanto sincerius del 28.10.1267 all’arcivescovo Maurino di Narbonne, il Papa riprende l’arcivescovo, dicendosi scandalizzato, che aveva asserito che «Gesù Cristo non è con la sua essenza sull’altare, ma solamente come indicato sotto un segno». Clemente IV dice chiaramente che tali affermazioni «contengono una manifesta eresia e annullano la verità di quel sacramento»; «E in virtù delle stesse parole [di Cristo, ndr] la sostanza del pane si trasforma in corpo di Cristo, e la sostanza del vino in sangue. Ciò avviene però in modo tale che tutto il Cristo è contenuto sotto la specie del pane e tutto sotto la specie del vino e, se anche questi elementi venissero divisi in parti, in ogni parte di ostia consacrata e di vino consacrato vi è tutto il Cristo», Concilio di Firenze, Bolla sull’unione con gli armeni Exsultate Deo, 22.1.1439; «In primo luogo questo santo sinodo insegna e professa apertamente e semplicemente che nel divino sacramento della santa eucaristia, dopo la consacrazione del pane e del vino, il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente [can. 1], sotto l’apparenza di quelle cose sensibili» (Cap. 1) - «È quindi verissimo che sotto una sola specie è contenuto tanto, quanto sotto entrambe. Cristo, infatti, è tutto e integro sotto la specie del pane e sotto qualsiasi parte di questa specie; e similmente è tutto sotto la specie del vino e sotto ogni sua parte» (Cap. 3) - «Poiché il Cristo, nostro redentore, ha detto che ciò che offriva sotto la specie del pane era veramente il suo corpo, nella chiesa di Dio vi fu sempre la convinzione, e questo santo concilio lo dichiara ora di nuovo, che con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo del Cristo, nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue. Questa conversione, quindi, in modo conveniente e appropriato è chiamata dalla santa chiesa cattolica transustanziazione» (Cap. 4), Concilio di Trento, Sess. XIII, 11.10.1551, Decreto sul sacramento dell’Eucaristia; «Se qualcuno negherà che nel sacramento dell’eucaristia è contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità, e, quindi, il Cristo tutto intero, ma dirà che esso vi è solo come in un simbolo o una figura, o solo con la sua potenza, sia anatema» (Can. 1), Concilio di Trento, Sess. XXII, 17.9.1562, Dottrina e canoni sul sacrificio della Messa; «Riconosco parimenti che nella messa viene offerto a Dio un vero e proprio sacrificio di espiazione per i vivi e per i morti, e che nel santissimo sacramento dell’eucaristia c’è veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue, insieme all’anima e alla divinità, del nostro Signore Gesù Cristo, e che avviene la trasformazione di tutta la sostanza del vino e del sangue, trasformazione che la chiesa cattolica chiama transustanziazione. Confesso che anche sotto una delle due specie viene assunto Cristo completo e integro e il vero sacramento», Pio IV, Bolla Iniunctum nobis, 13.11.1564, Professione di fede tridentina; «Anche se è quanto mai conveniente che quelli che fanno uso della comunione frequente e quotidiana siano privi di peccati veniali, per lo meno quelli pienamente deliberati, e dall’affetto nei loro confronti, è tuttavia sufficiente che siano senza peccati mortali, unitamente al proposito di non peccare mai più nel futuro», S. Pio X, Decreto Sacra Tridentina Synodus, 16.12.1905, La comunione eucaristica quotidiana, punto 3; «Il sacrificio dell’altare non è una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentemente, il sommo sacerdote da ciò che fece una volta sulla croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima … Per mezzo della “transustanziazione” del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue; le specie eucaristiche poi, sotto le quali è presente, simboleggiano la cruenta separazione del corpo e del sangue», Pio XII, Enciclica Mediator Dei, 20.11.1947; «Tale presenza si dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia perché è anche corporale e sostanziale, e in forza di essa Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente. Malamente dunque qualcuno spiegherebbe questa forma di presenza, immaginando il corpo di Cristo glorioso di natura “pneumatica” onnipresente; oppure riducendola ai limiti di un simbolismo, come se questo augustissimo sacramento in niente altro consistesse che in un segno efficace “della spirituale presenza di Cristo e della sua intima congiunzione con i fedeli membri del corpo mistico», Paolo VI, Enciclica Mysterium fidei, 3.9.1965.
[7] Catechismo di San Pio X, can. 335
[8] Ibid.,, can. 337
[9] Ibid., can 358
[10] San Paolo, 1Cor 11, 29
[11] Catechismo di San Pio X, can. 335; vedi anche  can. 373 e Concilio di Trento, Sess. XIV, 25.11.1551, can. 6
[12] S. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, 84
[13] Ibid.
[14] Ibid.
Pierfrancesco Nardini
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Per i "duri di cuore" vale sempre la legge di Mosè
Lo sostiene un insigne biblista, con una nuova interpretazione delle parole di Gesù su matrimonio e divorzio. Ma la Chiesa cattolica ha sempre predicato l'indissolubilità senza eccezioni. Arriverà ad ammettere le seconde nozze, come in Oriente?

di Sandro Magister

ROMA, 16 gennaio 2015 – Non ci sono solo le arcinote argomentazioni del cardinale Walter Kasper, a favore della comunione ai divorziati risposati.

C'è anche chi percorre sentieri nuovi e originali, nell'obbedire alla consegna del sinodo dello scorso ottobre, secondo cui "va ancora approfondita la questione".


È il caso di un biblista e patrologo di chiara fama, Guido Innocenzo Gargano, monaco caìmaldolese, già priore del monastero romano di San Gregorio al Celio, docente al Pontificio Istituto Biblico e alla Pontificia Università Urbaniana.

In un saggio sull'ultimo numero del quadrimestrale di teologia "Urbaniana University Journal", padre Gargano mostra come le parole di Gesù sul matrimonio siano mosse principalmente da ciò che Dio dice per la bocca del profeta Osea: "Misericordia io voglio e non sacrificio".

E di conseguenza sostiene che Gesù, quando afferma che "l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto", non per questo cancella la condiscendenza dello stesso Dio per la "durezza del cuore" del suo popolo, al quale Mosè aveva concesso il divorzio.

La chiave di volta dell'argomentazione di padre Gargano è l'affermazione di Gesù nel discorso della montagna: "Non sono venuto ad abolire la Legge o i Profeti, ma a dare pieno compimento".

A suo giudizio, il significato di questa affermazione è che le due leggi – quella del "fu detto agli antichi" e quella nuova del "ma io vi dico" – coesistono entrambe nella predicazione di Gesù e si chiariscono reciprocamente.

Tant'è vero che Gesù, sempre nel discorso della montagna, non esclude dal regno dei cieli ma vi fa entrare come "minimo" anche "chi trasgredirà uno solo di questi minimi precetti" e quindi – chiosa padre Gargano – anche chi usufruirà della concessione mosaica del ripudio per la "durezza del cuore".

L'autore del saggio sviluppa questi e altri punti con ampiezza e finezza, senza esplicitare le applicazioni pratiche che ne potrebbero derivare nella vita della Chiesa cattolica, non solo sulla "vexata quaestio" della comunione ai divorziati risposati, ma anche sull'ammissione o no delle seconde nozze.

Egli si limita infatti a un esercizio di esegesi e teologia del Nuovo Testamento sui testi di Matteo riguardanti il matrimonio, con solo minimi cenni ai successivi sviluppi della dottrina e della prassi della Chiesa in Occidente ed Oriente e un totale silenzio sui canoni dogmatici del Concilio di Trento e sulla costituzione pastorale del Concilio Vaticano II "Gaudium et spes", che confermano l'assoluta indissolubilità del matrimonio cristiano.

Naturalmente, resta aperta alla discussione anche l'esegesi che padre Gargano fa del detto di Gesù: "Non sono venuto ad abolire la Legge o i Profeti, ma a dare pieno compimento".

Ad esempio, di questo detto, come pure dell'antitesi "fu detto agli antichi… ma io vi dico" che caratterizza il discorso della montagna, Joseph Ratzinger dà un'interpretazione decisamente diversa e non meno suggestiva, nel primo volume del suo "Gesù di Nazaret".

Ratzinger mostra la novità del rapporto tra legge nuova e legge antica in due casi esemplari: il comandamento sul sabato e l'altro comandamento "onora il padre e la madre", ai quali Gesù, senza abolirli, dà un nuovo e più ampio significato.

E poi mostra come nella legge antica interagissero due tipi di codici: quello "casuistico", condizionato storicamente e suscettibile di sviluppi e correzioni, e quello "apodittico", pronunciato nel nome stesso di Dio e di valore perenne, la cui "opzione fondamentale è la garanzia offerta da Dio stesso a favore dei poveri".

Gesù, scrive Ratzinger, "contrappone alla norme casuistiche, pratiche, sviluppate nella legge antica, la pura volontà divina, come la 'maggiore giustizia' (Mt 5, 20) che ci si deve aspettare dal figli di Dio".

E quindi "non amare solo il prossimo ma anche il nemico". E quindi "non solo non uccidere ma andare incontro al fratello con cui si è in lite per riconciliarsi con lui". E quindi "non più divorzi"…

Il testo integrale del saggio di Guido Innocenzo Gargano sull'"Urbaniana University Journal" è in quest'altra pagina di www.chiesa:

> Giustizia e misericordia nelle parole di Gesù sul matrimonio

Mentre questo che segue è un estratto, ripreso dalla parte centrale del saggio:

__________

"MISERICORDIA IO VOGLIO E NON SACRIFICIO"

di Guido Innocenzo Gargano



Quale interpretazione dare all’espressione di Gesù in Mt 5, 17: "Non sono venuto ad abolire la Legge o i Profeti, ma a dare compimento"?

Come valutare il riferimento alla durezza del cuore in Mt 19, 8ab: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli"?

Quale forza dovrà avere l’osservazione di Gesù in Mt 19, 8c: "All’inizio non era così"?

Per tentare di compiere un passo avanti nella riflessione su questa serie di interrogativi richiamo anzitutto […] ciò che Gesù stesso aveva dichiarato in Mt 5, 19: "Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli".

La prima osservazione che si impone, a questo proposito, è che in Mt 5, 19 Gesù non parla di "esclusione" dal regno dei cieli, ma soltanto di situazione di "minimo" o di "grande" nel regno dei cieli.

L’osservazione ha una sua importanza perché Gesù, immediatamente dopo, e cioè in Mt 5, 20, dichiarerà con una certa solennità: "Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli", escludendo in modo esplicito, in questo secondo caso, dal regno dei cieli coloro che si fermano semplicemente alla giustizia perseguita dai farisei e non riescono ad andare oltre fino a scoprire la misericordia, agendo di conseguenza.

Il fatto che Matteo distingua l’essere nel regno dei cieli dal non entrarci affatto, non può essere senza importanza. In realtà l’evangelista ci fa sapere, con questa sua distinzione, che ci sono dei precetti minimi la cui osservanza o meno non toglie del tutto la possibilità di entrare nel regno e ci sono invece degli atteggiamenti di fondo che possono escludere totalmente dall’entrare nel regno e che, tra questi atteggiamenti, ci sono proprio quelli dei farisei i quali, come ben sappiamo da tutto il dibattito tra loro e i discepoli di Gesù, intendevano difendere soprattutto, o forse unicamente, gli aspetti legati alla giustizia relativizzando, e perfino escludendo, quelli legati alla misericordia. […]

Adesso però dobbiamo anche chiederci di quali precetti stia parlando Gesù e capire se si tratta soltanto dell’osservanza della Torà scritta/orale con il contorno della siepe delle cosiddette "mitzvòt"; oppure se il maestro di Nazaret intenda comprendere anche certi precetti intesi piuttosto come concessioni, tipo quella di usufruire del permesso di ripudiare la propria moglie, a condizione che venga scritto l’atto di ripudio come prescrive il testo di Dt 24, 1.

All’inizio non era così

La sottoscrizione dell’atto prescritto da Mosè, ritenuta sufficiente per restare parte del popolo di Dio, potrebbe essere intesa come un’osservanza di quei "precetti minimi" che non escludono dal regno pur caratterizzando come "minimo" colui che vi entra per questa strada. E questo stabilirebbe la differenza rispetto a coloro che, cercando nella Torà scritta/orale unicamente la giustizia senza aprirla alla misericordia, ne resterebbero inevitabilmente fuori. […]

Va da sé che ne resterebbero inevitabilmente fuori anche tutti coloro che non intendessero dare alcuno spazio, con la loro rigida applicazione della giustizia, a quella particolare accondiscendenza che Gesù richiede come scelta necessaria per entrare nel regno. Cosa che succede soprattutto quando si agisce senza tener conto delle conseguenze ovvie che ricadono, per esempio in un rapporto di coppia, sulle spalle della persona più debole, esponendola all’adulterio o, ancora peggio, imponendole un’unione adultera (cfr Mt 5, 32) che escluda del tutto la tenerezza che accompagna necessariamente la misericordia.

Potremmo così ritenere che l’insegnamento di Gesù metta in stretta connessione l’intenzione del Creatore, richiamata dalle parole: "all’inizio non era così" (Mt 19, 8c), con la corretta interpretazione dell’accondiscendenza voluta e decisa da Mosè: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso" (Mt 19, 8a). E questo non soltanto per non togliere nulla alla forza della dichiarazione di Gesù in Mt 5, 17: "Non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento", ma anche per aggiungere il richiamo ad un insegnamento, costante nella tradizione cristiana, che riguarda l’unità tra Dio Creatore e Dio Redentore, uniti nel contemporaneo rispetto della giustizia e della misericordia, accompagnato dal primato, appunto, della misericordia.

Il primato della misericordia

La riflessione che abbiamo portato avanti finora non può fare a meno di svilupparsi aggiungendo che, in questi casi, si è costretti sempre a non restare soltanto all’esterno di una considerazione giuridica, ma a considerare con la massima delicatezza possibile il coinvolgimento della coscienza personale.

Infatti siamo sempre e comunque di fronte ad una realtà che cade sotto il principio morale sintetizzato dalla massima comune: "De internis non iudicat Ecclesia". Da qui la necessità di entrare in queste cose in punta di piedi, con timore e tremore, come se si fosse di fronte a qualcosa di profondamente sacro e inviolabile, tenendo conto di un principio al quale la tradizione cattolica ha sempre richiamato gli operatori pastorali: "Paenitenti credendum est".

La risposta di Gesù sembra in realtà autorizzare proprio simili conclusioni. Infatti a prima vista Gesù sembra escludere che, nel caso del divorzio, si possa parlare di ingresso nel regno, con il richiamo esplicito al testo di Gen 2, 24 che si rifà alla Legge inscritta nelle stelle: "Non divida l’uomo quello che Dio ha congiunto" (Mt 19, 6). Quando però, sollecitato dai suoi interlocutori che gli chiedono: "Perché allora Mosè ha ordinato l’atto di ripudio e di ripudiarla" (Mt 19, 7), Gesù, cercando la motivazione di fondo di quel primo principio, si accorge che di fatto quella prescrizione mosaica manifestava un’accondiscendenza che è propria di Dio.

Da qui: da una parte la constatazione che "per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli" (Mt 19, 8); dall’altra l’assenza di qualsiasi decisione di cassare una simile prescrizione mosaica, coerente con ciò che ha già dichiarato solennemente nel discorso della montagna: "Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento" (Mt 5, 17). Due atteggiamenti che escludono la possibilità di leggere la nostra pericope da una prospettiva unicamente giuridica o, peggio ancora, tassativa, come si è stati inclini a considerarla nella tradizione cristiana occidentale, e in quella cattolica in particolare.

In questo caso saremmo infatti di fronte ad una interpretazione del testo che esulerebbe totalmente dal contesto globale della vita e dell’insegnamento di Gesù, così come appare dal Nuovo Testamento, e dal contesto culturale e religioso in cui agiva ed insegnava il maestro di Nazaret, come risulta dal linguaggio analogo a quello utilizzato da Matteo nel discorso della montagna, compresa la frase stereotipata: "ma io vi dico" (Mt 19, 9).

Non si può negare inoltre che proprio l’accondiscendenza, e dunque il primato della misericordia, caratterizzassero l’insegnamento di Gesù distinguendolo da quello di tutti, o quasi, i maestri suoi contemporanei. È lo stesso evangelista Matteo a documentarci sulla particolare gerarchia dei valori perseguita da Gesù nella risposta ai suoi interlocutori che, in altre occasioni, lo accusavano con parole precise e dirette: "I tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato", ai quali rispondeva con parole altrettanto decise e dirette: "Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame?... Se aveste compreso che cosa significhi: 'Misericordia io voglio e non sacrificio', non avreste condannato persone senza colpa. Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato"" (Mt 12, 1-8 passim).

Premesso questo e chiedendoci se, secondo l’insegnamento e le scelte di vita di Gesù, si possano dare situazioni nelle quali sia possibile agire in modo difforme da ciò che prescrive la Legge inscritta nelle stelle, regolandosi invece secondo la Legge inscritta nelle pietre da Mosè e interpretata (Legge orale) dai Profeti, la risposta potrebbe essere: "Sì". A una condizione: che venga privilegiata la dinamicità della misericordia sulla staticità della Legge.

Infatti il costante insegnamento della Legge di Mosè e della Tradizione interpretativa dei Profeti, fatta propria da Gesù di Nazaret, è che si debba comunque privilegiare il valore della misericordia anche a scapito del riferimento ad una Legge scritta che non dovesse permettere di tener conto adeguatamente dei bisogni dell’uomo; bisogni che potrebbero richiamarsi alla scelta dei compagni di Davide, per esempio, che ebbero fame e mangiarono trasgredendo la materialità della Legge (cfr 1 Sam 21, 1-6, Mt 12, 1-8), o all’insegnamento di profeti come Osea che dichiarava a nome di Dio: "Misericordia io voglio e non sacrificio" (Os 6, 6; Mt 12, 7).

Lo sganciamento dell’uomo dalla presa rigida della cosiddetta "littera" della Legge è in realtà un leit motiv di tutto l’insegnamento di Gesù di Nazaret. Ne fanno testo, e proprio nell’evangelista Matteo, non soltanto il discorso programmatico della montagna, ma anche, nel testo appena riportato, la dichiarazione solenne dello stesso Gesù: "Il Figlio dell’uomo è signore del sabato" (Mt 12, 8).

Il passaggio dalla "littera" allo "spiritus"

Sappiamo che il Discorso della montagna è stato abitualmente letto come una sorta di inasprimento delle prescrizioni della Legge, ma io sono convinto che esso sia, in realtà, un generosissimo programma di liberazione dalle strettoie della "littera" della Legge scritta/orale trasmessa da alcuni in Israele. Esso permette infatti un allargamento straordinario degli orizzonti, sia interni che esterni, ai quali è invitato a volgere il suo sguardo l’uomo pio e osservante di tutti i tempi.

Non si tratta assolutamente allora di inasprimento, ma piuttosto di richiesta a superare gli stretti confini del dovere per aprirli agli spazi amplissimi della gratuità dell’amore, confrontata con la disponibilità del Padre che si lascia dirigere dalla generosità a tal punto da non fare alcuna differenza tra coloro che noi chiameremmo buoni o cattivi, giusti o peccatori.

L’affinamento del cuore e della mente richiesto da Gesù nel suo discorso della montagna non farebbe altro dunque che rifarsi, estendendola, a quella logica intrinseca alla fede che aveva permesso a Mosè di tener conto della "durezza del cuore" dei membri del suo popolo, piegando con condiscendenza la Legge alla loro situazione concreta, e così permettendo a tutti di restare uniti con l’insieme del popolo di Dio nonostante le cadute e il ritmo diverso del proprio cammino personale. […]

Dovrebbe far testo infatti, in Mt 19, 3-9, lo stesso criterio utilizzato nell’interpretazione del Discorso della montagna, criterio che non cancella, anzi sottolinea, il dettato della Legge scritta/orale, considerandolo valido e determinante, e tuttavia proponendone un superamento, che certamente non è da tutti ma che tuttavia resta l’obiettivo inteso dal Legislatore e registrato nella Legge inscritta nelle stelle, cioè nella natura.

Con una differenza però piuttosto significativa, dal momento che il richiamo alla Legge naturale, fondata sull’autorità di un’espressione gesuana come il "ma io vi dico", viene proposto come un "oltre" rispetto a ciò che Mosè ha dovuto accettare per venire incontro alla durezza di cuore dei suoi destinatari. Differenza che è un’ulteriore conferma del dibattito in corso ai tempi di Gesù tra coloro che si ritenevano anzitutto discepoli di Henoc e coloro che insistevano nel riferirsi a Mosè.


Tra "skopòs" e "telos"


Le due Leggi, quella incisa nelle stelle e quella di Mosè, potevano dunque essere proposte in modo complementare, così che potessero, in qualche modo, chiarirsi reciprocamente. […] Gesù non nega la gravità di chi è imprigionato nella "durezza di cuore", e tuttavia non lo condanna esplicitamente. La sua decisione è un’altra: accettare la propria debolezza e tuttavia non dimenticare mai che l’obiettivo fissato (skopòs) è una cosa, ma l’obiettivo raggiunto (telos) è un’altra. […]

In altre parole: il "telos", cioè il conseguimento concreto dell’obiettivo pensato da Dio, deve inevitabilmente fare i conti con la lentezza propria di una realtà umana sottomessa al tempo e allo spazio. Una lentezza che, nel caso specifico dei discepoli di Gesù, non può fare a meno di tener conto anche della fragilità dovuta al peccato. […]

Si potrebbe allora concludere che la "durezza del cuore" (Mt 19, 8a) rivelatasi lungo il tragitto di questo passaggio dallo "skopòs" al "telos", che aveva costretto Mosè a reinterpretare il desiderio di Dio Creatore in modo tale da non imporre a nessuno una incresciosa esclusione dal popolo di Dio, potrebbe interferire non poco nella realizzazione o meno dell’obiettivo fissato.

Da qui la sua decisione di ammettere, nel caso specifico di una crisi di coppia, il ripudio, condizionandolo alla sottoscrizione di un atto formale. E si potrebbe mai pensare allora che Gesù, venuto "non per abolire la Legge o i Profeti… ma a dare pieno compimento" ad essi (Mt 5, 17), abbia potuto abolire la concessione di Mosè, proprio in un punto che qualificava chiaramente, e in modo determinante, la sua predicazione e cioè la misericordia? […]

Le indicazioni pastorali, che potrebbero a prima vista apparire nuove e perfino rivoluzionarie, in realtà non sarebbero altro che la conferma esattissima dell’insegnamento del Nuovo Testamento, ricevuto certamente con sensibilità diversa in Oriente e in Occidente, ma che conferma l’unità del respiro dei due polmoni della Chiesa, l’uno e l’altro preoccupati di agire in tutto e per tutto secondo lo spirito dell’unico Vangelo.

Infatti non cambia, in tutto questo, il giudizio di Gesù sulla negatività di una decisione che contrapporrebbe la volontà del Dio Creatore, che ha inciso la sua Legge nelle stelle, alla volontà del Dio Redentore, che accetta l’accondiscendenza di Mosè verso un popolo di "dura cervice".

I Padri delle Chiese Orientali lo avevano capito molto bene, dal momento che avevano sempre contrastato i perfezionisti e gli spiritualisti di tutti i tipi che facevano di tutto per separare il Dio Creatore dal Dio Redentore. La soluzione in realtà non sta nello sposare l’irrigidimento degli spiritualisti e dei fondamentalisti di tutti i tipi, ma nel fare la giusta e necessaria distinzione tra peccato e peccatore, che è una delle eredità più preziose del Nuovo Testamento.
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La rivista di teologia della Pontificia Università Urbaniana su cui è uscito il saggio:

> Urbaniana University Jurnal
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Lo stato attuale della dottrina e della prassi della Chiesa cattolica sulla questione più dibattute nel sinodo, nella sintesi del prefetto della congregazione per la dottrina della fede, cardinale Gerhard L. Müller:

> Indissolubilità del matrimonio e dibattito sui divorziati risposati

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Il testo preparatorio della prossima sessione del sinodo sulla famiglia:

> Lineamenta


http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350967

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