di
Carla D’Agostino Ungaretti
.
Verso la metà dello scorso dicembre, Roberto Benigni ha fatto il pieno di
audience su RAI 1 parlando dei Dieci Comandamenti. Spero di non essere accusata di snobismo televisivo se confesso di essere una dei pochissimi telespettatori che non ha seguito la trasmissione perché non amo i cosiddetti
“one man show”, sia televisivi che teatrali. Infatti li ritengo finalizzati più a rafforzare il narcisismo divistico dei protagonisti, che a svolgere un’efficace azione educativa e culturale, come essi sembrano pretendere. Perciò non criticherò la trasmissione ma, basandomi sui commenti letti e ascoltati, mi è parso di capire che il simpatico Roberto abbia trascurato (non so quanto a ragion veduta) di evidenziare due aspetti molto importanti dei Dieci Comandamenti, almeno secondo l’ottica cristiana. Se mi sbaglio, spero di essere corretta dagli amici che mi seguono e allora sarò pronta a cambiare opinione.
Il primo aspetto, secondo me, riguarda l’esistenza di un
“diritto naturale” che traspare da ogni precetto del Decalogo. Il primo che mi fece conoscere l’esistenza del diritto naturale, attraverso la tragedia
“Antigone”, fu Sofocle per bocca della mia professoressa di latino e greco nel mio lontano liceo classico. La mia insegnante – ottima grecista e latinista in un’epoca in cui queste due materie fondamentali per la nostra civiltà si studiavano davvero – aprì ai suoi allievi uno scenario spirituale di eterna attualità di cui quei ragazzi (me compresa) nella loro giovanile spensieratezza, non avevano mai sentito parlare e cioè l’esistenza di quelle leggi naturali, di cui è fittamente intessuto lo spirito umano, avvertite in ogni tempo, in ogni paese e in ogni civiltà, e facenti sì che gli uomini delle più estreme regioni della terra non si sentano estranei tra di loro, ma appartenenti a una medesima specie e a una stessa famiglia.
La più bella espressione di questa consapevolezza (ci spiegò la nostra insegnante) proviene, nel mondo antico, dalla figura di Antigone, la giovane donna la quale, nella tragedia di Sofocle, non temette di andare incontro alla morte pur di dare un’onorevole sepoltura, secondo l’eterna legge che ella sentiva dentro di sé, a suo fratello Polinice, sconfitto e ucciso nella guerra dei
“Sette contro Tebe” il cui cadavere era destinato a rimanere insepolto e preda degli avvoltoi per ordine del vendicativo Tiranno di Tebe Creonte. Le parole che Antigone rivolge al suo persecutore sono lapidarie nella bella e poetica traduzione italiana di Giovanni Raboni:
“Non mi sembra che tu / possa abrogare per decreto / una legge non scritta degli dei, / una di quelle leggi che nessuno / sa come si rivelarono e quando / ma da sempre hanno vita … “ .
Ecco quindi che già in un’epoca ancora mitologica e lontanissima da noi, era sorto il problema del possibile contrasto tra la legge naturale, impressa nelle coscienze umane da un’Entità superiore all’uomo stesso, e il diritto positivo, ispirato invece dalla politica umana, opportunista e legata al mantenimento del potere. E’ un problema attualissimo di cui in questo XXI secolo ci accorgiamo ogni giorno e tanto più ce ne accorgeremo in futuro se anche in Italia – dopo l’abominevole legge sull’aborto, condannato anche dal pagano Ippocrate – continueranno ad essere emanate certe leggi decisamente anticristiane che vorrebbero legittimare, nella nostra società, atti contrari alla legge di Dio.
Nella tradizione ebraico – cristiana di cui è intessuta la nostra civiltà, la legge naturale è incarnata nel Decalogo donato da Dio al popolo di Israele sul Monte Sinai; ma questi precetti sono talmente
connaturati con la sensibilità umana che possono essere avvertiti e osservati, come nel caso di Ippocrate, anche da chi non conosce Dio. Infatti, dice S. Paolo,
“quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo la legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza …” (Rm 2, 14 – 15) e “
dai giudizi di biasimo o di elogio che portano sulle loro proprie azioni” (come commenta, nella nota, la Bibbia di Gerusalemme).
Invece il mondo moderno, che respinge il diritto naturale in nome del relativismo etico e filosofico, finisce per respingere di conseguenza anche il Decalogo. Una volta si poteva pensare che esso accettasse senza condizioni solo un paio di precetti: “
Non uccidere” e “Non rubare” – tutto al più (e con un po’ di sforzo)
“Non mentire” - perché, bene o male, essi sembrano difendere la stabilità sociale e non certo perché riflettano una legge universale avvertita nella coscienza umana fin dalla notte dei tempi. Ma tutti sappiamo che ormai, con le leggi che considerano diritti umani l’aborto e il suicidio assistito, anche il comandamento che proibisce l’omicidio trova molte attenuanti quando addirittura non incoraggiamenti. Tutti gli altri comandamenti sono facilmente aggirabili e la loro trasgressione non suscita troppa riprovazione. Si può dire che la menzogna, l’adulterio, la bestemmia li troviamo quasi ogni giorno sul nostro cammino: basta leggere i giornali o collegarsi con Internet.
Per rimanere più aderenti al Decalogo – arrivando così al secondo aspetto che non credo sia stato adeguatamente sottolineato da Benigni – il Catechismo della Chiesa Cattolica inizia (al n. 2052) la sua trattazione dei 10 Comandamenti con l’episodio evangelico del giovane ricco riportato dai tre sinottici:
“Maestro buono (secondo Marco e Luca)
che devo fare per avere la vita eterna?”, ovvero (secondo Matteo): ”
Che cosa debbo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. Questo episodio mi sembra un po’ la chiave di volta per la riflessione su tutto il Decalogo. Gesù risponde facendo, dapprima, due correzioni della domanda in senso qualitativo: anzitutto solo Dio è buono, che è come dire che il bene non è una cosa ma una Persona, il bene per eccellenza e la fonte di ogni bene è solo Dio.
La seconda correzione riguarda la mentalità in un certo qual modo “
affaristica” del giovane ricco, che vorrebbe ottenere la vita eterna in cambio del suo retto comportamento. Gesù chiarisce che la vita eterna non si possiede o si ottiene, ma in essa si
entra perché essa è un dono dell’amore di Dio, un’offerta gratuita, un dono totale di se stesso che Dio fa all’uomo richiamando, poi, l’osservanza dei 10 Comandamenti, esclusiva via di salvezza per il popolo di Israele, ma riassumendoli infine (secondo Matteo) in quel Comandamento Nuovo e fondamentale che, alla luce del messaggio cristiano, dà senso e significato a tutti gli altri: “
Ama il prossimo tuo come te stesso”. Infatti, nella parabola del giudizio, secondo Matteo, la qualità della relazione col Figlio dell’Uomo si gioca sulla qualità delle relazioni tra uomo e uomo, perché Gesù si identifica con il povero e il bisognoso, cioè con ogni uomo. In altre parole, ciascuno di noi sarà giudicato in base all’amore che sarà stato capace di effondere nella vita terrena.
Da ciò possiamo comprendere la portata del Decalogo come manifestazione primordiale del dono che Dio ha fatto di sé all’uomo per amore gratuito. L’episodio del giovane ricco fa riflettere sul pericolo in cui si può incorrere: quello di ridurre la vita cristiana a un insieme di norme morali più o meno difficili da osservare; se si considera invece che Dio, non essendo necessitato a creare il mondo, lo ha creato per amore gratuito e si è rivelato all’uomo attraverso l’annuncio di Sé, allora si comprende che Egli è diventato DIO CON NOI, donazione irrevocabile e indefettibile cui, da parte dell’uomo, fa riscontro l’esperienza di un incondizionato amore verso la creatura e della passione eterna di donarsi che attende solo che l’uomo corrisponda.
Perciò i 10 Comandamenti, che già nell’ottica ebraica sono espressione di quel donarsi, di quel compromettersi di Dio con l’uomo che dà origine alla storia, nell’ottica cristiana si traducono nella constatazione di fede che Dio non chiede nulla all’uomo che non abbia già fatto Lui stesso per primo:
sei stato amato, ama; sei stato perdonato, perdona; sei stato liberato, libera; se il Maestro ha lavato i piedi ai suoi discepoli, anche tu puoi farlo ai tuoi fratelli. La risposta dell’uomo che crede e aderisce alla proposta di amore di Dio è il vertice dell’atto di fede.
Infatti, Gesù interpreta il Decalogo alla luce dell’amore verso Dio e verso il prossimo: “
il primo Comandamento è: amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, tutta la tua anima, tutta la tua mente; il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso”. Questo primo comandamento è il principio morale supremo assoluto e universale da cui discendono tutte le norme per la prassi concreta.
Non vi è dubbio, perciò, che il Decalogo ha un suo linguaggio di significato e portata universali, immediatamente percepibile in ogni tempo e in ogni paese da qualsiasi essere umano di buona volontà, anche pagano (pensiamo ad Antigone). Perciò esso è e rimane quel grande, unico, insuperabile e insostituibile complesso di genuini valori che, se per la religione giudaica sono la base di tutta la teologia e la vita religiosa, per il Cristianesimo sono forma e condizione della vita cristiana e dell’entrata nel Regno.
Nondimeno, l’esperienza di amore e di fede che l’uomo fa osservando i Comandamenti non è mai acquisita definitivamente: essa è assediata costantemente da alcune minacce che, negli ultimi due secoli, si sono rivelate particolarmente agguerrite. Esse sono, in particolare, l’ateismo, l’agnosticismo e lo scientismo prodotti, tutti e tre, da quell’Illuminismo settecentesco che – per bocca di Voltaire, ferocemente antisemita – voleva attaccare la stessa idea di Dio Creatore dell’Antico Testamento, e del conseguente Decalogo, per giungere a un’umanità liberata dall’ ”
oscurantismo cristiano”; il rifiuto illuminista di una Paternità universale ha avuto per conseguenza il rifiuto di una fratellanza umana universale, nonostante la “
fraternité” rivoluzionaria, sul cui terreno ha facilmente allignato, due secoli dopo, il nazionalsocialismo.
Il secolo XX – nato sulla scia dell’ottimismo positivistico che escludeva qualsiasi ipotesi trascendente, perché non sperimentabile alla luce della “
Scienza”, del “
Progresso” e della “
Tecnica”, che avrebbero dovuto sconfiggere “
il Geova dei sacerdoti”, come dice Giosuè Carducci nell’ “
Inno a Satana” – ha saputo generare, invece, due guerre mondiali e alcune disumane dittature, per non parlare della fine del colonialismo, avvenuto spesso tra guerre sanguinose e nuove dittature, e ha dato luogo, soprattutto, a quel fenomeno che è stato chiamato in termini filosofici l’”
eterogenesi dei fini”, il rovesciamento, cioè, delle intenzioni umane nel loro contrario. La cultura moderna, nata per realizzare il regno della libertà per tutti facendo a meno di Dio, ha creato in realtà quello che Augusto Del Noce chiamava “
il regime della massima oppressione”, soprattutto nei confronti di coloro che non vogliono sacrificare ai miti e ai tabù su cui queste culture si reggono.
La riflessione sull’episodio evangelico del giovane ricco prosegue con la constatazione che l’osservanza dei comandamenti può non bastare: “
Che mi manca ancora?” Siamo arrivati al nucleo centrale della morale cristiana: la
metanoia, un cuore convertito. Qualcosa nel cuore umano tocca l’”
essere” più intimo della persona: quella profonda aspirazione alla pienezza, all’autentica felicità, alla beatitudine “…
quia fecisti nos ad Te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te”, secondo la celebre e poetica affermazione che fa S. Agostino nei primi paragrafi delle “
Confessioni”.
Quel
surplus, quel valore aggiunto che il giovane ricco comprende essere necessario, ma nondimeno irraggiungibile con le sole forze umane, è espresso da Gesù nell’offerta di una nuova vocazione all’amore più perfetto, che si realizza nella sua radicale sequela (“
seguimi”). La risposta paradossale di Gesù (
liberati di tutto e avrai in cielo quel tutto e anche di più) rappresenta la risposta di amore totale, incondizionato e assoluto che Dio chiede all’uomo come risposta al Suo amore creatore e vivificante manifestato nel Decalogo. Una vita feconda nell’unione con Cristo (n. 2074 del Catechismo) si vive praticamente in una conversione continua che vigila su questa unione e l’approfondisce sempre più.
Il
magis di cui parla S. Ignazio di Loyola, quel
“di più”, quel meglio che guida alla salvezza eterna e alla santificazione di ogni giorno, scegliendo la
“porta stretta”, la strada di Cristo, non si può ottenere con le sole forze umane, come pensava l’eretico Pelagio. Seguendo le orme di S. Agostino, che ne ha dimostrato l’errore, la Chiesa insegna che Dio, tramite lo Spirito Santo, diffonde il suo amore su chi crede in Cristo e osserva i suoi comandamenti. Perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Dio.
Ma perché questo buon seme cresca e fruttifichi nell’anima, ciascuno deve ascoltare la parola di Dio e, con l’aiuto della Sua grazia, agire secondo la sua volontà perché, come dice S. Paolo, la carità –vincolo di perfezione e compimento della legge – dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine.
Riassumendo: attraverso l’osservanza dei Comandamenti alla luce del dettato di Cristo, se ne comprende tutta l’attualità, perennità e importanza per ogni tempo e luogo, come pure la loro conformità alla legge naturale; ma si comprende anche l’impossibilità della loro osservanza per la salvezza e santificazione, senza la speciale grazia di Dio.
Io non so se Roberto Benigni sia credente e non mi interessa saperlo; non so se l’impressione che ho tratto dai resoconti della sua
performance sia corretta o no (e in questo spero di essere eventualmente illuminata); so, però, che egli non è un vescovo né un parroco, quindi non posso aspettarmi da lui un discorso di carattere omiletico. Ma so per certo, come ho detto poc’anzi, che un’interpretazione totalmente laica del Decalogo, vale a dire prescindendo dal soccorso della Grazia, non ha mai giovato al progresso dell’umanità.
Redazione
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