ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 28 aprile 2015

Non tutti i preti (e frati) sono uguali !?

Ma un prete deve predicare il Vangelo della vita, non il vangelo della morte



Forse qualcuno, fra coloro che hanno almeno una cinquantina d’anni, ricorderà ancora la complessa, controversa figura di Silvano Girotto, soprannominato, a suo tempo, Frate Mitra: uno strano personaggio, che svolse un ruolo decisivo, a quel che pare, nella cattura dei capi storici delle Brigate Rosse, Renato Curcio e Alberto Franceschini.

Girotto, torinese, classe 1939, aveva un passato alquanto movimentato alle spalle: dopo aver militato nella Legione Straniera, era entrato nell’ordine dei Frati minori, venendo ordinato sacerdote, ed era poi stato inviato, come missionario, nel Terzo Mondo. Si trovava in Bolivia allorché, nel 1971, alcuni reparti dell’esercito, guidati dal colonnello Hugo Banzer Suarez, si ribellarono al legittimo governo del presidente progressista Juan José Torres; in quella occasione, Girotto si unì alle forze popolari che si opposero al “golpe” e partecipò a una battaglia per le strade di La Paz, che lasciò centinaia di morti sul terreno. Dopo la vittoria dei rivoltosi, egli riuscì a passare nel Cile, dove prese il nome di battaglia di “David”, con l’intenzione di proseguire la lotta contro Banzer, dal momento che i resistenti boliviani avevano oltrefrontiera i loro “santuari”. Ma nel 1973 anche il Cile conobbe un colpo di stato militare, quello del generale Augusto Pinochet: e Girotto, per la seconda volta, prese le armi in difesa del regime democratico del presidente Salvador Allende, riuscendo poi a rientrare fortunosamente in Italia, passando per l’ambasciata del nostro Paese a Santiago.
Egli aveva dunque una discreta esperienza di guerriglia sudamericana, allorché, in Italia, si trovò al centro di una vicenda sensazionale e, per certi aspetti, ancora non del tutto chiara: contattato dai Carabinieri nel bel mezzo della sanguinosa stagione terroristica degli “anni di piombo”, si decise, dopo un certo travaglio interiore, a collaborare con le forze dell’ordine per consentire la cattura dei capi storici brigatisti, con i quali era riuscito a mettersi in contatto. Infatti, nonostante le sue simpatie per l’estrema sinistra, era giunto alla conclusione che l’azione delle Brigate Rosse era radicalmente sbagliata, controproducente e immorale.
Quel che ci interessa, in questa sede, non è delineare una biografia completa di quest’uomo singolare (che, in seguito, è rientrato nella normalità: sposandosi, facendo dei figli, andando volontario in una missione cattolica africana, e anche riconciliandosi con Curcio e Franceschini, ai quali aveva chiesto e ottenuto un colloquio chiarificatore, dopo che avevano scontato le rispettive pene detentive), bensì evidenziare una cosa molto importante: la posizione assunta dalla Chiesa cattolica quando “frate mitra” si trovava ancora in Sud America, ma erano giunte relazioni dettagliate sul suo coinvolgimento nella guerriglia boliviana (e, poi, nel tentativo, subito stroncato dai militari, di guerriglia cilena). Era il 1973 e la Curia provinciale dei Frati minori di Torino, mentre lui si trovava in stato di latitanza, decise di espellerlo, puramente e semplicemente, dall’Ordine francescano, con esplicito riferimento alla sua partecipazione alla lotta armata.
Le idee politiche di Silvano Girotto erano sempre state di estrema sinistra; aveva sempre simpatizzato con le lotte operaie e con la galassia del proletariato militante, e aveva anche svolto opera di mediazione fra le autorità e i detenuti di Torino, nel corso di una rivolta carceraria; inoltre, era stato su sua richiesta che i superiori lo avevamo spedito in Bolivia, dove, evidentemente, intendeva continuare a servire gli stessi ideali rivoluzionari. Qui, però, non intendiamo discutere tali ideali, bensì il fatto che un religioso cattolico abbia voluto “incorporarli” nel messaggio evangelico.
Gesù Cristo, per primo, si era trovato alle prese con questo problema: anche ai suoi tempi, in Giudea, esisteva una fazione politico-religiosa, quella degli Zeloti, che predicava e praticava la lotta armata, dura e pura, contro gli occupanti romani e contro le classi egemoni, sadducei e pubblicani, da loro accusate di collaborazionismo. Anche nella cerchia dei suoi discepoli circolavano quelle idee; e Barabba, probabilmente, era un rivoluzionario, del quale il popolo chiese la liberazione, a preferenza di Cristo, proprio in ragione della sua partecipazione alla lotta armata, e quindi della popolarità che aveva fra i suoi compatrioti dell’ala nazionalista e radicale.
Ebbene, Gesù fu sempre estremamente chiaro su questo punto: egli insegnava che non è lecito mescolare le due cose, la conversione al regno di Dio e l’azione politica, specialmente se violenta, mirante ad instaurare la giustizia e la libertà sulla terra; e, quando venne sfidato e provocato nella maniera più esplicita, poco prima di essere arrestato e condannato per opera del Sinedrio, aveva dichiarato, senza mezzi termini, che si deve rendere a Dio ciò che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare. A San Pietro, che cercò di opporsi a mano armata al suo arresto, nell’orto del Getsemani, ordinò di rimettere la spada nel fodero, affermando solennemente che chi di spada ferisce, di spada perisce. Non avrebbe potuto essere più chiaro di così, con buona pace di tutti i cattocomunismi e di tutti i preti progressisti e di sinistra, da sempre propensi a rimescolare le carte e a dichiarare, con estrema disinvoltura, che non vi è alcuna differenza sostanziale fra il Vangelo e «Il capitale» o fra il Vangelo e il «Libretto rosso» del presidente Mao.
Anche nel film «Mission», girato dal regista Roland Joffé nel 1986, e interpretato da Jeremy Irons e Robert De Niro, si tratta la medesima tematica: la difficile scelta di alcuni padri gesuiti nelle missioni del Paraguay, i quali, dopo la cessione di quei territori dalla Spagna al Portogallo, nel 1750, ebbero l’ordine di partire e di abbandonare al proprio destino i “loro” indiani, converti e civilizzati, nelle avide mani dei cacciatori di schiavi. Il fatto è storicamente vero e il bivio morale, davanti a cui si trovarono quei sacerdoti, è stato bene esemplificato nella personalità dei due attori protagonisti: l’uno, il capo della missione, che, fedele al messaggio pacifico e misericordioso del Vangelo, rifiuta di imbracciare le armi e decide di restare accanto agli indios, per condividerne sino in fondo il tragico destino; l’altro, un recente convertito dal passato oscuro e violento, addirittura di mercante di schiavi (ma aveva anche ucciso il fratello, per gelosia, restando poi schiacciato dal rimorso), il quale sceglie la via della lotta armata e cade combattendo, le armi in pugno, contro le truppe regolari dell’esercito coloniale portoghese.
Sia come sia, ciascuno è libero di fare le proprie deduzioni; ma una cosa è chiara: la Chiesa cattolica non ha mai approvato, né tollerato, il fatto che singoli sacerdoti, di propria iniziativa, decidano di entrare a far parte di movimenti di lotta armata, e sia pure originati da legittime richieste di tipo sociale e politico: per costoro, il provvedimento inevitabile è, ed è sempre stato, l’espulsione dalla Chiesa stessa, ed, eventualmente, la scomunica. La Chiesa, nel suo magistero spirituale, ha sempre giudicato che esiste una incompatibilità profonda, radicale, insuperabile e non negoziabile, fra l’appartenenza alla Chiesa cattolica e la scelta di intraprendere azioni di lotta armata, vale a dire azioni sanguinose.
Ed ecco che, dopo l’8 settembre del 1943, l’Italia, la culla della Chiesa cattolica, la sede del Vaticano, si trova scaraventata nel bel mezzo di una tragica guerra civile; e il clero italiano si trova diviso a metà, fra coloro i quali decidono di appoggiare il governo monarchico, rifugiatosi a Brindisi, sotto la protezione degli ex nemici anglo-americani, e quanti decidono di restare fedeli al governo fascista, risorto a Salò e sostenuto, oltre che tenuto in sostanzialmente in ostaggio, dalle forze d’occupazione dell’ex alleato germanico.
Pur fra molte cautele, rese necessarie dalla delicatissima posizione diplomatica in cui viene a trovarsi il Papato, nonché dalla volontà di non precludersi lo svolgimento di un’opera umanitaria fra le popolazioni martoriate dai bombardamenti e dalle rappresaglie, nonché a favore degli Ebrei perseguitati a morte, la Chiesa resta neutrale, spostando, però, gradualmente le sue simpatie verso l’Italia monarchica e antifascista, tanto da abbandonare al loro destino quei sacerdoti, come don Tullio Calcagno (direttore del battagliero e assai diffuso giornale «Crociata Italica», che gode del sostegno, anche finanziario, di Roberto Farinacci) i quali decidono di restare legati al carro del fascismo; e da girare la testa dall’altra parte, alla fine della guerra, allorché alcune decine di preti e religiosi vengono assassinati dai “vittoriosi” partigiani comunisti, specialmente nel tristemente celebre “triangolo della morte” emiliano, in punizione delle loro simpatie politiche per il caduto regime, ma, più ancora, in preparazione della rivoluzione prossima ventura, ciò che consiglia l’eliminazione fisica immediata di tutti quelli che potrebbero opporvisi, viste le loro aperte convinzioni anticomuniste e antisocialiste.
Resta il fatto che parecchi sacerdoti dell’Italia settentrionale, nel corso dei quei venti mesi terribili, fra il settembre 1943 e l’aprile 1945 (ma con una coda sanguinosa per tutto il mese di maggio, e ben oltre), fecero la scelta opposta: offrire il loro sostegno, morale e materiale, ai partigiani; entrare a far parte, generalmente nella forma del supporto logistico e informativo, delle loro bande armate; contribuire perfino alla formazione di esse, come nel caso di Don Giuseppe Faé, parroco del paesino di Montaner, presso Vittorio Veneto, alle pendici dell’Altipiano del Cansiglio. Ed è appunto sulla figura di Don Faè, in quanto paradigmatica di quelle scelte del clero politicamente ”progressista” e antifascista, e anche della decisione della gerarchia cattolica di chiudere entrambi gli occhi davanti non a uno, ma a molti Don Faè, i quali, nel 1943-45, fecero esattamente quello che aveva fatto Silvano Girotto all’inizio degli anni ’70 del Novecento: scelsero di abbracciare la lotta armata. Con la differenza, non piccola, che Girotto, di nazionalità italiana, aveva deciso di unirsi ai guerriglieri di un Paese sudamericano; mentre i preti come Don Faè, italiani, decisero di partecipare alla lotta cruenta contro altri Italiani, fra i quali militavano non solo padri di famiglia, compaesani, ragazzi e donne (come le ausiliarie e le crocerossine delle Forze armate repubblichine), ma perfino altri sacerdoti, religiosi e seminaristi, tutti animati da convinzioni politiche diverse e opposte alle loro, un centinaio dei quali pagò con la vita, quando si giunse alla resa dei conti finale.
La figura di don Faè partigiano, e il clima di mobilitazione, spirituale e materiale, che si respirava attorno a lui, nella sua canonica, nell'intero paese di Montaner, è stato rievocato, con accenti tanto più verosimili, quanto più ingenui, in un romanzo scritto "a caldo", ma passato praticamente inosservato, di stampo autobiografico, appartenente quasi più al genere della memorialistica che a quello della narrativa vera e propria: «Domani può essere l'ultimo giorno», di Ippolita Fanna Sommer (Milano, Gastaldi Editore, 1949, pp. 70-73):

«Stefano [uno dei protagonisti della vicenda, che ha deciso di unirsi ai partigiani] trascorre ogni giorno più ore nell'ospitale canonica. L'entusiasmo di don Faè e dei ragazzi che si stringono intorno a lui come aspettandone il verbo, lo stordiscono ora ubriacandolo di ottimistica fede, ora piombandolo nella perplessità che si prova dinnanzi a un'utopia. [...]
Intanto nella casa colonica è un andare e venire continuo: gioventù eccitata che parla inveendo e rimasticandosi appena, per un riguardo alla veste del parroco, gli improperi meno ortodossi. E fioccano ogni giorno in canonica ospiti nuovi; sono prigionieri inglesi che bisogna rifocillare prima di rimettere sulla buona strada che, per il Timavo, dalla Carnia, li condurrà al confine jugoslavo; e sono italiani di ogni regione, perplessi della loro sorte, incerti, sbandati. Poi ci sono gli ospiti fissi, e sono per la più parte i giovani della zona pedemontana. Questi hanno preso alloggio nelle malghe soprastanti a Montaner e già si dispongono a organizzarsi sotto la guida di Pagnoca [alias Giovanbattista Bitto, sottotenente degli alpini, che, insieme a don Faè, stava organizzando il gruppo delle brigate garibaldine "Vittorio Veneto"],   un ragazzo di una squadratura spirituale non comune, rude e sentimentale a un tempo, da null'altro animato che da un amor di patria adamantino, assolutamente immune da partitismi: un puro. 
Né si può dire che il parroco del paese, Don Faè, sia di tutti il meno irruento. Sembra che gli siano entrate in corpo sette anime supplementari ed è indubitato che la sua fede nella causa partigiana ha trovato i lui il più tempestoso apostolo. Sessant'anni, ma il suo ardore è quello della prima giovinezza che ignora la delusione e a priori ne respinge lo spettro.
- Morte ai fascisti? - sottilizza qualche volta come colto da scrupolo di coscienza quando uno dei ragazzi, sbattendosi alle spalle l'uscio della canonica, gli getta allegramente in faccia il saluto partigiano. - Ciò, i saria italiani anche loro, sti fioi de... -Ma nella sua chiesa tuona, dal pulpito, metafore più trasparenti dell'acqua e i partigiani che lo adorano tremano tutti per lui. Finito di dir messa, Don Faè bada a rassicurarli: - Gente di poca fede - dice trapassandoli con lo sguardo levato al di sopra delle lenti, - dove lo mettete Don Bosco? Quello si è preso sotto la sua santa tutela paese e paesani, e vedrete se sa tener duro. Niente paura, niente paura.
La cucina, dove il focolare sta acceso in permanenza dietro a una costellazione di mollettiere, di calzarotti e di scarponi fumiganti, affaccia l'unica finestra sul digradare dei vigneti spogli che raggiungono in basso la pianura. Un presidio repubblichino si è stanziato proprio lì sotto, al Sifone di Caneva, e, a turno, una compagnia tedesca vi presta buona guardia. Questa, della guardia tedesca, è la ragione per la quale ogni volta che Don Faè si pianta a braccia conserte dietro i vetri, una specie di ruggito, col quale egli vuole aver l'aria di schiarirsi la voce, gli sfugge suo malgrado. I "Todeschi" non gli vanno giù; troppo per i piedi li ha avuti durante la sua vita, sempre uguali uguali a sé stessi e sempre generatori di guai e insomma è ora di finirla una buona volta: se ne tornino in "todescheria" o vadano all'inferno.
Alto, magrissimo, dai lineamenti adunchi, don Faè fa pensare a un falco anche per gli occhi che, lievemente ravvicinati, egli ha penetranti e magnetici come quelli di certi uccelli solitari. Con quegli occhi aggredisce ogni nuovo arrivato, non già per negargli il conforto di una fetta di polenta (di quella, grazie a Dio, non manca mai per nessuno sul desco della canonica) ma col timore di dover negare a sé stesso il compiacimento di un nuovo compagno di fede pescato nel marasma. Solo questo conta, per Don Faè. Per il resto, cosa è mai una fetta di polenta, pure in giorni di fame nera? Mai come adesso la parabola cristiana del giglio cui Dio provvede si è dimostrata mirabile verità: Giovannina non arriva a casa un giorno a mani vuote e sono più le mattine nelle quali scende a valle per battere la campagna chiedendo viveri ai contadini, che quelle nelle quali resta a casa a far rasciugar le giubbe dei ragazzi e a rattoppare i loro poveri stracci. Coi suoi capelli grigi e i suoi cinquant'anni suonati, certo è solo il suo Dio che l'aiuta a portarsi sulle spalle esilissime, su per il viottolo in salita, pesi che superano il peso della sua piccola persona, ché Giovannina è fatta unicamente di coraggio e di bontà e, quanto a fisico, è "un nulla, un pretesto perché un'anima possa rimanere imprigionata sulla terra".
Duro, durissimo inverno è stato quello tra il quarantatre e il quarantaquattro: lei ha saputo renderlo quasi dolce col suo cuore materno, col suo silenzioso spirito di carità. Dove è finita, adesso, povera donna? Tre mesi prima, nel marzo, i "todeschi" sono venuti ad arrestarla insieme col fratello.»

Come si vede - anche se si tratta di un romanzo a forte componente memorialistica, e non di una testimonianza storica diretta – Don Faè era ben conosciuto per le sue idee politiche, che esprimeva nelle sue funzioni di sacerdote, perfino in Chiesa: in tempi di guerra civile, invece di predicare la riconciliazione e il perdono delle offese, incitava alla lotta armata e si adoperava attivamente per organizzarla; con l’aggravante del suo odio antitedesco, che, se in un laico può essere considerato un pregiudizio come tanti, in un uomo di Dio, che dovrebbe considerare tutti le anime e tutti i popoli come uguali davanti a Dio, stride terribilmente.
La sorella di Don Faè venne deportata in Germania e morì in un campo di concentramento; lui venne salvato dall’intervento dell’arciprete di Pordenone, Giocchino Muccin (poi vescovo di Feltre e Belluno), suo amico, il quale si recò a Udine, presso le autorità germaniche, e ottenne salva la sua vita, a patto che si ritirasse, come fece, nel seminario vescovile di Vittorio Veneto, e vi rimanesse per tutta la durata della guerra. Questo gli valse, presso i suoi devoti parrocchiani, l’appellativo di Don Galera (ben mite galera!), del quale andava assai fiero, e gli permise, a guerra finita, di essere considerato un vero eroe, idolatrato dalla popolazione, ma specialmente dagli ambienti politici della sinistra, che vedevano in lui la perfetta figura del “compagno prete”. La povera Giovannina, morta in un “lager” per avere assecondato le idee politiche del fratello, più che altro procurando cibo e offrendo ospitalità, in canonica, ai partigiani, non ebbe santi in Paradiso a tirarla fuori dai guai: lei ci rimise la vita e venne, a sua volta, considerata santa e martire dalla popolazione (fu anche scritta e pubblicata una sua piccola biografia di tipo agiografico e quasi devozionale). Ci chiediamo, però, se neanche un po’ di rimorso sia mai venuto a turbare i pensieri del suo celebre e riverito fratello...
di  Francesco Lamendola

Francesco Lamendola


Francesco Lamendola è nato a Udine nel 1956. Laureato in Materie Letterarie e in Filosofia, è abilitato in Lettere, in Filosofia e Storia, Filosofia e Pedagogia, Storia dell’Arte, Psicologia Sociale. Insegna nell’Istituto Superiore “Marco Casagrande” di Pieve di Soligo, di cui è vicepreside. Ha pubblicato una decina di volumi, tra cui “Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C.”, “Il genocidio dimenticato. La soluzione finale del problema herero nel sud-ovest africano”, “Metafisica del Terzo Mondo”, “L’unità dell’Essere”, “La bambina dei sogni e altri racconti”, “Voci di libertà dei popoli oppressi.” Collabora con numerose riviste scientifiche (tra cui “Il Polo” dell’Istituto Geografico Polare e “L’Universo” dell’Ist. Geogr. Militare) e letterarie, su cui ha pubblicato oltre un centinaio di articoli. Tiene conferenze per la Società “Dante Alighieri” di Treviso, per l’”Alliance Française”, per l’Associazione Italiana di Cultura Classica, per l’Associazione Eco-Filosofica, per l’Istituto per la Storia del Risorgimento e per varie Amministrazioni Comunali, oltre alla presentazione di mostre di pittura e scultura.


In redazione il 23 Aprile 2015

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