ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 13 giugno 2015

Un G2 a scacchi ?

Bergoglio tra Putin e gli scout: da balla con 

l'orso a balla coi lupetti


Esperti a riconoscere le tracce ancora fresche, i centomila lupetti e scout che invadono San Pietro in un sabato afoso di giugno, con il loro bestiario kiplinghiano di Akela e Balù, direttamente dal libro della giungla, chiudono in un’atmosfera rilassata e festosa la settimana concentrata e tesa, in cui sul suolo vaticano ha mosso i propri passi un orso vero, venuto dal freddo: Vladimir Putin, felpato e possente, nel tête à tête più lungo del pontificato. Un esemplare magnifico ma impegnativo, pure per un papa che si chiama Francesco. Da balla coi lupi a balla con l’orso.

L’uomo in bianco e “l’uomo nero” si sono ritrovati dopo un anno e mezzo, nell’orizzonte appannato della crisi ucraina, in una sintesi cromatica che volge al grigio, rispetto allo splendore, e candore, del first date: il primo appuntamento del novembre 2013. Come amori mancati che, incontrandosi, nascondono artisticamente il disagio, staccando un sorriso di maniera dai quadri manieristi delle pareti e incollandolo al viso. Poi però non resistono e rimangono lì a chiarirsi, senza rancore ma con rimpianto, al pensiero di quello che poteva essere e non è stato. Pazienza. O anzi, forse, meglio così. Pericolo scampato.
Il colpo di fulmine era scattato per entrambi, Bergoglio e Putin, biblicamente sulla via di Damasco, luogo di folgori divine e conversioni estreme, appena in tempo per scongiurare l’apocalisse, all’inizio di un settembre memorabile, di veglie e vertici, tra San Pietro e San Pietroburgo, alzando la barriera contraerea dei media e sbalzando a terra le cavallerie alate di Barack Obama, emulo in pari grado del generale Custer e Paolo di Tarso, missili e lance in resta, deciso a liquidare una volta per tutte il tiranno Assad. Con un transfert improvvido al Near East, nel ginepraio mediorientale, della logica semplificata del Far West: nello sforzo maldestro di sovrapporre il saloon al suk, il Manifest Destiny a un destino nefasto. E regalando chiave in mano la Siria allo Stato Islamico.
Allora fu Francesco ad appellarsi a Putin, mentre adesso è quest’ultimo, a parti invertite, ma tutti e due con identico scopo: fermare Obama e dissuaderlo, dai droni e dalle sanzioni. Nel frattempo l’orso russo ha però gettato la maschera ed è tornato a calcare la scena domestica, nel ruolo antico e atavico, iscritto nella storia e ispirato dalla geografia: non già lo sceicco bianco, sogno - e miraggio - che si materializza nel deserto iracheno, quanto piuttosto il cosacco del Don, che realizza il disegno zarista nel granaio ucraino.Il magnetismo dell’ “Estero Interno”, nelle priorità del Cremlino, fa premio sul richiamo dell’ “Oriente Esterno”. La determinazione di riunire i russi alla madre patria, tra Crimea e Caucaso, prevale sulla missione di proteggere i cristiani, da Betlemme a Mossul.
Dal Pontefice, Putin non si attendeva né pretendeva pertanto un remake delle Sante Alleanze, a due secoli da Metternich, per puntellare un’Europa che implode e rifondare un Medio Oriente che esplode, bensì un congruo anticipo sull’indulgenza giubilare, a sei mesi dall’apertura della Porta Santa, per non chiudere bottega e affondare economicamente. Non dunque il partenariato strategico, che da improbabile si fa improponibile, ma l’exit strategy di una photo opportunity, per sortire dall’angolo in cui è relegato. Compensando e surclassando il G 7 ordinario con uno straordinario G 2, da fare invidia alla manovella di Sergio Leone: Città Leonina versus castello di Baviera. Jorge Bergoglio e Vladimir Vladimirovič, il buono e il cattivo, l’uomo più potente secondo Forbes e quello più popolare secondo Time, i detentori del soft e dell’hard power, alla potenza massima e in modalità inversa, quindi complementare. Dimenticando tuttavia che meno per più fa comunque meno, al cinema come in algebra.
Cinquanta minuti di confronto tra Putin e Francesco equivalgono alla finalissima di un mondiale di scacchi: lo sguardo più penetrante del pianeta opposto a quello più impenetrabile del globo. Non solo grandi scenari, ma regia di primi piani, dove la posta per la barca di Pietro è un approdo sulle rive della Moscova. Un traguardo che nell’immediato impone la necessità di non arenarsi, cosa che non riuscì, loro malgrado, ai timonieri Wojtyla e Ratzinger, respinti dalla reggia del Cremlino e dalla torre ortodossa del Patriarcato, le quali notoriamente muovono, e manovrano, insieme, pronte e solerti a irrigidirsi e infliggere arrocchi.
La Santa Sede persegue dunque, al momento, un obiettivo minimo, seppure non minimale, che il Papa e il cardinale Parolin hanno centrato con una duplice, non semplice mossa, in un mix di politica spettacolo e Real Politik. Offrendo a Putin la più alta ribalta mediatica e mantenendo un profilo altrettanto basso sull’Ucraina, che in questo caso, verosimilmente, ha continuato a rappresentare una chiesa “del silenzio”, pagando al proprio fato un tributo aggiuntivo e ingrato.
L’uniatismo, dal nome degli ucraini dell’Ovest che, trovandosi nella zona d’influenza di Vienna e Varsavia, optarono per l’abbandono dell’Ortodossia, nell’anno del Signore 1596, tornando all’obbedienza del romano pontefice, costituisce agli occhi di Putin, e del patriarca Kirill, il peccato originale e originante, la matrice religiosa, prima che politica, della spaccatura in due dell’Europa. Fu quello per l’ex colonnello del KGB, il primo “trattato di associazione” alla UE, con sorprendenti convergenze tra economia e liturgia: come gli Uniati, detti a riguardo greco - cattolici, si aggregarono a Roma portando in dote l’abito nuziale del rito bizantino - slavo, senza sottomettersi alla regola del celibato ecclesiastico, così l’Ucraina convola oggi al fidanzamento con l’Occidente, ma senza officiarne la liturgia burocratica e, specialmente, osservarne la castità monetaria.
La costituzione di due Ucraine, con buona “pace” degli accordi di Minsk, destinati a rimanere sulla carta, conclude drammaticamente un processo millenario di assestamento geopolitico e recide drasticamente il nodo gordiano, attraverso una scossa di magnitudo bellica, sancendo una nuova e significativa divisione tra Est e Ovest, non più su base ideologica, bensì spirituale: da Dublino al Cremlino.
Da quella faglia, sismica e confessionale, emergono e si stagliano due cristianesimi, forieri di contraddizioni all’interno e fautori di contrapposizioni all’esterno. Da una parte un Occidente secolarizzato e referendario, che nell’impeto di allargare il terreno dei diritti estremizza e rovescia il “Date a Cesare”, fondamento evangelico della laicità, relativizzando “l’ingerenza” della fede e confinandola nel recinto della morale privata. Dall’altra un Oriente radicalizzato e identitario, che nell’intento di consolidare l’edificio del potere attualizza e risuscita il cesaropapismo, complemento energetico dell’autorità, rivitalizzando la presenza della religione e integrandola nella cornice dello stato etico.
Il piano prospettico di Putin, in definitiva, non prevede di restaurare l’URSS, giudicata “in – continente” alla stregua dell’Europa comunitaria, ma di instaurare un papato secolare, in grado di offrire un amalgama e un riferimento alle destre vecchie e nuove: dai lepenismi ai leghismi, dagli autonomismi ai centralismi. Un colloquio di cinquanta minuti, del resto, si riserva usualmente ai leader delle chiese, non degli stati: la Santa Madre Chiesa e la Santa Madre Russia, per l’appunto. Da un lato il profeta della democrazia sostanziale, affrancata dal giogo dei poteri forti, dall’altro l’atleta della democradura formale, affiancata dal culto dell’uomo forte.
Eredi di Pietro I l’apostolo e Pietro I Romanov, rispettivamente pescatore di uomini e costruttore di navi, Francesco e Putin teorizzano, e catechizzano, due Europe distinte, distanti, che da ottobre potrebbero peraltro allontanarsi ancora di più, tra le aperture papali e le chiusure imperiali alle coppie gay, dettate da due opposte visioni della coesione sociale: poliedrica o sferica, fondata sulla diversità o sull’omogeneità dei costumi. Con il rischio di una divaricazione tra il cammino sinodale e il cammino ecumenico. E l’eventualità, per il cattolicesimo, di subire anch’esso un aggravamento delle “sanzioni”, se non addirittura un embargo “dottrinale”. Un blocco che il Papa cerca di bypassare affidando al metropolita di Pergamo, teologo di punta dell’Ortodossia, la presentazione, e penetrazione “commerciale”, del prossimo e innovativo vettore ecologico del suo magistero, l’Enciclica verde, “Laudato Sii”.
Non solo. Nel “terzo giorno” dall’incontro con Putin, la proposta di unificare le date di Pasqua, rilanciata ieri dal Laterano, reca in sé un monito ultimativo: come dire che ci saranno pure due Europe, ma la prospettiva, e possibilità, di risorgere rimane unica per entrambe. Pena, in alternativa, un altro secolo all’inferno, fra il baratro e il sepolcro.
Avvezzo a ballare coi lupi, Francesco sa di non potersi sottrarre alla danza con l’orso russo, garante e gigante geopolitico dell’Oriente ortodosso. Un abbraccio “asimmetrico”, come abbiamo scritto: che si lascia dietro la levità volatile, reversibile, del valzer, specialità della diplomazia pontificia, e si trasferisce sulle piste del tango, specialità del pontefice argentino: dove ogni passo configura inesorabile uno strappo e bisogna ballare stretti, ma non troppo, per conservare l’iniziativa e non farsi stritolare dall’orso.
Piero Schiavazzi, L'Huffington Post
http://www.huffingtonpost.it/2015/06/13/papa-francesco-scout-putin_n_7576516.html?utm_hp_ref=italy

Due chiese verso l’unità. Gli scogli lungo la strada 
 Corriere della Sera 
(Sergio Romano risponde alla domanda di un lettore 
Domanda: In occasione della visita di Putin in Vaticano viene riproposto l’annoso problema del riavvicinamento delle due Chiese, quella ortodossa di Mosca e quella di Roma, cui sia Putin che il Papa terrebbero molto. In un breve intervento su Rai 3, l’esperto di questioni moscovite Fabrizio Dragosei ha accennato che fra gli ostacoli che si frapporrebbero al detto riavvicinamento, quelli dottrinari non sarebbero forse i più rilevanti. Di non minore portata sarebbero diversi contenziosi di natura economica. Potrebbe trattarne brevemente? (Giorgio Coccagna)
(Risposta di Sergio Romano) Caro Coccagna, Qualche anno fa un nunzio apostolico mi disse che il problema maggiore, nei rapporti della Chiesa cattolica con l’Ortodossia, fu sempre quello del primato del vescovo di Roma, vale a dire della posizione che il Papa avrebbe avuto nell’ambito di una Chiesa riunificata. Ma aggiunse che vi erano state alcune proposte e che la questione sembrava essere meno spinosa di quanto fosse stata in passato. Credo, tuttavia, che esista un altro problema, forse più delicato.
La storia della Chiesa cattolica è stata alquanto diversa da quella della Ortodossia. Mentre il papato romano voleva essere universale e cercò di non legare mai la propria esistenza a un rapporto fiduciario ed esclusivo con gli Stati in cui esercitava il suo apostolato, le Chiese ortodosse si proclamarono autocefale, e ciascuna di esse divenne l’autorità religiosa di una particolare comunità territoriale. Il mondo ne ebbe una dimostrazione quando Pietro il Grande, imitando alcune caratteristiche della Chiesa Anglicana, soppresse il Patriarcato di Mosca e creò un Santo Sinodo composto di ecclesiastici nominati dallo zar (fra cui il Metropolita di Mosca). Alla testa del Sinodo vi sarebbe stato, in rappresentanza dell’imperatore, un laico con la carica di Procuratore superiore. La rivoluzione del 1917 abolì il Sinodo e permise il ritorno al Patriarcato, ma le autorità sovietiche imposero alla Chiesa, per più di due decenni, misure fortemente restrittive e la rinchiusero in una sorta di sostanziale clandestinità. La situazione accennò a cambiare nel 1941, quando Stalin capì che la Chiesa russa poteva assicurare allo Stato, durante la Grande guerra patriottica, una maggiore partecipazione popolare. Pagò il debito, dopo la fine del conflitto, permettendo alla Chiesa ortodossa d’impadronirsi dei beni degli uniati (i greco-cattolici) in quei territori dell’Ucraina occidentale che erano stati per molto tempo polacchi o austriaci.
Qualcosa del genere accadde anche dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Boris Eltsin cercò di lusingare Roma restituendo agli uniati i beni perduti cinquant’anni prima; ma fu largo di concessioni, anche economiche, al Patriarcato e alla Chiesa ortodossa. La Chiesa moscovita gliene fu grata ristabilendo con lo Stato russo un rapporto simile, per molti aspetti, a quello instaurato da Pietro il Grande. I nuovi esponenti dello Stato russo, spesso usciti dai ranghi del partito comunista, divennero quasi tutti ferventi ortodossi dando prova di zelo religioso nelle pubbliche funzioni. Le ricordo, caro Coccagna, che i solenni funerali di Eltsin, nell’aprile del 2007, ebbero luogo a Mosca nella Chiesa di Cristo Salvatore, l’enorme edificio sulle rive della Moscova che era stato costruito agli inizi del Novecento in memoria della vittoria su Napoleone e che Stalin aveva fatto distruggere negli anni Trenta con una spropositata dose di dinamite.
Fra Chiesa e Stato in Russia vi sono quindi rapporti di reciproca convenienza non troppo diversi da quelli che nell’Impero bizantino andavano sotto il nome di «sinfonia». La Chiesa benedice lo Stato ogniqualvolta il regime ne ha bisogno, e lo Stato asseconda volentieri la Chiesa quando le permette di esercitare una sorta di monopolio religioso e di vigilare affinché la Russia non ceda ai costumi «immorali» diffusi ormai nel peccaminoso Occidente. Se il dialogo fra il Patriarcato di Mosca e la Santa Sede romana continuerà, sarà interessante scoprire quali siano i punti su cui le due Chiese possono accordarsi e quelli su cui continueranno a dissentire.
Corriere della Sera, 14 giugno 2015

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