GIACOMO BIFFI: PENSIERI LIBERI DI UN GRANDE UOMO DI CHIESA
La morte dell’ottantasettenne cardinale-arcivescovo emerito di Bologna (milanese di nascita e di spirito), avvenuta l’11 luglio alle 2.30, ci ha spinto a ritrovare una parte della sua numerosa pubblicistica, di forte stimolo per il cristiano (e non solo) che voglia vivere la propria testimonianza nelle difficili contingenze attuali. Per ricordarlo secondo verità non c’è modo migliore che riproporre alcuni (pochi) passi dei suoi scritti, attuali come non mai.
Letture e attenzioni (da ‘Annotazione previa’ in “Pinocchio, Peppone e l’Anticristo e altre divagazioni”, ed. Cantagalli, Siena, 2012): Le mie attenzioni e le mie letture hanno spesso sconfinato dai ‘sacri recinti’. Non mi sono mai limitato a occuparmi soltanto di teologia e di pastorale, di opere patristiche e di documenti conciliari. Tuttavia le divagazioni (…) a dire il vero sconfinavano sì dall’ambito rigorosamente ecclesiastico, ma non da quello della vita evangelica e della contemplazione della verità che salva: Collodi, Guareschi, Solovev, Chesterton, Bacchelli, Tolkien – tutti ‘laici’ nel senso migliore e più autentico del termine – mi hanno fatto davvero crescere nella ‘intelligenza della fede’. Anche la conoscenza un po’ ravvicinata – al di là dei luoghi comuni e dei giudizi ‘politicamente corretti’ – di avvenimenti apparentemente ‘mondani’, come la Rivoluzione francese e il Risorgimento, mi hanno aiutato ad aderire con maggiore consapevolezza al disegno provvidenziale del Padre e alla signoria di Cristo., Re dell’universo, della storia e dei cuori.
La Volpe e il Gatto (ibidem, “Carlo Collodi ovvero Il ‘mistero’ di “Pinocchio”, saggio del 2002 rivisto e rielaborato): (In ‘Pinocchio) ci sono anche i ‘cattivi’ tra quanti ci capita di incontrare. Collodi su questo non ha alcun dubbio. La sua fantasia li rappresenta quasi esemplarmente nelle pittoresche figuire della Volpe e del Gatto; figure indimenticabili e artisticamente attraenti, ma descritte in una malvagità che non ha attenuanti, e perciò come immeritevoli di ogni pietà.
“Abbi compassione di noi!”, dicono alla loro antica vittima nell’ultima apparizione, quando sono ormai ridotti all’estrema indigenza; ma a Pinocchio viene messa in bocca ripetutamente una risposta irridente: “Addio, mascherine!”. L’autore li inchioda dunque alle loro responsabilità personali; non ricerca spiegazioni al loro deplorevole comportamento nella struttura ingiusta della società o in qualche trauma infantile o in qualche alterazione psichica.
Tra i ‘cattivi’ la Volpe e il Gatto però non sono i peggiori. Non intendono corrompere e indurre al male; mirano piuttosto a ingannare gli innocenti a proprio vantaggio, cercando di cavare profitto dalla loro semplicità: essi sanno che la ‘dabbenaggine’ è spesso la caratteristica delle ‘persone dabbene’.
L’Omino mellifluo (ibidem): Il Gatto e la Volpe sembrano impersonare una cattiveria che non eccede la nostra realtà naturale. (…) Ma il Collodi, con sorprendente vigore speculativo, si eleva fino a mettere in campo una forza perversa trascendente, quasi una potenza assoluta di male, che non attenta più soltanto alle ‘cose’ dell’uomo, bensì all’uomo stesso, derubandolo addirittura della sua stessa identità, aliena dolo e snaturandolo fino a fargli perdere la sua dignità originaria.
Questa forza perversa trascendente è raffigurata dall’Omino che trascina i ragazzi al Paese dei balocchi: egli è magistralmente delineato come un alacre e sempre desto ministro del male e come un persuasore convincente dalla “voce carezzevole, come quella di un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa”. IN realtà, egli si rivela alla fine un tiranno crudele e uno sfruttatore implacabile dei malcapitati che riesce a raggiungere e ad acquisire. (…) (L’Omino) assume connotati inattesi: non ostenta niente di repellente e di spaventoso; al contrario è tutto rivestito di bontà e di dolcezza. Non si propone di incutere terrore, ma di lusingare e di sedurre. (…) Oseremmo pensare che in tutta la cristianità, tra le varie raffigurazioni artistiche e letterarie del nemico dell’uomo che sono state immaginate, non ce n’è una più originale, più alta e più vera di questa.
Don Camillo e Peppone: il sì sì, no no (ibidem, “Giovanni Guareschi ovvero la teologia di Peppone”, commento del 1999, rielaborato, a due racconti di Guareschi): (Nell’ “Anonima”) viene affrontato esplicitamente il problema – serio e rilevante per Guareschi – del rapporto tra il servizio alla verità e la tirannia delle esigenze letterarie. Peppone l’avverte come qualcosa di intrigante e addirittura di angoscioso. “la letteratura – egli dice – è una porca faccenda che serve soltanto a imbrogliare le idee, perché va a finire che uno, invece di dire quello che vorrebbe lui, dice quello che vuole la grammatica e l’analisi logica”. “Adesso parli giusto”, gli osservò don Camillo (che qui è senza dubbio portavoce dell’autore). “Ha bisogno di molte parole – gli dice ancora – chi deve mascherare la sua mancanza di idee o chi deve mascherare le sue intenzioni”.
Viene allora a proposito l’idea di Peppone, che è di cancellare dal vocabolario tutte le parole che sono in più: ce ne sono troppe rispetto al numero delle cose da dire. Al momento egli non ci pensa, ma in fondo il suo è lo stesso parere di Gesù Cristo che ha detto: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”.
Bisogna riconoscere che dal tempo di Guareschi (NdR: Anni Cinquanta del Novecento) nell’uso del linguaggio c’è stato perfino un peggioramento. Sicché oggi l’inizio obbligato della nostra redenzione sociale sarebbe quello di cominciare a chiamare le cose soltanto con il loro nome, senza camuffamenti verbali e senza quelle inutili prolissità che spesso finiscono coll’essere messe a servizio dell’ambiguità e della confusione.
E’ per esempio strano (ma non tanto) che la famosa legge 194 – con la quale si è legalizzato e pubblicamente finanziato l’aborto – si intitoli con bella sfacciataggine legge per la tutela della maternità. O che ci si dimentichi che per indicare la convivenza more uxorio di due persone non sposate, la lingua italiana abbia già la parola univoca e pertinente che è il ‘concubinato’, senza che ci sia bisogno di perifrasi imprecise e un po’ alienanti come ‘unioni di fatto’ o ‘unioni affettive’.
Don Camillo e Peppone: il dialogo (ibidem): Quelli di Guareschi sono senza dubbio personaggi ‘preconciliari’; ma nessuno potrebbe affermare che non ci sia dialogo tra don Camillo e Peppone. Il dialogo è anzi la sostanza stessa della loro leggendaria vicenda. Ogni giorno essi si incontrano, si confrontano, misurano con straordinaria libertà le loro rispettive convinzioni.
Ma don Camillo (…) non si sogna neppure di pensare che per dialogare efficacemente dobbiamo, come oggi si sente dire, “guardare a ciò che ci unisce e non a quello che ci divide”. (…) Egli sembra sicuro (e Peppone con lui) che sia vero il contrario, almeno quando ciò che ci differenzia e ci contrappone non è motivato e connotato dal capriccio e dal puntiglio, ma dall’amore per la verità e la giustizia. (…) Appunto per questo bisogna anche dire che il dialogo per come è tratteggiato da Guareschi appare evangelicamente giusto e fruttuoso. La salvezza dei fratelli non verrà dalla capacità degli uomini di Chiesa di schivare con mondana eleganza ciò che può inquietare e pungere una pace delle coscienze obiettivamente infondata e non generata dalla verità; potrà venire solo da una limpida e coraggiosa testimonianza resa, per amore del prossimo, alla luce salvifica di Dio.
Valori assoluti e valori relativi (ibidem, “Vladimir Sergeevic Solovev ovvero La profezia dell’Anticristo”, saggio del 1991 arricchito e rielaborato): Ci sono dei valori assoluto (o, come dicono i filosofi, trascendentali): tali sono, ad esempio, il vero, il bene, il bello. Chi li percepisce e li onora e li ama, percepisce, onora, ama Gesù Cristo, anche se non lo sa e magari si crede anche ateo, perché nell’essere profondo delle cose Cristo è la verità, la giustizia, la bellezza.
Ci sono valori relativi (o categoriali), come il culto della solidarietà, l’amore per la pace, il rispetto per la natura, l’atteggiamento di dialogo, ecc… Questi meritano un giudizio più articolato, che preservi la riflessione da ogni ambiguità. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale e informale a Cristo e al suo mistero. Ma se nella sua attenzione essi si assolutizzano fino a svellersi del tutto dalla loro oggettiva radice o, peggio, fino a contrapporsi al’annuncio del fatto salvifico, allora diventano istigazioni all’idolatria e ostacoli sulla via della salvezza.
Se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene stempera sostanzialmente il fatto salvifico nella esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari, allora egli si preclude la connessione personale con Figlio di Dio crocifisso e risorto, consuma a poco a poco il peccato di apostasia, si ritrova alla fine dalla parte dell’Anticristo.
GIACOMO BIFFI: PENSIERI LIBERI DI UN GRANDE UOMO DI CHIESA – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 16 luglio 2015
Da ragazzi andavamo a Venegono
La grande scuola teologica in cui si formò il cardinale Biffi e quell’antica stima di Ratzinger
Il cardinale Giacomo Biffi è morto sabato all’età di 87 anni
A ogni votazione ricevo sempre un solo voto. Se scopro chi è che si ostina a votarmi giuro che lo prendo a schiaffi”. L’aneddoto è gustoso, probabilmente non apocrifo, ed è stato ricordato da più di un vaticanista negli articoli dedicati al cardinale Giacomo Biffi. E’ un aneddoto legato al Conclave del 2005, il 19 aprile per la precisione, il giorno dell’elezione di Joseph Ratzinger. Durante il pranzo, l’arcivescovo emerito di Bologna è sinceramente irritato, si sfoga con un confratello: “Giuro che lo prendo a schiaffi”. Sembra una scena di “Habemus Papam” di Nanni Moretti. Il cardinale che sta seduto di fronte a lui gli spiega: “Eminenza, ormai è chiaro chi stiamo eleggendo come nuovo Papa ed è anche abbastanza evidente che questo candidato abbia scelto di votare per lei. Quindi se vorrà ancora mantenere il suo proposito sarà costretto a prendere a schiaffi il Papa”. Ratzinger votava per lui, con decisione e con affetto. E due anni dopo lo inviterà a predicare gli Esercizi spirituali alla Curia romana. Il loro rapporto di stima non è mai stato del resto un segreto, a prescindere dagli aneddoti di Conclave. Sul fondamento profondo, intellettuale, del loro legame – oltre alla comune fede, ovviamente – si tende spesso a equivocare, o a operare un certo riduzionismo. Sono due grandi conservatori, due principi della chiesa che hanno passato la vita a fare a botte con la modernità e con le deviazioni dello “spirito del Concilio”. Il che in parte è vero, in parte non spiega l’originalità di una storia (di due percorsi) che ha segnato in profondità la vicenda della chiesa – italiana e non solo – della seconda metà del Novecento. Una storia che ha un punto di partenza particolare, per Biffi.
“I miei occhi sono stati subito abbagliati da Venegono. Di colpo ho avuto il presagio di quanto dovesse essere alto il compito che attendeva la mia piccolezza e quanto sovrumana la bellezza del destino che il Signore voleva assegnare. C’era di che restare incantati”. Nelle sue “Memorie e digressioni di un italiano cardinale”, la lunga e – va da sé – gustosa autobiografia che l’editore Cantagalli pubblicò nel 2007, Giacomo Biffi rievoca lo stupore del suo primo impatto con questa “quasi abbazia”, il Seminario Maggiore della diocesi di Milano, che sorge a Venegono Inferiore, nel varesotto. E’ il luogo della sua formazione al sacerdozio, in cui avrebbe trascorso otto anni. Ma non è soltanto questo. Venegono, per chi conosca un po’ la storia della chiesa, non solo ambrosiana, significa molto di più. Il vecchio “italiano cardinale” rievoca, per supplire alle parole mancanti al suo stupore di ragazzo, le parole di un altro futuro arcivescovo, anzi del “suo” futuro arcivescovo di Milano, Giovanni Colombo, che era allora un prete trentaduenne, insegnante di Letteratura italiana in seminario e alla Cattolica, e che il 12 maggio 1935 era stato incaricato del discorso di inaugurazione della nuova struttura: “Se Leon Battista Alberti venisse a noi dal Rinascimento, non appena all’orizzonte e alla collina, sorriderebbe a queste 49 scale, all’ardimento sicuro delle masse e dei piani, al rincorrersi degli archi che posano e riprendono lo slancio su esili colonne, alle linee tutte che s’allontanano e ritornano alla chiesa come le vene al cuore, e quivi s’annodano e balzano senza ritardi e senz’affanni su alla cupola, su alla lanterna suprema fatta di liste di cielo e di pietra”. Ci sorrideva, Biffi, di quell’eccesso di zelo retorico. Ma c’era un senso.
ARTICOLI CORRELATI Don Camillo e Giacomo Biffi Il cardinale Biffi "disprezzava chi praticava il dialogo per ridurci tutti a un minimo comune denominatore" Il momento di dire grazie a Biffi per un titolo in prestitoIl Seminario maggiore di Venegono è ancora oggi una costruzione imponente, sul limitare del bosco di Tradate, un’area verde che i decenni hanno conservato, se non intatta, ancora viva. Davvero somiglia a un’antica abbazia benedettina. Una grande abbazia: un rettangolo di pietra e mattoni lungo trecentoventi metri e largo centottanta. Isolato e imponente. Era sorto a tempo di record alla fine degli anni Venti del secolo scorso, come il risultato non soltanto di una risistemazione edilizia e logistica – serviva un luogo adatto che accorpasse le varie strutture fino ad allora disperse tra Milano e la provincia. Ma fu soprattutto il gesto simbolo di una rifondazione teologica. Fu la risposta della chiesa alla crisi del modernismo che ne aveva scosso dalle fondamenta di inizio Novecento. Di fronte al dilagare dello scientismo e del relativismo ottocenteschi, un’ampia parte della teologia e degli stessi sacerdoti cattolici aveva imboccato la strada di possibili “revisioni” della dottrina – dalla dogmatica, allo studio scientifico delle Scritture, alla sottolineatura della libertà di coscienza – che si erano spinti, magari anche a partire da buoni propositi, al punto di negare, o fortemente indebolire, le verità essenziali della fede. Dopo la condanna da parte del Vaticano delle dottrine moderniste (la celeberrima enciclica “Pascendi” di Pio X), si trattò per la chiesa di riformare anche le proprie strutture formative per il clero, in modo che ne uscissero pastori preparati ma soprattutto ben radicati nell’ortodossia della teologia e della tradizione cattolica. A Milano, a guidare il seminario viene inviato nel 1926 Ildefonso Schuster, abate benedettino di San Paolo fuori le Mura a Roma – personalità di vasta cultura e tutt’altro che “retrograda”, se negli anni di Roma era stato tra i fautori del dibattito per l’eliminazione, dalla liturgia del Venerdì Santo, della preghiera contro i “perfidi giudei” – e che dal 1929 sarà arcivescovo di Milano. Fu un’intuizione dell’ex abate benedettino, condivisa dal Papa – il colto brianzolo Achille Ratti (era stato biliotecario dell’Ambrosiana) – quella di costruire il nuovo seminario come fosse una sorta di abbazia per la preparazione adeguata di un clero nuovo, da inserire nel mondo senza timore di sbandamenti: “La domanda era: qual è il modo migliore di predisporre questo futuro inserimento?”, scrive Biffi: “E la risposta è stata: in una visione di fede (che non mette in primo piano le considerazioni sociologiche), ci si deve preparare con un tempo di raccoglimento, e quindi d’isolamento, che favorisca una sostanziale maturazione interiore e una progressiva conoscenza, mediante la preghiera… Ratti e Schuster concordano: il seminario deve sorgere fuori della città”.
Ma ovviamente determinante non fu “l’assillo ecologico” (Biffi). L’intelligenza, non solo di Schuster, fu quella di radunare a Venegono personalità di spiccato valore culturale, come monsignor Carlo Figini, preside della Facoltà teologica e uno dei più importanti teologi del tempo, il futuro arcivescovo di Milano Giovanni Colombo, umanista raffinato, Carlo Colombo, Gaetano Corti, che sarà il teologo di fiducia di Montini al Concilio. Lo storico Giuseppe Colombo “l’insegnamento nel contatto diretto con la storia e il pensiero, capace di superre la pura ripetizione manualistica, con una costante apertura internazionale. Lo stesso Ratzinger, ripercorrendo il senso e il valore di quella scuola teologica, dirà: “La scuola di Venegono aveva superato la teologia scolastica delle astratte formulazioni sistematiche che, strutturata sostanzialmente come commento a degli assiomi, faceva apparire la fede cristiana come un sistema di pensiero” e valorizzerà di quel lavoro “la razionalità, compresa in un senso totalmente diverso rispetto al razionalismo, diventa in un modo nuovo una delle determinazioni essenziali della fede”. Lo storico della diocesi, Ennio Apeciti, scrive: Questo anelito alla ragionevolezza della fede era una delle espressioni più alte di quella che si chiamava la ‘Scuola di Venegono’, quel pool di teologi di fama internazionale, che fecero del seminario un punto di riferimento per la cultura teologica italiana almeno dalla metà del XX secolo”. Passione educativa per i giovani seminaristi, gusto intellettuale, precisa volontà di trovare strade nuove alla comprensione e testimonianza della fede che senza tradire la dogmatica (neoscolastica) riuscissero a rispondere alle domande del mondo moderno. Sono l’imprinting della Scuola Venegono della cui importanza Biffi dà conto, non solo per sé ma per tutta la chiesa ambrosiana. Dall’esperienza di Venegono di quegli anni provengono del resto alcune delle personalità più influenti e originali della chiesa italiana, come don Luigi Giussani o Enrico Manfredini, che per breve tempo sarà il predecessore di Biffi sulla cattedra di san Petronio. Un tratto non soltanto teologico o pastorale, ma di personalità e di tratto umano che accomuna quella prima generazione di Venegono è senza dubbio il gusto umanistico per il bello, la letteratura, la poesia, la musica: un terreno d’incontro ideale con le istanze esistenziali dell’uomo contemporanero. Giussani farà della scoperta in seminario di Leopardi una delle architravi del suo pensiero; Biffi ha avuto come inseparabili compagni di viaggio Manzoni e Dante, oltre che Collodi e la storia italiana (Biffi fu a lungo responsabile della cultura nella diocesi di Milano). E come orizzonte globale, quello che la Scuola di Venegono indicherà con sempre maggiore precisione come il “Cristocentrismo”, l’idea della centralità assoluta di Cristo come redentore dell’uomo e del mondo, centro del cosmo e della storia. Una visione teologica di cui Biffi sarà un protagonista, con la sua capacità intellettuale di raccordare la filosofia e la teologia, la storia e la lezione di Ambrogio e Tommaso.
Negli anni della buriana del post Concilio, quando Joseph Ratzinger, con Von Balthasar e altri importanti teologi di scuola tedesca, incontrerà a Milano l’esperienza ecclesiale da cui nascerà la rivista Communio (cui Giacomo Biffi non parteciperà, se non per qualche raro contributo) il futuro Benedetto XVI intercetterà anche qualcosa di quell’esperienza, diversa ma con molti tratti di sensibilità ecclesiale, dottrinale e culturale comuni che aveva attecchito, nella chiesa milanese a partire da Venegono.
La formazione di Ratzinger era ovviamente diversa – le sue radici teologiche sono nella Nouvelle Theologie, in Henri de Lubac, nella squisita sensibilità di Romano Guardini. Ma la determinazione e l’aspirazione a rendere vivo e incontrabile, e razionalmente credibile il cristianesimo nel mondo contemporaneo, senza cedere alle derive della secolarizzazione e dell’immanentismo sociologico, erano destinate a riconoscersi, e a stimarsi. Valevano molto. certo più di un simbolico voto in Conclave.
di Maurizio Crippa | 15 Luglio 2015
La Chiesa di Bologna ha appena celebrato le solenni esequie del cardinale Giacomo Biffi nella cattedrale della città. Migliaia i fedeli e tanti i vip più o meno interessati. Presenti i vescovi dell'Emilia-Romagna, hanno concelebrato anche il cardinale Angelo Bagnasco, l'arcivescovo emerito di Milano, card. Dionigi Tettamanzi, e il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia. Nella bella omelia il cardinale Carlo Caffarra ha ricordato che per Biffi il «dialogo coincide con l'evangelizzazione» e la fede è «capace di generare un giudizio sugli avvvenimenti». Due elementi che, secondo molti, sarebbero già più che sufficienti per bollare il tutto con il marchio della “linea conservatrice”.
Questa tiritera, ammesso e non concesso che l'etichetta valga qualcosa, è comparsa in vario modo tra le righe dei commentatori e dei vaticanisti che in questi giorni hanno scritto e parlato sulla morte del cardinale Biffi. Lo ha specificato anche il premier Renzi. Esprimo «cordoglio per la morte del cardinal Biffi», ha dichiarato il premier, «per il quale – al netto della differenza di visione – nutrivo grande curiosità e stima». É proprio in quella «differenza di visione» rimarcata dal premier che c'è tutto il nuovo che avanza. A Bologna, infatti, qualcosa di nuovo sta per accadere, infatti, tra un po' si dovrebbe conoscere il nome del sostituto del cardinale Caffarra, visto che dal 30 giugno scorso l'arcivescovo di Bologna è “ufficialmente” in pensione. I ben informati raccontano che la nomina del successore però non sarà così imminente come qualcuno si aspettava, anzi pare che si dovrà attendere ancora qualche mese.La terna di nomi che circolano per la successione di Caffarra è cosa nota, il settimanalePanorama li aveva svelati qualche mese fa: Francesco Cavina, attuale vescovo di Carpi, Paolo Martinelli, ausiliare di Milano, e Enrico Solmi, attuale vescovo di Parma. I giochi però potrebbero essere ancora molto aperti, e andare oltre la terna più o meno ufficiosa.
A leggere quanto scrive Paolo Rodari su Repubblica la “linea conservatrice” che avrebbe caratterizzato la diocesi felsinea sta per finire. «La scomparsa del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003, segna la fine di un'epoca per la Chiesa di San Petronio», scrive l'informato Rodari. «Negli ultimi decenni», prosegue l'ex vaticanista de Il Foglio, «il Vaticano ha usato inviare nella rossa Bologna, sulla cattedra della diocesi che fu di Giacomo Lercaro, pastori come Biffi di linea conservatrice. Ma una "normalizzazione", in questo senso, dovrebbe avvenire in futuro». Questa “normalizzazione”, che scritta così sa un po' di regime, potrebbe condurre oltre la terna indicata a suo tempo dal settimanale Panorama. Per la cattedra di S. Petronio da tempo si vociferano i nomi di. Bruno Forte, vescovo di Chieti-Vasto e membro della segreteria del Sinodo sulla famiglia, o di monsignor Bregantini, vescovo di Campobasso. Sono forse questi i vescovi che il vaticanista Rodari intende per “normalizzatori”? Qualcuno fa anche il nome dell'attuale vescovo ausiliare di Roma, nonché assistente ecclesiastico generale della Comunità di S. Egidio, Matteo Maria Zuppi.
Di certo c'è che bisognerà attendere ancora un po' prima di risolvere la questione del successore del cardinale Caffarra e le sorprese potrebbero essere dietro l'angolo, visto che il Papa ha fatto scelte originali in occasione di nomine importanti come ad esempio Chicago e Madrid. Ma parlare di «normalizzazione» sembra un po' eccessivo, e viene spontaneo chiedersi cosa avrebbe detto il cardinale Biffi se avesse saputo di dover essere “normalizzato”. Forse si sarebbe chiesto: «ma chi normalizzerà il normalizzatore?».
16-07-2015
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-la-chiesa-di-bologna-e-da-normalizzare-repubblica-dixit-13265.htm
Gian Guido Vecchi
IL CONFESSORE DEL CARDINALE
«Quando Martini disse a Ratzinger: la Curia non cambia, devi lasciare»
Il racconto di padre Silvano Fausti: al Conclave del 2005 l’ex arcivescovo di Milano puntò sul tedesco per evitare giochi sporchi di un papabile «strisciante»
CITTÀ
DEL VATICANO Padre Silvano Fausti raccontava che il momento era stato
quando Benedetto XVI e Carlo Maria Martini si videro per l’ultima volta.
Milano, incontro mondiale delle Famiglie, 2 giugno 2012, il cardinale
malato da tempo era uscito dall’Aloisium di Gallarate per raggiungere il
Papa. Fu allora che si guardarono negli occhi e Martini, che sarebbe
morto il 31 agosto, disse a Ratzinger: la Curia non si riforma, non ti
resta che lasciare. Benedetto XVI era tornato sfinito dal viaggio a
Cuba, a fine marzo. In estate cominciò a parlarne ai collaboratori più
stretti che tentavano di dissuaderlo, a dicembre convocò il concistoro
dove creò sei cardinali e neanche un europeo per «riequilibrare» il
Collegio, l’11 febbraio 2013 dichiarò la sua «rinuncia» al pontificato.
Dimissioni «già programmate» dall’inizio del papato - se le cose non
fossero andate come dovevano -, fin da quando al Conclave del 2005
Martini spostò i suoi consensi su Ratzinger per evitare i «giochi
sporchi» che puntavano a eliminare tutti e due ed eleggere «uno di
Curia, molto strisciante, che non ci è riuscito», rivela il padre
gesuita.
Silvano Fausti è morto il 24 giugno a 75 anni, dopo
una lunga malattia. Biblista e teologo, una delle voci più ascoltate e
lette del pensiero cristiano contemporaneo, era la persona più vicina a
Carlo Maria Martini, il cardinale lo aveva scelto come guida spirituale e
confessore, si confidava con lui. Il retroscena affidato tre mesi prima
di morire a glistatigenerali.com - l’intervista video
è stata ora diffusa in Rete - corrisponde a ciò che padre Fausti
raccontava in privato nella cascina di Villapizzone, alla periferia di
Milano, dove viveva da 37 anni con altri gesuiti nella comunità che
aveva fondato. Quasi un testamento che, a proposito di Ratzinger e
Martini, risale ai giorni del Conclave di dieci anni fa. Erano le due
personalità più autorevoli e, racconta Fausti, «i due che avevano più
voti, un po’ di più Martini» (già allora malato di Parkinson), uno per i
«conservatori» e l’altro per i «progressisti». C’era una manovra per
«far cadere ambedue» ed eleggere il cardinale «molto strisciante» di
Curia. «Scoperto il trucco, Martini è andato la sera da Ratzinger e gli
ha detto: accetta domani di diventare Papa con i miei voti» . Si
trattava di fare pulizia. «Gli aveva detto: accetta tu, che sei in Curia
da trent’anni e sei intelligente e onesto: se riesci a riformare la
Curia bene, se no te ne vai».
Martini, rivela Fausti, disse che il Papa fece poi un discorso
«che denunciava queste manovre sporche e ha fatto arrossire molti
cardinali». Il 24 aprile 2005, nell’omelia di inizio pontificato,
Benedetto XVI disse: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura,
davanti ai lupi». Padre Fausti ricorda anche il gesto che avrebbe fatto
Ratzinger, il 28 aprile 2009 nell’Aquila devastata dal terremoto. Era
previsto solo un omaggio, ma Benedetto XVI seminò il panico varcando la
porta santa della basilica pericolante di Collemaggio per deporre il suo
pallio sulla teca di Celestino V, il Papa del «gran rifiuto». Ratzinger
e Martini, pur diversi, si riconoscevano e si stimavano. «Cercavano
sempre di metterli contro per fare notizia. Mentre, con Wojtyla, Martini
dava ogni anno le dimissioni...». Le dimissioni di Benedetto XVI erano
una possibilità dall’inizio del pontificato, spiega Fausti. Finché a
Milano, quel giorno, Martini gli disse «è proprio ora, qui non si riesce
a fare nulla». Nell’ultima intervista, Martini parlò di una Chiesa
«rimasta indietro di 200 anni: come mai non si scuote?».
Ratzinger non è scappato davanti ai lupi,
nonostante attacchi e veleni interni che fino a Vatileaks ne hanno
funestato il pontificato. Sa che è urgente agire e fare pulizia, ma
sente di non averne più la forza. Ci vuole una scossa. Nella sua
rinuncia «in piena libertà» dice che «per governare la barca di san
Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del
corpo, sia dell’animo» che «negli ultimi mesi» gli è venuto a mancare.
Il conclave, di lì a un mese, eleggerà Jorge Mario Bergoglio. Padre
Fausti, nel video, sorride: «Quando ho visto Francesco vescovo di Roma
ho cantato il nunc dimittis , finalmente!, ho aspettato dai tempi di
Gregorio Magno un Papa così...».
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