Il vescovo di Erbil: "E' un genocidio, non si aspettino vent'anni per dirlo"
Dopo Mosul, potrebbe toccare a Erbil, da più di un anno ancora di salvezza per le minoranze cacciate dalla piana di Ninive dalle milizie del Califatto islamico di Abu Bakr al Baghdadi. L'allarme l'ha dato il vescovo della città curda, Bashar Warda, in viaggio negli Stati Uniti per testimoniare quanto sta accadendo sul terreno, in Iraq. "E' possibile" che la prossima preda dei jihadisti sia Erbil, ha osservato il presule, "anche se la coalizione, guidata dagli americani, ha fermato l'avanzata del Daesh".
Questo, ha aggiunto parlando a Indianapolis, "ha trasmesso qualche senso di sicurezza alla popolazione, ma Daesh è solo a quaranta chilometri da Erbil. Non è lontano. Tutto può succedere". Warda, che lo scorso inverno aveva invocato un'azione militare ("non c'è altra scelta, ora"), ha raccontato le storie dei profughi, gente che "terrorizzata che ha camminato otto o dieci ore durante la notte" per cercare di scampare dalla persecuzione. "Alla fine, ringraziano Dio per averli fatti sopravvivere", ha chiosato il vescovo caldeo di Erbil, che ha ammesso di domandarsi (a volte) "cosa stia facendo Dio quando guardo ciò che accade nella nostra regione. Litigo con lui ogni giorno, ma con l'aiuto della grazia, resisto a sfide alla mia fede che mai avrei immaginato".
"Daesh è il male. Il modo in cui massacrano, il modo in cui stuprano, il modo in cui trattano gli altri è brutale. La loro teologia è quella di massacrare la gente". E, come aveva fatto padre Douglas al Bazi, parroco iracheno intervenuto domenica scorsa al Meeting di Rimini, mons. Warda ha invitato a usare la terminologia corretta, che è quella di genocidio: "E' un genocidio. Ci sono tutti gli elementi, gli eventi, le storie e le esperienze che soddisfano la definizione di genocidio". Solo usando la giusta definizione "queste esperienze non saranno dimenticate, i sacrifici di questa gente non saranno dimenticati. Non si aspettino altri vent'anni per guardarsi indietro e dire 'mi dispiace se non abbiamo fatto qualcosa di veramente decisivo".
http://www.ilfoglio.it/chiesa/2015/08/27/il-vescovo-di-erbil-e-un-genocidio-non-si-aspettino-ventanni-per-dirlo___1-vr-132160-rubriche_c307.htm
A Palmira le morti non sono tutte uguali. Il dovere di non essere ipocriti
di Alessandro Aramu
Dopo la macabra uccisione di Khaled Asaad, 82 anni, ex capo della direzione generale delle antichità e dei musei di Palmira, i terroristi dello Stato Islamico hanno distrutto il tempio di Baal Shamin, uno dei gioielli dell’antica città romana della Siria. Due notizie che hanno destato l’attenzione della comunità internazionale, dalla quale si è levato un coro unanime di condanna e di sdegno. La stessa comunità internazionale ha però taciuto sulle altre morti di Palmira, ignorando il sangue versato dai civili e dalle centinaia di soldati siriani che hanno combattutto per difendere il patrimonio Unesco dell’umanità dalla furia criminale dei jihadisti.
Nello scorso luglio, l’Isis ha diffuso un video che mostrava un’esecuzione di massa di 25 soldati siriani, uccisi da ragazzini, nelle rovine dell’anfiteatro di Palmira (foto in apertura). Secondo quanto si descriveva nel filmato, l’esecuzione sarebbe avvenuta poco dopo la conquista della città, il 21 maggio. I soldati siriani furono uccisi a colpi d’arma da fuoco davanti ad una bandiera dello Stato Islamico. Nel video, le vittime apparivano in uniforme militare di colore verde e marrone. A ucciderli sarebbero stati degli adolescenti, ma anche dei bambini, vestiti con tute mimetiche e con il capo coperto da bandana marroni. Un rituale dell’orrore in cui i carnefici erano essi stessi vittime. Come gli spettatori, dato che ad assistere all’esecuzione c’era un gruppo di persone, tra le quali molti bambini, sedute sui gradini dell’anfiteatro romano.
Di fronte a tutto questo, la comunità internazionale ha preferito tacere. Esattamente come il circuito mediatico internazionale. L’informazione italiana, come spesso capita, si è appiattita sulla linea del silenzio più totale. Poi, d’incanto, con la morte di Khaled Asaad – decapitato davanti a un pubblico che ha assistito all’esecuzione e poi appeso a una colonna – si è ricordata che a Palmira c’erano ancora i mostri dello Stato Islamico, quei mostri che anche la distrazione dell’opinione pubblica ha contribuito a generare.
Quando si parla di Palmira tutti, ma proprio tutti, lo fanno in maniera asettica, decontestualizzando ciò che sta accadendo in quella parte della Siria. E’ una strategia chiara, che punta ancora una volta a disinformare. La verità, l’unica e inoppugnabile, è che la riconquista della «sposa del deserto» è affidata esclusivamente all’esercito di Damasco e ai suoi alleati. Che piaccia o meno, il sangue versato per salvare l’antica città romana di Palmira è tutto in quella bandiera che la comunità internazionale ha ripiegato dopo aver chiuso le ambasciate di una nazione che mai aveva minacciato la sicurezza di altri Stati. Lo ha fatto sulla base di false informazioni, di false stragi e armando quelli che ben presto hanno ingrossato le fila dell’ISIS, poi divenuto Stato Islamico.
A Palmira, è dovere giornalistico raccontarlo, solo il cosidetto «regime di Assad» combatte contro i terroristi, come nel resto del paese. Non c’è traccia della fantomatica coalizione guidata dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita, i cui fallimentari risultati sono sotto gli occhi di tutti. Su quelle operazioni militari c’è un imbarazzante silenzio: non si sa nulla sui raid giornalieri compiuti, sugli obiettivi raggiunti, sul numero dei terroristi (e dei civili) uccisi e feriti. Non è mai capitato nella storia recente che un’azione militare fosse circondata da così tanti misteri. E silenzi. E’ anche l’ennesima sconfitta di Barack Obama, entrato alla Casa Bianca con l’ambizione di essere il portabandiera di una “politica trasparente”, ne uscirà alla fine con il marchio del presidente delle incompiute, degli slogan e dei misteri (come l’uccisione del capo di al Qaeda, Osama bin Laden).
Detto ciò, appare irritante, anche se comprensibile, la dichiarazione di condanna e sdegno dell’Unesco, che a proposito della distruzione del tempio di Baal Shamin a Palmira ha parlato di un «crimine di guerra» e di «una perdita considerevole per il popolo siriano e l’umanità a causa del vandalismo estremista». Ancora, scrive il direttore generale dell’Unesco Irina Bokova: «La distruzione sistematica dei simboli che incarnano la diversità culturale della Siria rivela le vere intenzioni di tali attacchi che privano il popolo siriano del suo sapere, della sua identità e della sua storia».
La Bokova, infine, sollecita «la comunità internazionale a fare prova di unità di fronte al protrarsi di questa pulizia culturale, nella convinzione che malgrado gli ostacoli e il fanatismo, la creatività umana prevarrà». Una posizione a cui si sono accodati anche il governo italiano e francese, attraverso i rispettivi ministri degli Esteri.
Sono parole di circostanza che non produrranno alcun significativo cambio di strategia della comunità internazionale in Siria. Quella strategia ha alimentato per anni una finta rivoluzione, creando contestualmente le condizioni per armare i gruppi più radicali, fino all’affermarsi di al Qaeda e, in seguito, dello Stato Islamico. Di rivoluzionario e genuino c’era ben poco, subito soppiantato dalla violenza alimentata dall’esterno a suon di armi e dollari. Anche così si conquista il Paradiso, senza vergini e a buon mercato.
La guerra in Siria è una delle vicende più semplici da raccontare. Purtroppo oggi è la più complicata da risolvere. Palmira, il suo sito archeologico, l’archeologo decapitato e tutto il resto sono una goccia di sangue nell’oceano sparso in questi anni. C’è un sangue che merita di essere ricordato (e che piace tanto alla stampa e ai governi) e uno che invece viene coperto e nascosto. Quel sangue è quello dei siriani che ogni giorno – indossando la divisa militare di uno Stato sovrano, libero e indipendente – combattono contro un mostro che l’Occidente con una mano bastona e con l’altra accarezza. Tutto il resto è propaganda a buon mercato.
Fonte: Sponda Sud
Alessandro Aramu (1970). Giornalista professionista. Laureato in giurisprudenza è direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013),Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014). E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. E’ responsabile delle relazioni internazionali della Federazione Assadakah Italia – Centro Italo Arabo e Presidente del Coordinamento nazionale per la pace in Siria.
ASIA/SIRIA - Un documentario della TV siriana sul Genocidio assiro proiettato alla presenza del Patriarca siro ortodosso
Damasco (Agenzia Fides) - Un documentario preparato dalla Televisione di Stato siriana sul “Sayfo”,il cosiddetto “Genocidio assiro”, è stato presentato in anteprima in una proiezione a inviti a cui ha preso parte anche il Patriarca siro ortodosso Mar Ignatius Aphrem II. Il reportage, relativo ai massacri subiti cento anni fa dalle comunità assire, caldee e siriache nell'Impero ottomano su istigazione dei Giovani Turchi, contiene anche le testimonianze registrate di alcuni sopravvissuti delle stragi pianificate del 1915. La proiezione, tenutasi presso il Teatro dell'Opera di Damasco, si è conclusa con un'esibizione del Coro patriarcale di Sant'Aphrem, che ha eseguito il suo repertorio di canti tradizionali siriaci. Il Patriarca Mar Aphrem, in un intervento svolto in seno alla manifestazione, ha ringraziato i Ministero degli affari Sociali – patrocinatore dell'evento – e ha fatto collegato le persecuzioni di cento anni fa alle tribolazioni vissute dalle comunità cristiane nel Medio Oriente di oggi, devastato dai conflitti settari alimentati anche da interessi di ordine geopolitico. (GV) (Agenzia Fides 27/8/2015).
http://www.fides.org/it/news/58247-ASIA_SIRIA_Un_documentario_della_TV_siriana_sul_Genocidio_assiro_proiettato_alla_presenza_del_Patriarca_siro_ortodosso#.Vd8mI7ztlHy
http://www.stampalibera.com/?a=30189
Il modus operandi del Barnabas Fund consiste innanzitutto nel premere sui governi affinché concedano il visto a quanti dimostrino di provenire dalle aree occupate dai jihadisti. Da parte sua, l’organizzazione umanitaria garantisce che si accollerà tutte le spese. E proprio la Polonia, ha sottolineato Sookhdeo, sta già provvedendo al rilascio dei visti per alcune centinaia di famiglie, grazie anche al legame che sussiste tra il Barnabas Fund e l’organizzazione non governativa polacca Esther. Una volta entrati nel paese, entrano in gioco le congregazioni della chiesa locale, da Varsavia a Katowice, da Danzica a Koszalin. Il costo totale per salvare un profugo “ammonta alla modesta cifra di 3 mila dollari, incluso il biglietto aereo e il sostegno di base per un anno”.
Visto, vitto e alloggio: così si esfiltrano i cristiani dallo Stato islamico
I soldi di Lord Weidenfeld, l’impegno polacco
Lord Weidenfeld
Roma. Quarantadue famiglie siriane cattoliche, lo scorso luglio, avevano raggiunto Varsavia, scampando alla persecuzione contro le minoranze attuata dalle squadre jihadiste guidate da Abu Bakr al Baghdadi. A salvarle era stato l’intervento di George Weidenfeld, Lord britannico nato a Vienna, editore e filantropo sopravvissuto all’Olocausto. “Noi abbiamo un debito di gratitudine.
Negli anni Trenta, migliaia di ebrei, soprattutto donne e bambini, furono aiutati dai cristiani che si sobbarcarono enormi rischi personali per salvarli da morte certa”, aveva spiegato al Times di Londra il novantacinquenne cofondatore della casa edtrice Weidenfeld&Nicolson. “Il primo obiettivo è portare i cristiani in un rifugio sicuro. L’Isis non ha precedenti quanto a ferocia primitiva, anche se comparata al più sofisticato nazismo”, aveva detto. Come del resto aveva spiegato suor Diana Momeka dinanzi alla Commissione affari esteri della Camera dei rappresentanti americana, lo scorso maggio: “Il piano dello Stato islamico è di eliminare i cristiani dalla regione e ripulire la terra di ogni prova che noi siamo sempre esistiti lì”.
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Lord Weidenfeld aveva anche chiarito quanto era disposto a spendere per il suo progetto: 390 mila dollari a copertura del sostegno (vitto e alloggio inclusi) di 149 rifugiati per un periodo non inferiore all’anno e mezzo. Sul Wall Street Journal, il direttore del Westminster Institute di McLean (Virginia), Robert Reilly, ricordava che se dall’ottobre 2014 “906 rifugiati musulmani dalla Siria erano riusciti a ottenere il visto americano, solo 28 dei 700 mila cristiani siriani avevano ricevuto analogo trattamento”. Dati che, secondo Reilly, “sembrano largamente sproporzionati”. Una risposta indiretta anche a quanti, specie in Europa, denunciano presunti canali preferenziali per i profughi cristiani a scapito dei musulmani quando si tratta di concedere visti d’ingresso. Numeri, quelli evidenziati dal Wall Street Journal, che avevano portato il vescovo curdo di Erbil, mons. Bashar Warda, a domandarsi perché le autorità di Washington negassero il visto ai cristiani. “Dopo il 1948, gli ebrei cacciati dal medio oriente arabo avevano la possibilità di andare in Israele. Non ci sono possibilità equivalenti per i cristiani del medio oriente”, chiosa Reilly, osservando come “le conversioni forzate, le decapitazioni e le stragi dei copti sulle spiagge del Mediterraneo” sono prove evidenti del genocidio in atto. Se entrare negli Stati Uniti è difficile, in Europa è la Polonia a essere in prima linea nell’accoglienza dei cristiani in fuga dalle aree del vicino oriente passate sotto il controllo del cosiddetto Califatto islamico. In giugno, circa sessanta organizzazioni non governative locali avevano scritto una lettera aperta al governo in cui – ricordando il passato del paese invaso dalla Wermacht nel settembre del 1939 e poi finito sotto il tallone dell’Armata rossa di Stalin – chiedevano di provvedere all’assistenza e al sostegno di “quanti non possono far ritorno nei rispettivi paesi”. Patrick Sookhdeo, direttore del Barnabas Fund, organizzazione umanitaria no profit, aveva spiegato al Telegraph che la situazione tra Siria e Iraq stava ormai evolvendo in un genocidio: “Tanti cristiani britannici si sono messi in contatto con noi per dirci che hanno stanze per gli ospiti o anche una seconda casa dove accogliere cristiani siriani e iracheni”.
Lord Weidenfeld aveva anche chiarito quanto era disposto a spendere per il suo progetto: 390 mila dollari a copertura del sostegno (vitto e alloggio inclusi) di 149 rifugiati per un periodo non inferiore all’anno e mezzo. Sul Wall Street Journal, il direttore del Westminster Institute di McLean (Virginia), Robert Reilly, ricordava che se dall’ottobre 2014 “906 rifugiati musulmani dalla Siria erano riusciti a ottenere il visto americano, solo 28 dei 700 mila cristiani siriani avevano ricevuto analogo trattamento”. Dati che, secondo Reilly, “sembrano largamente sproporzionati”. Una risposta indiretta anche a quanti, specie in Europa, denunciano presunti canali preferenziali per i profughi cristiani a scapito dei musulmani quando si tratta di concedere visti d’ingresso. Numeri, quelli evidenziati dal Wall Street Journal, che avevano portato il vescovo curdo di Erbil, mons. Bashar Warda, a domandarsi perché le autorità di Washington negassero il visto ai cristiani. “Dopo il 1948, gli ebrei cacciati dal medio oriente arabo avevano la possibilità di andare in Israele. Non ci sono possibilità equivalenti per i cristiani del medio oriente”, chiosa Reilly, osservando come “le conversioni forzate, le decapitazioni e le stragi dei copti sulle spiagge del Mediterraneo” sono prove evidenti del genocidio in atto. Se entrare negli Stati Uniti è difficile, in Europa è la Polonia a essere in prima linea nell’accoglienza dei cristiani in fuga dalle aree del vicino oriente passate sotto il controllo del cosiddetto Califatto islamico. In giugno, circa sessanta organizzazioni non governative locali avevano scritto una lettera aperta al governo in cui – ricordando il passato del paese invaso dalla Wermacht nel settembre del 1939 e poi finito sotto il tallone dell’Armata rossa di Stalin – chiedevano di provvedere all’assistenza e al sostegno di “quanti non possono far ritorno nei rispettivi paesi”. Patrick Sookhdeo, direttore del Barnabas Fund, organizzazione umanitaria no profit, aveva spiegato al Telegraph che la situazione tra Siria e Iraq stava ormai evolvendo in un genocidio: “Tanti cristiani britannici si sono messi in contatto con noi per dirci che hanno stanze per gli ospiti o anche una seconda casa dove accogliere cristiani siriani e iracheni”.
http://www.ilfoglio.it/chiesa/2015/08/25/cristiani-dallo-stato-islamico-george-weidenfeld___1-v-132073-rubriche_c426.htm
Come firmare la petizione a difesa dei cristiani perseguitati
27 - 08 - 2015Sveva Biocca
La Fondazione Novae Terrae sostiene una raccolta di firme per fermare la persecuzione dei cristiani massacrati in Medio Oriente. Tutti i dettagli
I cristiani, in Medio oriente, sono una minoranza in via di estinzione. In Italia la Fondazione Novae Terrae ha organizzato una raccolta di firme che mira a sostenere l’iniziativa nelle Nazioni Unite in difesa dei cristiani e delle altre minoranze religiose perseguitate in Medio Oriente.
In quei territori alcuni esperti parlano di una vera e propria epurazione religiosa portata avanti dall’Isis: Chiese dissacrate, cristiani crocifissi, bambini di religione cattolica impiccati. Quando arrivano i drappi neri, o si sceglie la chahada (professione di fede islamica) o si muore. Di pochi giorni fa la notizia della gabbia di ferro posizionata al centro della città irakena Ar Rubta, nella quale sono stati giustiziati diversi cristiani. O ancora dello scorso 21 agosto la distruzione del monastero cattolico di Sant’Elian, in Siria centrale, da parte dei jihadisti. La guerra contro la cultura portata avanti dall’Is, è soprattutto contro la cultura cristiana.
LE NAZIONI UNITE
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, nel corso della riunione del consiglio di sicurezza svoltasi nel marzo scorso presso il Palazzo di Vetro, aveva annunciato che l’Onu stava mettendo a punto un piano d’azione per la prevenzione dell’estremismo violento che sarebbe stato lanciato nel prossimo mese di settembre. Era la prima volta che il Consiglio di Sicurezza si riuniva sul tema della persecuzione delle minoranze religiose in Medio Oriente (tema scelto e voluto dall’allora presidente di turno del Cds: la Francia). “Sono profondamente preoccupato per le migliaia di civili che oggi si trovano alla mercé dello Stato islamico – aveva detto Ban Ki-moon nel suo intervento -. I suoi miliziani uccidono sistematicamente quanti appartengono a minoranze etniche e religiose”. Un studio interessante è stato portato avanti da Open Doors , organizzazione non governativa americana in supporto dei cristiani nel mondo. Questo evidenzia che “la fonte primaria di persecuzione è il fondamentalismo islamico: più del 70 per cento dei cristiani è fuggito via dall’Iraq dal 2003. In Siria 700mila dal 2011 sono stati costretti ad abbandonare casa dall’inizio della guerra civile. Anche in Pakistan e Afghanistan, la caccia al cristiano è in crescita.”
LA PETIZIONE
La petizione sostenuta dalla Fondazione Novae Terrae prevede una firma elettronica che richiede – davvero – meno di un minuto. Tre i punti fondamentali: maggiore concretezza nel piano di sviluppo; misure legali da rimandare alla Corte Penale Internazionale e stop al sostegno finanziario a vantaggio dei gruppi affiliati all’Isis. Proprio qualche giorno fa Il Foglio, fondata da Giuliano Ferrara, ha pubblicato un articolo- intervista nel quale Roger Scruton, influente filosofo inglese conservatore, ha usato toni molto duri contro l’inerzia europea: “L’occidente è in ritirata dal mondo, ha perso ogni valore spirituale e culturale su cui si fonda l’Europa. Altrimenti, di fronte alle notizie di cristiani uccisi e di chiese rase al suolo, interverrebbe subito contro l’Isis. Ma verrà punito, anche tramite il multiculturalismo. La colpa è della cultura del ripudio”.
Per capire meglio attraverso i numeri, citiamo un dossier pubblicato a fine luglio dalla Caritasitaliana. Questo calcola che in un solo anno (novembre 2013 – ottobre 2014) i cristiani uccisi per ragioni strettamente legate alla loro fede sono 4.344.
GLI APPELLI
Due importanti testimonianze sono arrivate dal meeting di Comunione e liberazione: padreDouglas Al-Bazi e Ibrahim Alsabagh, parroci rispettivamente di Erbil e Aleppo, i quali hanno partecipato all’incontro “Una ragione per vivere e per morire: martiri di oggi”
Queste le parole del parroco siriano: “Perché un cristiano deve rimanere? Meglio scappare e buttarsi nel mare.(…) Diversi sono i casi di cristiani che hanno lasciato il paese e lo lasceranno forse nel domani. Sembra che siamo nel libro dell’apocalisse. Per noi cristiani, parlo di Aleppo, specialmente, siamo nell’Apocalisse”.
Il sacerdote iracheno continua chiedendo aiuto: “Io sono qui per dire a voi: siate la nostra voce, parlate e svegliatevi. Il cancro è alle vostre porte ormai, vi distruggeranno. I cristiani in Medio Oriente, in Iraq, sono l’unico gruppo ad aver visto il volto del male: l’islam. Pregate per la mia gente, aiutate la mia gente, salvate la mia gente. Perché lasciate le pecore libere in mezzo ai lupi?” Nel 2007 Al-Bazi è stato rapito e torturato per nove giorni. Un anno fa, nel luglio 2014, l’irruzione degli uomini dell’Is a Mossul segnò l’inizio di un esodo che in poche settimane portò più di un milione di persone a rifugiarsi nella regione irachena del Kurdistan.
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