ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 18 settembre 2015

Se 1 € all'ora vi sembra poco

Trattati come bestie: l'inferno dei cristiani tra scafisti e torture

I respingimenti turchi e le decapitazioni in Libia: le mille tragedie dei profughi. L'Italia deve assicurare un "corridoio"

Lo sanno bene parenti e confratelli dei cristiani, eritrei, etiopi ed egiziani decapitati o uccisi dallo Stato Islamico in Libia.
Te lo raccontano gli assiri cristiani di Qamishli, la città del Nord-Est siriano circondata dal Califfato e ingabbiata, dall'altra parte, dalle frontiere sbarrate di una Turchia complice degli jihadisti. Solo per questo l'Italia, Paese sede e simbolo della Cristianità, dovrebbe muoversi, garantire una via di fuga, a chi, pur credendo nel nostro stesso Dio, non può sperare d'imbarcarsi su un barcone libico e rischia la testa quando tenta d'avvicinarsi al confine turco.
Per capire quali siano le spade di Damocle sospese sui cristiani in fuga basta rileggere le cronache. La vicenda più crudele resta quella dello scorso 14 aprile quando su un barcone salpato da Tripoli un gruppo di migranti musulmani circonda dodici cristiani provenienti dalla Nigeria e dal Ghana. Gli aggressori arrivano dal Mali, il Paese africano dove la Francia ha dovuto lanciare un operazione militare per mettere fine all'egemonia islamista sulle regioni settentrionali. Su quel barcone il passaggio dagli insulti all'aggressione fisica è questione di pochi minuti. E così mentre l'imbarcazione rolla tra le onde dodici cristiani vengono gettati fuoribordo, abbandonati tra i flutti. Gli altri si salvano dalla spietata esecuzione solo formando una catena umana e opponendo un abbraccio di massa all'odio. Che la Libia fosse una strada per il patibolo lo si era capito già a febbraio quando lo Stato Islamico aveva diffuso il video della decapitazione di 21 egiziani cristiano copti sulle coste di Sirte. Un orrore replicato ad aprile con l'esecuzione di una trentina di etiopi cristiani. E seguito a giugno dall'uccisione di due cristiani eritrei e dal rapimento di altri 75. La Libia, principale via di fuga per i migranti del resto d'Africa e del Medioriente, diventa dunque una pista della morte quando ad attraversarla sono i cristiani. La prima a denunciarlo è Amnesty International . «I migranti e i profughi cristiani in Libia - scrive l'organizzazione in un rapporto dello scorso maggio - sono particolarmente a rischio perché in balia dei gruppi armati decisi ad imporre la propria interpretazione dell'Islam. In Libia i cristiani, nigeriani, egiziani, eritrei ed etiopi sono stati rapiti, torturati, uccisi o maltrattati a causa del loro credo».
Dimenticata la trappola per topi chiamata Libia ai cristiani in fuga non restano molte alternative. Quelli d'Irak, abituati un tempo a cercar rifugio in Siria sono fortunati quando riescono a trovare un passaggio certo per la Turchia. E anche i cristiani di Siria, abituati un tempo ad espatriare attraverso il Libano, possono soltanto sperare di seguir la stessa rotta. «Da qualche mese il governo di Beirut ha smesso di concedere visti ai siriani e quindi noi cristiani possiamo solo sperare di raggiungere la Turchia» spiega monsignor Jean Abdo Arbach, arcivescovo melchita di Homs. Affrontare la rotta turca significa però muoversi lungo territori controllati dai gruppi jihadisti o dallo stesso Stato Islamico. E rischiare anche qui di venir rapiti o sgozzati. «Alcune famiglie sono partite e non sono mai arrivate - spiegava a il Giornale Kevor, un insegnante assiro cristiano incontrato mesi fa a Qamishli, la cittadina all'estremo Nord Est della Siria circondata dallo Stato Islamico - Per noi la fuga diventa spesso una trappola. Quando esci dalla città devi attraversare i villaggi musulmani e li non sai mai cosa succederà. La gran parte degli abitanti sono buona gente. Prima della guerra non c'erano mai problemi. Oggi fanno i conti con la pressione e le minacce dello Stato Islamico che s'infiltra tra di loro. E così se ti riconoscono come cristiano può capitare che ti segnalino. Allora la tua sorte e quella della tua famiglia è segnata. Quelli con le bandiere nere ti aspettano sulla strada e non ritorni mai più».


http://www.ilgiornale.it/news/politica/trattati-bestie-linferno-dei-cristiani-scafisti-e-torture-1172456.html

L’arcivescovo greco-ortodosso Hanna: “Siamo tutti uniti di fronte agli attacchi di Israele”

Gerusalemme – 17.09.2015  Mercoledì mattina, l’arcivescovo greco-ortodosso di Sebastia, Atallah Hanna, ha visitato i giovani gerosolimitani feriti negli ultimi tre giorni mentre cercavano di impedire gli attacchi e le irruzioni di coloni e forze israeliane nel complesso nella moschea di al-Aqsa.
Durante una conferenza stampa svoltasi poco dopo la sua visita all’ospedale Makassed, l’arcivescovo Hanna ha denunciato l’escalation di attacchi israeliani contro la moschea di al-Aqsa e i fedeli radunati in sit-in.
Ha sottolineato “il bisogno urgente di una reale azione in difesa della moschea di al-Aqsa e dei luoghi santi a Gerusalemme Est occupata”.
“I Cristiani gerosolimitani esprimono totale rifiuto delle aggressioni israeliani contro i luoghi santi musulmani”, ha dichiarato Hanna.
“L’escalation israeliana – ha aggiunto -, non fa altro che rafforzare la nostra determinazione, fermezza e rifiuto di tali pratiche ingiuste”.
“Noi, in quanto Cristiani, condividiamo lo stesso dolore e tristezza dei nostri fratelli musulmani a Gerusalemme occupata. La moschea di al-Aqsa è la questione principale per tutto il popolo palestinese, cristiano e musulmano”.
Ha concluso salutando “l’eroica determinazione di coloro che hanno sacrificato le loro vite in difesa della moschea di al-Aqsa”.

I primi rifugiati siriani in Germania stanno già lavorando per un euro l'ora

I primi rifugiati siriani in Germania stanno già lavorando per un euro l'ora

Mercoledì scorso il Presidente della Bundesbank Weidmann ha dichiarato "la Germania ha bisogno di lavoro aggiuntivo per mantenere il suo tenore di vita." Lo "spirito umanitario" della Merkel per i siriani ha la sua spiegazione


di Francesco Guadagni

Anas Al-Asadi è  uno dei primi siriani che ha raggiunto la Germania. Dopo un paio di giorni nella più grande economia europea, questo rifugiato ha già un lavoro in un centro comunitario per giovani di proprietà comunale della città di Pfungstadt, vicino a Francoforte. Il suo stipendio è di 1 euro l'ora in cambio dell'esecuzione di alcune operazioni di base per aiutare i dirigenti del centro comunale.

Come riportato dal portale finanziario BloombergAl-Asadi era un avvocato in Siria, ha 26 anni, qualificato e disposto a lavorare: "Il lavoro svolto non è una sfida per una persona che era un avvocato nel suo paese, e dicendola tutta, non è ben pagato", ha riportato il portale statunitense.

Questa è la dura realtà, ma la verità è che questo lavoro può essere solo temporaneo per Al-Asadi. Secondo fonti tedesche, questi primi rifugiati non hanno ancora i permessi per lavorare in una società privata con un contratto legale. C'è da notare che in Germania il salario minimo legale per tutti i lavoratori (qualunque sia la loro nazionalità) è di 8,5 euro all'ora.

"Sono seduto qui, dormo qui, come in questo caso, non molto tempo fa, ho deciso di chiedere se potevo fare qualcosa." Il programma è in corso in questa piccola città, in Germania, e prevede l'assunzione di 15 persone, scatenando la curiosità di altre città tedesche che ospitano i profughi e si aspettano l'arrivo di molti altri.

I tedeschi, quindi, badano alla sostanza e nel loro spirito pragmatico, lungi dal vedere i rifugiati come un problema,il loro arrivo è visto come un'opportunità per affrontare la crescente debolezza del mercato del lavoro, con particolare attenzione alla mancanza di popolazione in età lavorativa. Diversi economisti ed esperti tedeschi hanno detto che l'arrivo di questi siriani potrebbe essere la salvezza dello stato sociale tedesco.

"Per contenere Mosca e garantire la superiorità di Israele, 

gli Usa pronti a cancellare intere nazioni come Iraq e Siria"


L'AntiDiplomatico intervista Alberto Negri de il Sole 24 ore. "L'Europa è disarmata. Tutto quello che ci sta arrivando addosso sono gli effetti delle guerre e della destabilizzazione che abbiamo seminato"

di Mara Carro


Dopo oltre 300mila vittime, sette milioni di sfollati e migliaia di rifugiati che partono per l’Europa alla ricerca di un futuro migliore, la guerra siriana è ormai entrata nel suo quinto anno. La situazione sul campo continua a segnare uno stallo che sembra senza uscita eppure, in queste settimane, qualcosa sembra si stia muovendo. Ne parliamo con Alberto Negri, inviato de Il Sole 24 Ore e testimone sul campo di tutte le guerre degli ultimi 30 anni.
Attraverso una lucida analisi degli obiettivi statunitensi in Medio Oriente, degli interessi finanziari esercitati dalle monarchie del Golfo in Occidente e una severa critica alle “guerre senza senso” degli ultimi anni, Negri fornisce le coordinate per orientarsi in questa “guerra per procura tra le potenze regionali cui hanno contribuito attivamente anche gli americani” e gli europei.
- L’offerta del Cremlino di costituire un coalizione internazionale contro lo Stato Islamico è stata, forse troppo precipitosamente, respinta dall’Occidente che, allo stato attuale dei fatti, non sembra avere ancora una strategia. Mercoledì il generale americano Lloyd J. Austin, il capo del Central Command dell'Esercito americano ha informato il Congresso che solo 4 o 5 dei primi 60 ribelli addestrati dagli Usa per combattere contro lo Stato Islamico sono al momento in Siria. Non è arrivato il momento di negoziare con Putin considerando che l’intervento russo fa comodo a tutti, americani compresi, preoccupati dal collasso di Assad? 
Sarebbe il caso di negoziare se, come in tutti i grandi drammi, non circolasse, come sempre, una buona dose di propaganda. Gli Stati Uniti stanno cercando di giustificare una eventuale svolta in Siria, che comprenda anche un negoziato, un accordo, un’intesa con la Russia di Putin, e questo lo evinciamo dalle notizie diffuse dai giornali americani. La Casa Bianca, il Pentagono e lo stesso Congresso non sarebbero stati informati correttamente sullasituazione sul campo. In realtà non c’è stata nessuna manipolazione. Gli Stati Uniti sanno perfettamente qual è la situazione sul campo nella lotta al Califfato: circa il 60-70% dei raid si concludevano con un nulla di fatto. Basta vedere quello che accade in Iraq dove ci sono città delle dimensioni di Mosul o Ramadi ancora nelle mani del Califfato.
Qualcuno ha condotto un’offensiva? Sono gli americani che dovrebbero sostenere un’offensiva per la quale il governo di Baghdad non ha né i messi né le forze. Quando la situazione sul terreno è questa bisogna chiedersi quali siano gli obiettivi. Gli Stati Uniti non avevano nessuna intenzione di fare la guerra al Califfato e dare così una mano ad Assad che volevano già bombardare nel 2013.


- Allora qual è l’obiettivo degli Stati Uniti? 

L’obiettivo degli Stati Uniti è quello che avevano già negli anni ’80 con l’Iran e con l’Iraq: non assegnare la vittoria a nessuna delle parti in campo, sunnita o sciita che sia, ma tenere un bilanciamento delle forze che in qualche modo confermi una situazione di stallo. Sono le tattiche americane del doppio contenimento, tattiche che però a volte sono destinate a deragliare, come avvenuto in Medio Oriente e che, ci porteranno, in dote, dal Levante, altri profughi.
Quando si parla di Assad, bisogna tenere a mente che né i russi né gli iraniani vogliono tenere a tutti i costi il presidente siriano al potere. Mosca e Teheran sarebbero ben disposte a negoziare un’uscita di scena di Assad ma nel quadro di una cosiddetta transizione ordinata, una cosa che hanno già detto molte volte negli ultimi due o tre anni.  Cosa vuol dire transizione ordinata: un’uscita di scena di Assad ma non la fine del regime, la fine dei vertici militari o dell’Esercito siriano. Un punto che non è stato interamente accettato né dagli Stati Uniti, né in parte dagli europei né dai loro, controversi, alleati.

- In poche parole Lei sintetizza perfettamente la parabola della guerra siriana: “un conflitto civile diventato quasi subito una guerra per procura tra le potenze regionali cui hanno contribuito attivamente anche gli americani”. Oltre agli enormi interessi geopolitici delle parti coinvolte e quelli relativi al controllo dei flussi del gas, spiccano gli interessi finanziari occidentali così intrecciati alle monarchie del Golfo.
Pongo questa domanda ai lettori: perché questi paesi non accolgono un profugo? Questi Paesi oggi ci “pagano” in termini di commesse militari e civili, di acquisto di bond, e quindi del nostro debito, di partecipazioni commerciali e industriali nelle imprese europee e occidentali per accogliere i rifugiati. Sono questi i veri interessi oggi. L’integrazione del mondo sunnita, soprattutto di quello meno democratico, è innervato profondamente negli interessi occidentali. È a causa di questi interessi che gli Stati Uniti e l’Europa non potranno mai condurre una politica davvero bilanciata in Medio Oriente. Siamo disposti ad avere meno posti di lavoro, meno investimenti, meno soldi pur di sganciarci da queste autocrazie di famiglia? Ne dubito. Guardiamo alla Francia, ad esempio. Hollande è stato l'unico capo di stato occidentale ad essere invitato, quest’anno, a un vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo. La Francia ha appena venduto impianti nucleari e armi a Riad. Parigi ha mollato persino il Qatar pur di vendere ai sauditi. Questi sono gli interessi veri, i più forti, quelli veramente determinati: il capitale finanziario che questi paesi investono nelle nostre economie.  

- Nel suo articolo dell’11 settembre, ha scritto che “l’Occidente non è ancora uscito dalla macchina infernale delle guerre senza senso innescata dagli attentati dell’11 settembre 2001”. Parla di “guerre senza obiettivo politico”: Iraq 2003, Libia 2011. Qui si innesta anche il problema dei profughi. Seguendo a ritroso il percorso di queste masse di persone vediamo che partono da paesi che gli Stati Uniti e l'Europa, con i loro alleati regionali, hanno contribuito a destabilizzare senza poi lavorare ad una ricostruzione. Non interferire negli affari di paesi sovrani può essere un primo passo per la soluzione al problema dei profughi?
Ero nell’ufficio di Tareq Aziz a Baghdad quando il Segretario di Stato americano, Colin Powell, fece il famoso discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 5 febbraio,  agitando la famosa fiala per provare al mondo intero l’esistenza della cosiddetta “smoking gun”, la pistola fumante, la falsa prova che gli americani esibirono sulla presenza di armi di distruzione di massa nelle mani di Saddam Hussein. Aziz non alzò mai lo sguardo verso la diretta della CNN. “Ci faranno la guerra anche se consegnassimo fino all’ultimo dei nostro kalashnikov”.  
Negli ultimi 35 anni, dalla guerra in Afghanistan, abbiamo vissuto dentro ad uno schema americano finalizzato non a costruire un nuovo ordine in Medio Oriente, come è stato detto, ma a perseguire due obiettivi: il contenimento dell’Urss prima e della Russia poi e la frammentazione degli Stati arabi della regione in modo che non ci potesse essere nessuna potenza militare, economica mediorientale che potesse essere concorrente di Israele e degli alleati arabi degli Stati Uniti. Questi sono i due obiettivi a cui tutto è stato subordinato, compresa l’intera cancellazione di nazioni come l’Iraq e la Siria. Di fronte a questa strategia ben chiara, l’Europa è disarmata perché non è stata capace di intervenire per frenare questa disgregazione e, addirittura, come nel caso della Libia e dell’Iraq, l’ha avallata e vi ha partecipato. Tutto quello che ci sta arrivando addosso sono gli effetti delle guerre e della destabilizzazione che abbiamo seminato, insieme agli Stati Uniti, in tutta l’area mediorientale e ai nostri confini.

- Sempre sulle contraddizioni occidentali, passiamo alla Turchia e al capitolo curdi. Dopo averli appoggiati in funzione anti-Isis, l’Occidente gli ha voltato le spalle. Lo “zelo” della Turchia nell’accelerare la scomparsa di Stato islamico è motivato principalmente dal desiderio del presidente Erdogan di annullare la vittoria alle urne del partito HDP che ha ottenuto il 13% dei voti in un'elezione, quella dello scorso giugno, che ha visto l’AKP perdere la sua maggioranza assoluta in Parlamento per la prima volta in oltre un decennio. La Turchia sta essenzialmente usando una finta campagna contro lo Stato islamico per giustificare un nuovo conflitto con il Pkk, colpendo in realtà tutto il movimento curdo e anche il partito politico Hdp. Qual è il quadro a un mese e mezzo dalle elezioni del 1° novembre?
L’obiettivo di Erdogan, com’è noto, è l’HDP ma i sondaggi, per ora, non danno ragione al presidente turco. Vedremo cosa succederà da qui al primo novembre ma le elezioni sono già ipotecate, nella loro regolarità, da quanto accade nell’Anatolia del sud-est, il cosiddetto Kurdistan.
C’è però un altro aspetto da sottolineare, le conseguenze politiche delle recenti mosse di Erdogan.  La decisione del presidente turco di sospendere la tregua e aprire le ostilità con il PKK e i curdi ha prodotto il ritorno in primo piano dei militari, quelle Forze Armate emarginate dalla politica e messe sotto processo proprio dall’unico – almeno finora - burattinaio della politica turca. Adesso però Erdogan ha bisogno dei militari per condurre questa guerra e il loro ritorno sulle scene rischia di condizionare le mosse del presidente. Riprova è che la stessa retorica politica del partito AKP è cambiata. Mentre prima l’accento era posto sull’aspetto neo-ottomano, sul panislamismo, oggi si è tornati al nazionalismo. Il ritorno sulla scena dei militari determina un’altra svolta nella politica interna turca, un politica già fortemente condizionata – in senso antidemocratico - dalle mosse di Erdogan che mira a riprendersi il monopolio della politica turca e diventare il leader incontrastato del paese. In questo quadro di politica interna si innesta una situazione di doppio conflitto, uno più convinto con il PKK e uno meno convinto contro l’Isis, con il paese che vede ancora di più restringersi e assottigliarsi le sue chances di cambiamento democratico. In questo senso, le elezioni del primo novembre sono in qualche modo decisive.

"Fermate la guerra che avete scatenato in Siria e vedrete che il flusso dei profughi che vi disturba si prosciugherà"

 Fermate la guerra che avete scatenato in Siria e vedrete che il flusso dei profughi che vi disturba si prosciugherà

Due vescovi e un medico di Aleppo: «Eliminare le cause della guerra. E aiutare i siriani a rimanere"


di Marinella Correggia

Gli aleppini, un popolo in faticoso cammino con le taniche d’acqua a far la spola dai camioncini cisterna alle scale di casa. Gli aleppini senza elettricità che scoppiano di caldo d’estate e non sanno come scaldarsi d’inverno. Gli aleppini e in genere i siriani ormai all’80% senza lavoro remunerato a causa della guerra - ha un reddito quasi solo chi è dipendente statale. L’impossibile, rischiosa vita quotidiana dei siriani che non riescono o non vogliono lasciare quartieri e patria è descritta nelle lettere del dottor Nabil Antaki, volontario dei Maristi Blu. La lettera n. 23 dell’8 settembre (per intero è qui: http://oraprosiria.blogspot.it/2015/09/banalizzazione-dellorrore-lettera-dai.html) ricorda quello che «non fa più notizia» nei quartieri ancora controllati dall’esercito nazionale ma presi di mira dall’al Qaeda siriana, Al Nusra: «Aleppo manca di acqua e gli abitanti hanno sofferto molta sete e molto caldo quest’estate. Non era a causa della siccità o dell'abbassamento del livello dell'acqua nell'Eufrate. La stazione di pompaggio esiste e non è stata distrutta. Siamo stati alla mercé di bande armate che hanno deciso di tagliarci l’acqua (con 40 gradi all'ombra) durante molte settimane». Così le autorità hanno scavato pozzi per fornire di acqua circa due milioni di persone: «Aleppo è diventata una gruviera».

Il medico non si limita a riferire sulla situazione ad Aleppo e sull’impegno dei volontari locali, ma ammonisce: «Nel frattempo, fermate quella che avete scatenato in Siria e vedrete che il flusso dei profughi che vi disturba si prosciugherà perché le persone preferiscono restare a casa loro e conservare la loro dignità. Non dobbiamo dimenticare le migliaia di profughi che sono morti annegati o asfissiati. Vi siete indignati solamente quando i vostri media vi hanno mostrato l'immagine straziante del piccolo Aylan su una spiaggia turca. Bisognava farlo prima, e anche adesso, dopo questo dramma.»
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Padre George Abou Khazen, francescano libanese, vicario apostolico di Aleppo per i cattolici di rito latino, è in Italia per la riunione del Pontificio consiglio Cor Unum sulla crisi siriana e irachena. L’avevamo incontrato esattamente un anno fa (http://www.scoop.it/t/notizie-dalla-siria-una-iniziativa-www-sibialiria-org/p/4027946041/2014/09/13/chi-ha-fatto-salire-l-asino-sul-minareto-lo-faccia-scendere).
Nell’emergenza quotidiana dei siriani, quanto e come incidono le sanzioni occidentali (per avere un’idea della loro ampiezza,  si legga qui: http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=2991, ndr).?

I siriani già stremati da oltre 4 anni di guerra sono puniti anche dalle sanzioni. Dobbiamo ringraziare il fatto che  la Siria ha tuttora fabbriche di medicinali che funzionano, altrimenti ci mancherebbero del tutto anche quelli. Ma la penuria è totale. Per esempio non arrivano i macchinari per gli ospedali. Tanti posti di lavoro sono stati  soppressi a causa della guerra peggiorata dalle sanzioni. Non si riesce a mandare il denaro agli studenti siriani all’estero con borsa di studio. Manca tutto e anche gli idrocarburi, perché i nostri pozzi sono nell’area controllata dal califfato.

- I siriani che cercano di arrivare in Europa scappano soprattutto dalle zone conquistate dal califfato, ma anche dai quartieri di Aleppo. L’accoglienza è importante, ma se il paese si svuota…?
E’ proprio così. La Siria si svuota del suo popolo…Noi chiediamo, con forza, sì di accogliere chi è già arrivato da voi, ma soprattutto di aiutare chi rimane, anziché favorire le partenze. L’emorragia di cervelli e braccia è enorme. I benestanti sono già andati via anni fa, accolti anche grazie alla loro disponibilità di capitale. La classe media se ne sta andando adesso, vendono la casa e partono cercando asilo. Sono partiti in questi anni di guerra 35.000 medici, dopo aver studiato del tutto gratis. Se ne vanno tanti giovani che non vogliono rischiare la vita facendo il servizio militare di leva.

- Rimangono i poveri. Perché non si pensa a eliminare le cause di questo fenomeno?

Già, le cause. E’ proprio impossibile che finisca la guerra, alimentata da interventi armati occidentali diretti – come in Iraq e Libia – e indiretti - come in Siria? Un sondaggio pubblicato dal Washington Post su siriani delle 14 province del paese rivela che il 64% di loro ritiene possibili soluzioni diplomatiche, il 65% ritiene che si possa tornare a convivere e il 70% è contrario alla divisione del paese. 
Certo! La pace non è mai impossibile. Anche in Libano sembrava che il conflitto sarebbe durato per sempre. E nell’operare per la pace tutti possono avere un ruolo. Ricordo che per esempio l’avvio di negoziati fra israeliani e palestinesi, decenni fa, iniziò perché il sindaco di Betlemme fu invitato in Italia e da lì iniziarono una serie di passi…anche se l’esito non è stato molto felice. Ma se la guerra va avanti, e se la Siria cade nelle mani del califfato e dei suoi cugini, se viene spezzettata in staterelli, è finita per tutto il Medioriente. Come prima cosaoccorre un cessate il fuoco e un processo politico. Il governo siriano ha aperto all’opposizione ma ovviamente non si può accettare che abbiano una parte anche gli 85.000 combattenti stranieri, sostenuti dall’estero. Bisogna guardare alle cause della tragedia ed eliminarle… Grandi potenze straniere e gruppi tuttora appoggiano economicamente gruppi armati. Che sono più o meno come lo Stato islamico, come Jabath al Nusra e altri.

- E allora come sconfiggere il califfato dell’Isis, che l’82% dei siriani intervistati dal suddetto sondaggio ritiene creato dagli Stati uniti e comunque dall’estero? Che cosa può fare l’Italia, che finora ha agito al traino di Usa, Arabia saudita, Qatar, Turchia, Francia e Gran Bretagna, contribuendo all’escalation?

Vanno chiusi i rubinetti! Da dove entrano le armi? E i camion e i mezzi militari fiammanti? Chi addestra e chi fa passare uomini venuti da combattere da tutto il mondo in Siria e Iraq? E chi compra il petrolio dei giacimenti che adesso sono controllati dall’Isis in Siria e Iraq? Chi compra dai terroristi i reperti archeologici iracheni e siriani, il tesoro forse più ricco al mondo? (ndr. Questo ha anche dichiarato padre George in un’intervista a la 7: https://www.youtube.com/watch?v=9yLccuQp17E).  Mi chiedo poi come mai non tagliano le linee di approvvigionamento: abbiamo tutti visto nel deserto i mezzi dell’Isis incolonnati, era così difficile fermarli? E perché non tagliano le comunicazioni? E’ tutto possibile, se si vuole, con la tecnologia.. Ma forse il califfato è servito e continua a servire... 

Dal punto di vista dell’aiuto materiale a chi rimane in Siria, che cosa possono fare paesi, gruppi e singole persone?

Tanto! I Fratelli Maristi, la Caritas, la Mezzaluna siriana si danno da fare con l’aiuto della popolazione, in fratellanza. Direttamente gestiamo il programma di fornitura di acqua con camioncini muniti di serbatoi, pompe e generatore. Un ospedale religioso cura gratuitamente i feriti gravi di guerra. Distribuiamo alimenti e pasti caldi. Organizziamo attività pedagogiche per i bambini e gli adolescenti. Ci piacerebbe anche  «adottare una…finestra»: ovvero aiutare chi rimane a riparare in parte le case danneggiate. Così oltretutto si darebbe lavoro ad artigiani. 
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Monsignor Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo,  presidente di Caritas Siria, è intervenuto alla conferenza stampa «Cristiani di Siria: aiutateci a rimanere» organizzata da Aiuto alla Chiesa che soffre, Roma 16-IX-2015. 

Chi rimane, e l’esodo che contribuisce alla rovina del paese

«Quando vado per strada ad Aleppo vedo miseria ovunque…i ricchi sono partiti da un pezzo, la classe media è diventata povera, i poveri si sono immiseriti. Le sanzioni alla Siria contribuiscono alla disgrazia». 
«Conosco l’esperienza degli immigrati cristiani caldei che dall’Iraq sono arrivati in Siria. È un’esperienza di morte, di fine della presenza cristiana. Cerco quindi di far rimanere le persone qui, anche se capisco chi va via».
«I ragazzi scappano per non rischiare la vita con il servizio di leva. Tanti  vanno via perché non si sa quando finirà la tragedia, e la povertà spinge via. Inoltre l’Occidente esercita un’attrattiva forte».
Le colpe e i colpevoli
«Aleppo si trova a 40 chilometri dal confine con la Turchia che accoglie gruppi armati, li forma, li arma; da almeno 5 punti lanciano attacchi ai nostri quartieri. Ho paura che Aleppo faccia la fine dell’irachena Mosul…».  
«Tutta questa guerra ha lo scopo di distruggere e dividere la Siria, per interessi strategici esterni e per il commercio di armi. Gli estremisti armati sono sostenuti da varie potenze sunnite». 
«Da 5 anni aspettiamo una soluzione, ma sembra che ci sia la determinazione di continuare  la guerra fino a distruggere tutto, tutto come in Iraq, come in Libia, come in Yemen».
Il rimpianto della convivenza
«Non vorremmo in Siria parlare di persecuzione, non è la nostra storia. Questa non è la Siria, sono gruppi e pensieri che arrivano dall’esterno. Cristiani e musulmani hanno sempre convissuto, superando i conflitti… ». 
La pace è sempre possibile, ma…
«Una soluzione politica, negoziale è ancora possibile, i siriani sono capaci di riconciliazione.».
All’Agenzia stampa Fides, monsignor Audo spiega: «Noi facciamo di tutto per difendere la pace mentre in Occidente dicono di fare tutto in difesa dei diritti umani, e con questo argomento continuano anche ad alimentare una guerra infame. E' il paradosso terribile in cui ci troviamo. Non riusciamo più a capire cosa vogliono davvero».

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