ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 9 settembre 2015

Volere e pentere insiem non puossi


Prime e seconde nozze. Anche Dante dice la sua


Dante
Il doppio motu proprio di papa Francesco pubblicato ieri, che entrerà in vigore l’8 dicembre con l’apertura del giubileo della misericordia, ha dilatato a dimensioni di “masse” le occasioni di riconoscimento di nullità dei matrimoni celebrati in chiesa.
Gli effetti della svolta si misureranno alla prova dei fatti. Ma sarà anche da vedere quanto incideranno fin da subito sul sinodo del prossimo ottobre.

Nel frattempo, la discussione ospitata in Settimo Cielo sulla “vexata quaestio” della comunione ai divorziati risposati si arricchisce di un paio di nuovi interventi, di Paolo Picco e di Lorenzo Da Pra Galanti, più quest’altro di Giovanni Passali già pubblicato nel suo blog:
Eccoli l’uno di seguito all’altro.
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Gentile Magister,
nel precedente post Michele Sebregondio fa discorsi un po’ strani: per giustificare le sue tesi sulle seconde nozze (a coniuge ancora vivo) tira in ballo la misericordia verso Pietro che aveva rinnegato Gesù.
Ma – restando nella logica di Sebregondio, che commisura i due esempi di peccato – come si può confrontare un peccato fatto in un momento di agitazione e di panico, per la paura di gravi conseguenze immediate, come quello di Pietro (il quale poco dopo, pentitosi, pianse amaramente), con quello di un secondo matrimonio, che sarebbe inevitabilmente un peccato pianificato, programmato, addirittura festeggiato?
Cosa fanno questi sposi? Il secondo matrimonio lo celebrano e al tempo stesso se ne pentono?
Anche Dante diceva “che volere e pentere insiem non puossi, per la contradizion che nol consente”…
Cordialmente.
Paolo Picco
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Gentile Magister,
stimolato dagli interventi di Michele Sebregondio e di Gustavo Pares,  vorrei aggiungere una riflessione sul tema della comunione ai cosiddetti “divorziati risposati” (uso “cosiddetti” in quanto il primo matrimonio, ove concordatario e quindi retto dal diritto canonico, non può essere sciolto da divorzio ma al massimo ne possono cessare gli effetti civili, quindi la definizione sintetica è necessariamente impropria).
Pares si rivela allibito per i vizi logici nel ragionamento di Sebregondio. Ritengo invece che il vero punto critico consista nel fatto che il suo intervento, come quelli di altri di illustri pastori e teologi favorevoli a un aggiornamento della pastorale, è viziato non da mancanza di logica ma da un errore di partenza.
A mio parere tale errore consiste nel fatto che il peccato da perdonare viene collocato nel passato e non nel presente. Il peccato stesso è infatti identificato in un supposto adulterio da parte di uno dei coniugi, assunto come motivo del fallimento del primo matrimonio, e non, come sarebbe corretto, nell’instaurarsi e nel permanere nella seconda unione.
Se si ha chiaro questo punto, si capisce anche perché Sebregondio chiuda il suo intervento chiarendo di aver considerato solo due casi: “o il matrimonio non è valido per un suo vizio intrinseco” e quindi la strada da percorrere è la solita della procedura di verifica dell’eventuale nullità, oppure “è stato valido, ma tradito”. Egli quindi colloca il tradimento nel passato, tradimento visto solo come motivazione del fallimento del primo matrimonio.
Partendo da tale premessa, il coniuge abbandonato, definito da Sebregondio “parte offesa”, dovrebbe “saper perdonare”, mentre il coniuge traditore dovrebbe seguire un percorso per il pieno reinserimento nella comunità ecclesiale, aiutato anche da una (per me oscura e fumosa) “ricontestualizzazione” del sacramento del matrimonio, attualmente “sovraccaricato di senso”, che dovrebbe essere effettuata dai teologi. Il coniuge divorziato che si risposa è quindi visto come un “peccatore che si pente” (dell’antico adulterio), ma che il Padre vuole comunque perdonare e che quindi non possiamo escludere dalla comunione. Secondo questa visione, la seconda unione non è minimamente riconosciuta come peccato, ovvero violazione della promessa di fedeltà ed esclusività assunta sacramentalmente con il primo vincolo, ma è vista come un “nuovo inizio”, una nuova possibilità data alla vita di colui che tempo prima si è macchiato di peccato. Tale “nuovo inizio” è addirittura paragonato a quello di Pietro, che dopo aver rinnegato Gesù ha potuto riprendere il suo cammino.
In realtà, purtroppo, chi parte da questo approccio non considera minimamente che i matrimoni possono entrare in crisi per molti motivi, colpevoli o non colpevoli, di cui il tradimento non è che uno, e spesso non il più determinante. Oltre all’incompatibilità dei caratteri degli sposi, che non costituisce di per sé alcuna colpa e che può portare ad insopportabili situazioni di sofferenza, possono esistere molti altri comportamenti e divergenze che non costituiscono “peccati” (o almeno “peccati gravi”) ma che comunque possono determinare un logoramento irreparabile del vincolo. Di fronte a tutte queste situazioni che possono non comportare alcun giudizio di colpevolezza di uno o entrambi i coniugi, la Chiesa, nella sua saggezza, ha da secoli introdotto come rimedio l’istituto della separazione personale dei coniugi.
In realtà, mi sento imbarazzato a doverlo ricordare a chi ha infiniti titoli più di me, che non ne ho alcuno in questo campo, il “peccato”, l’”adulterio” che separa dalla comunione ecclesiale non è l’antico tradimento del primo coniuge – se mai vi è stato, e che può comunque essere già stato perdonato da anni in sede di confessione sacramentale, così come dal coniuge offeso – ma è proprio e soltanto quello che si verifica con la nuova unione e che offende la prima promessa matrimoniale, che il Vangelo dichiara irrevocabile e quindi ancora e comunque valida e impegnativa. È proprio il “nuovo inizio” che Sebregondio vorrebbe incoraggiare, che incarna il peccato, e il suo riferimento a Pietro prova il contrario di quanto egli crede. Pietro ha potuto riprendere il suo cammino proprio perché è tornato a Gesù. Si potrebbe forse dire lo stesso se Pietro, dopo il triplice rinnegamento, si fosse fatto seguace di un altro maestro spirituale, come un Budda, un Confucio? Eppure questo sarebbe un parallelo più calzante da applicare al caso di chi, dopo aver rinnegato l’impegno assunto con il primo matrimonio si impegna in una nuova unione.
È certamente vero che molti, “pur avendo commesso terribili peccati (addirittura ucciso delle persone) sono stati riammessi a pieno titolo nella comunità cristiana”, ma di sicuro per essere riammessi hanno dovuto ad un certo punto smettere di commetterli! E ciò è pienamente confermato anche dall’invito di Gesù all’adultera, citato proprio da Sebregondio. I due esempi evangelici citati da Sebregoncdio come prova dei propri ragionamenti sono i primi a smentire la sua tesi.
Con stima e cordiali saluti.
Lorenzo Da Pra Galanti
Milano

Settimo Cielodi Sandro Magister 09 set


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