Guarda come gioca Dolan
Il cardinale Timothy Dolan
New York. A New York il Cardinale
Timothy Dolan intrattiene calorosamente Francesco nel suo modo informale
e televisivo, correndo perfino il rischio di rubare, anche soltanto per
un attimo, la scena al Pontefice che gioca fuori casa. Il suo “thanks
for stopping by, come back soon!” con tanto di gesto dell’okay,
ricambiato dai pollici alzati di un sorridente Francesco, è diventato un
meme, faccenda normale per un cardinale ad altissima capacità di
penetrazione mediatica. A Roma, invece, precipita nel ruolo di
cospiratore, obliquo ed eterodiretto firmatario di lettere preoccupate
per le procedure del Sinodo, fatto che diventa di sostanza più che di
forma se le suddette tendono a favorire certi esiti piuttosto che altri.
Dentro l’aula del Sinodo dice senz’ombra di ambiguità che quando si parla di matrimonio e famiglia, “il nostro dovere è seguire Gesù nel richiamare e ripristinare ciò che il Padre intendeva ‘al principio’”, mentre il “realismo pastorale e la compassione” vengono dopo, molto dopo. Quando Dolan si è trovato in mezzo alla “tempesta in un bicchier d’acqua”, come l’ha definita lui, della famosa lettera ha affrontato la controversia con il suo stile solito, che prescrive di andare sempre avanti, mai indietro, di parlare apertamente senza perdersi nelle smentite sui dettagli, che danno segnali di arroccamento difensivo e incapacità di dialogo.
ARTICOLI CORRELATI Appello per un sinodo laico Commissione post sinodale sui divorziati risposati? Il card. Ouellet: "Se il vincolo c'è, non si può fare nulla" E' anche per i bambini che la chiesa è contro il divorzio Pastori americani in subbuglio Alla Radio Sirius XM ha raccontato il retroscena della lettera, che poi retroscena proprio non è. Ha spiegato che da una conversazione con il cardinale George Pell sono emerse le preoccupazioni messe nero su bianco e che i tredici hanno firmato e fatto avere al Papa: “Pell, nel suo buon modo accorto, ha detto: ‘Dico bene se sintetizzo così alcune delle preoccupazioni?’. E alcuni di noi, io incluso, abbiamo detto ‘ci sembra buono, se manderà una lettera al Papa può contare su di noi’, e puoi scommetterci che l’ho firmata”. Al sito Crux ha ribadito il concetto: “Ho detto, eccoci qua, Padre, ci ha detto di essere onesti e lo siamo stati. Ha risposto a queste preoccupazioni. Sono grato che abbia prestato attenzione”. E ancora: “Mi sembra che per Francesco, e quelli che lo conoscono meglio me lo confermano, questo sia parte della spiritualità ignaziana: la confusione, il caos, le domande sono una cosa buona”, mentre le cose “prevedibili e molto strutturate” a volte possono essere “un ostacolo al lavoro della grazia”. C’è chi ha letto in queste parole l’ammissione che il porporato americano ha firmato la lettera dietro pressione dello stesso Pell, accodandosi all’ispiratore australiano e diventando l’ignaro firmatario di una lettera in bianco. Cosa che suggerisce, nemmeno troppo velatamente, che Dolan non è “his own man”, come si dice in America, ma in questo caso in qualche modo la vittima di più alte manovre. Vittima di un complotto incastonato dentro a un altro complotto: l’ermeneutica cospirativa è un mestiere faticoso. Per Dolan, piuttosto, si tratta di un elementare esercizio di parresia, faccenda consueta per il cardinale che è stato definito il modello di “conservatore aperto al mondo”, teologo saldo e senza impeti novatori ma che non si mette sulla difensiva nemmeno quando parla con il New York Times di abusi sessuali del clero. Lo stesso che assieme ai suoi colleghi americani era stato ripreso dalla Santa Sede per un atteggiamento un po’ troppo loquace durante il Conclave, e ai fedeli della sua diocesi prima di partire non aveva chiesto, francescanamente, di pregare per lui, ma di mandargli del burro di arachidi se non fosse rientrato entro tre settimane.
Quello che si è presentato a Roma per il Sinodo non è il doppelgänger
del dialogante e spigliato pastore newyorchese, non è l’anima rigida,
curiale, in un corpo abituato ai riflettori, agli appuntamenti di gala,
ai dialoghi pubblici con personalità lontane dalla sensibilità della
chiesa. Se c’è una cosa che il viaggio di Francesco in America ha
mostrato, con potenza di gesti e di parole, è l’irriducibilità del
cristianesimo a una questione fra conservatori e progressisti, fra
repubblicani e democratici, e nella sua parabola pastorale Dolan già da
tempo incarna il tentativo di superare uno schema politico diffuso in
occidente, ma che in America ha assunto una particolare rigidità. Non
che abbia offerto misericordia a buon mercato quando si è trattato di
dare battaglia: sulle restrizioni dettate dall’Obamacare ai cristiani
nello spazio pubblico è arrivato fino a suggerire la via della
disobbedienza civile, ha dato a Barack Obama lezioni di diritto
costituzionale definendo “anti americana” la sua posizione restrittiva
sulla libertà religiosa, da capo della conferenza episcopale ha
contrattaccato senza equivoci il “secolarismo riduttivo” di cui parlava
Benedetto XVI. Ha scritto di recente che i cattolici sono la “nuova
minoranza”. Allo stesso tempo non ha mai chiuso, e anzi ha allargato gli
spazi di dialogo ed evangelizzazione, come dimostra, da ultimo,
l’investimento notevole per la resurrezione del moribondo Archbishop
Fulton J. Sheen Center for Art and Culture, spazio di incontro nel cuore
di Manhattan per “esprimere la bellezza e la profondità del
cattolicesimo”. Il pastore con il bernoccolo per la comunicazione e un
vasto apparato digitale gioca nello stesso campo di Francesco. Esibisce
uno stile marcatamente nordamericano, inevitabilmente diverso da quello
latinoamericano e periferico di Francesco, ma nella volontà caritatevole
di aprirsi e dialogare, senza arroccamenti e barriere difensive, si
riconosce un canone condiviso. Alla vigilia del Sinodo condivideva con
altri cardinali e vescovi alcuni dubbi sulle procedure, e le ha
espresse: niente di più dolaniano; il Papa ha irritualmente preso la
parola in assemblea per rispondere: niente di più bergogliano. Nelle
interviste e nell’intervento in aula ha chiarito in modo esplicito non
soltanto che i cambiamenti dottrinari non sono sul tavolo, ma non
dovrebbero esserlo nemmeno quelli pastorali che rischiano, per
affermazione di una prassi, di svuotare nel tempo la dottrina. Il suo
endorsement appassionato alla “saggezza che toglie il respiro” della
chiesa africana, che non è “più fatta di matricole”, è un’affermazione
chiara per chi vuole intendere, ma non fa di lui la macchietta di un
conservatore. Non esiste un conciliante Dolan newyorchese e un ferreo
Dolan romano, esiste un solo cardinale, abituato a parlare con parresia
al mondo e alla chiesa.
di Mattia Ferraresi | 17 Ottobre 2015
Dentro l’aula del Sinodo dice senz’ombra di ambiguità che quando si parla di matrimonio e famiglia, “il nostro dovere è seguire Gesù nel richiamare e ripristinare ciò che il Padre intendeva ‘al principio’”, mentre il “realismo pastorale e la compassione” vengono dopo, molto dopo. Quando Dolan si è trovato in mezzo alla “tempesta in un bicchier d’acqua”, come l’ha definita lui, della famosa lettera ha affrontato la controversia con il suo stile solito, che prescrive di andare sempre avanti, mai indietro, di parlare apertamente senza perdersi nelle smentite sui dettagli, che danno segnali di arroccamento difensivo e incapacità di dialogo.
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di Mattia Ferraresi | 17 Ottobre 2015
Pastori americani in subbuglio
La questione “yankee” resta aperta. Il caso del vescovo di Newark, l'attacco di Chaput
di Matteo Matzuzzi
| 17 Ottobre 2015
Francesco e mons. Charles J. Chaput lo scorso settembre a Philadelphia (LaPresse)
Roma. Il problema americano di
Francesco, come era facilmente intuibile (era sufficiente leggere il
discorso ai vescovi pronunciato nella cattedrale di Washington) non s’è
risolto con il viaggio dello scorso settembre negli Stati Uniti. Mentre
al Sinodo romano si duella in punta di fioretto a colpi di teologia
sull’annosa questione della riammissione alla comunione dei divorziati
risposati – per farsene un’idea basta considerare la mole di interventi
sul tema di cui ha dato conto padre Federico Lombardi – oltreoceano c’è
chi va avanti per conto suo. L’arcivescovo di Newark, mons. John J.
Myers, ha infatti spedito a tutti i sacerdoti della propria diocesi nel
New Jersey un documento di due pagine in cui ribadisce che è severamente
vietato loro far accostare al sacramento dell’eucaristia quanti si
trovano in unioni irregolari (la fattispecie classica è quella dei
divorziati e risposati) e contrarie all’insegnamento cattolico. Non
solo, perché la comunione non va data neppure a chi sostiene candidati
abortisti o che difendono i diritti degli omosessuali, compresa la
rivendicazione di poter convolare a nozze. Un’istruzione che
ufficialmente è stata inoltrata in vista dell’imminente tornata
elettorale, ma che è capitata nel cuore del confronto sinodale,
alimentando il dibattito già aspro anche negli Stati Uniti. Mons. Myers
si è anche raccomandato che le istituzioni cattoliche poste sotto la sua
giurisdizione non ospitino “persone od organizzazioni contrarie agli
insegnamenti della chiesa”. Il documento, intitolato “Princìpi d’aiuto
nel preservare e proteggere la fede cattolica in mezzo a una cultura
sempre più secolare”, datato 22 settembre, è stato spedito solo questa
settimana, ha scritto il Religion News Service.
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L’inatteso intervento del card. Ouellet
Ma anche a Roma sono gli americani (assieme a polacchi e africani) a far sentire con maggiore forza la propria voce, senza cedere al forbito quanto spesso fumoso linguaggio diplomatico-ecclesiastico. E’ il caso, ad esempio, di quanto scritto sul Wall Street Journal dall’arcivescovo di Philadelphia, mons. Charles J. Chaput, che ha fatto gli onori di casa per l’Incontro mondiale delle famiglie, lo scorso settembre. “Come supremo pastore della chiesa cattolica – ha sottolineato Chaput parlando di Francesco – egli può ascoltare il consiglio (dei padri, ndr), ignorarlo o fare qualcosa tra queste due strade. Ma sarebbe raro che un vescovo di Roma non tenesse in considerazione il consenso dei suoi fratelli”, visto che è così che “i sinodi hanno un valore collegiale”. Chaput è anche il relatore del circolo minore (Anglicus D, moderato dal cardinale canadese Thomas Collins) che più duramente si è espresso contro l’Instrumentum laboris, il testo che fa da guida ai lavori nell’Aula nuova, arrivando a mettere nero su bianco che “l’Instrumentum laboris non offre alcuna definizione di matrimonio” e che questa è “una grave mancanza che provoca ambiguità in tutto il testo”.
Che il cuore del dibattito sia rappresentato dalla questione dei
divorziati risposati lo dimostra anche quanto detto dal cardinale
Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, che in assemblea
plenaria ha ribadito che “si dovrebbe prendere in seria considerazione
la possibilità – relativamente al singolo caso e non in modo
generalizzato – di consentire ai divorziati e risposati l’accesso al
sacramento della penitenza e della santa comunione”. Il vescovo di
Orano, Jean-Paul Vesco, ha invitato i padri a prendere atto che “non si
riuscirà mai a evitare che alcuni matrimoni falliscano”. Così, ha
aggiunto, “dobbiamo guardare in faccia questa realtà”. Dal fronte
opposto è arrivata però la netta presa di posizione del prefetto della
congregazione per i vescovi, il cardinale Marc Ouellet. Solitamente
misurato nei toni e poco propenso a interventi pubblici, il porporato
canadese ha detto a Radio Vaticana che “la posizione di Familiaris
Consortio è la dottrina tradizionale della chiesa, confermata da san
Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI”. “Se il vincolo coniugale e
sacramentale indissolubile c’è – ha aggiunto – lì non possiamo, senza
cambiare la dottrina, proporre un accesso ai sacramenti, perché questo è
un punto dottrinale”.
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L’inatteso intervento del card. Ouellet
Ma anche a Roma sono gli americani (assieme a polacchi e africani) a far sentire con maggiore forza la propria voce, senza cedere al forbito quanto spesso fumoso linguaggio diplomatico-ecclesiastico. E’ il caso, ad esempio, di quanto scritto sul Wall Street Journal dall’arcivescovo di Philadelphia, mons. Charles J. Chaput, che ha fatto gli onori di casa per l’Incontro mondiale delle famiglie, lo scorso settembre. “Come supremo pastore della chiesa cattolica – ha sottolineato Chaput parlando di Francesco – egli può ascoltare il consiglio (dei padri, ndr), ignorarlo o fare qualcosa tra queste due strade. Ma sarebbe raro che un vescovo di Roma non tenesse in considerazione il consenso dei suoi fratelli”, visto che è così che “i sinodi hanno un valore collegiale”. Chaput è anche il relatore del circolo minore (Anglicus D, moderato dal cardinale canadese Thomas Collins) che più duramente si è espresso contro l’Instrumentum laboris, il testo che fa da guida ai lavori nell’Aula nuova, arrivando a mettere nero su bianco che “l’Instrumentum laboris non offre alcuna definizione di matrimonio” e che questa è “una grave mancanza che provoca ambiguità in tutto il testo”.
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