ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 18 dicembre 2015

Non bastano neppure due secoli e mezzo, a dire la verità


UN'EUROPA CRISTIANA O IL NULLA                                                     Attualità di T.S.Eliot: o rifondare un’Europa cristiana o il nulla. Amico di Ezra Pound vide le premesse della degenerazione europea: una società per esistere non è soltanto una somma aritmetica di individui e dei loro egoismi                                                                              di Francesco Lamendola  

  
Di grande attualità ci sembra, ai nostri giorni, un saggio che il grande poeta Thomas Stearns Eliot – americano naturalizzato inglese, nato a Saint-Louis nel 1888 e morto a Londra nel 1865, autore di capolavori come «La terra desolata» (1922) e «Assassinio nella cattedrale» (1935) - scrisse, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, quando già spiravano terribili venti di distruzione sull’Europa e sulla sua civiltà: «L’idea di una società cristiana» (1939).
Eliot, massimo esponente del modernismo anglosassone, insieme al suo amico Ezra Pound (niente a che vedere con il modernismo teologico), era anche un pensatore di buon livello, che sentiva con angoscia, ma sapeva anche analizzare con estrema lucidità, la crisi che il nostro continente stava vivendo, e le cui origini, com’egli vide, partivano da lontano: per lo meno dall’Illuminismo, dal quale nacque il progetto di sradicare la tradizione cristiana per sostituirla con una nuova religione laica e deista, sulla misura della ragione umana, fondata sui diritti e sulle libertà.
Eliot vide che da tali premesse non poteva che derivare, come infatti accadde, una progressiva degenerazione in senso utilitarista ed economicista: una corsa al profitto finanziario; una crescente speculazione del capitale a danno del lavoro; una massificazione ed un appiattimento culturale; una alienazione generalizzata; un tradimento dei bisogni spirituali ed estetici dell’umanità, camuffato sotto le apparenze di un democraticismo che, con la scusa di accontentare tutti, e di promuovere tutti al godimento di una libertà assoluta, avrebbe condotto alla dissoluzione inesorabile del corpo sociale. Una società, per esistere, non è soltanto una somma aritmetica di individui e dei loro egoismi personali; non è, né può essere, soltanto una corsa al benessere materiale; e neppure una gigantesca macchina per produrre, in maniera disordinata, sempre più beni, attraverso il sistema della catena di montaggio.
Essa ha bisogno di un collante spirituale, e tale collante era stato offerto all’Europa, per millecinquecento anni, dalla religione cristiana: il tentativo di sradicarlo, operato dalla cultura illuminista, che si prolunga fino ai nostri giorni, si risolve in una operazione suicida: nessuna società può vivere senza una religione, e l’Europa non può sopravvivere senza il cristianesimo, l’unica religione che proponga all’uomo dei valori realmente universali. Lo stesso Robespierre – aggiungiamo noi - si accorse che la scristianizzazione operata dalla Rivoluzione francese avrebbe trascinato la società verso il caos, e tentò di correre ai ripari, fondando una nuova religione: il culto dell’Essere Supremo; aveva visto giusto, ma non aveva considerato che una religione non si fonda in due o tre mesi e, soprattutto, non si radica in una società, se non coglie l’essenza della natura umana, dei suoi bisogni, delle sue autentiche aspirazioni.
Non bastano neppure due secoli e mezzo, a dire la verità: oggi, infatti, siamo allo stesso punto del 1794al tentativo di fondare una nuova religione, laica e massonica, capace di sostituire la tradizione cristiana e perfino, secondo le illusorie aspettative dei suoi sostenitori, di inglobare nella civiltà europea la religione islamica, o, quanto meno, i milioni d’immigrati islamici che si sono riversati sull’Europa negli ultimi trent’anni, e che continuano ad affluire in progressione geometrica. La verità è che il progetto di fondare una nuova religione razionalista, fondata sui diritti e sulla cittadinanza, ma slegata da ogni autentico e profondo senso di appartenenza, è clamorosamente fallito; e l’ostinarvisi delle nostre élites intellettuali tradisce o la loro totale inconsapevolezza e irresponsabilità, o la loro deliberata volontà di autodistruzione.
La verità è che una civiltà come la nostra, che non  riesce più ad amare, né a rispettare neppure se stessa, non potrebbe mai riuscire ad assorbire, né a integrare, elementi di altre civiltà: questa è una cosa che essa potrebbe proporsi di fare solo se fosse salda sulle proprie basi e in piena fase di espansione, non certo ora che stenta perfino a trovare delle valide ragioni per sopravvivere e resistere al richiamo nichilista del “cupio dissolvi”.
In effetti, il fenomeno era già evidente ai tempi di Eliot: egli denunciò la genia dei “liberi pensatori ebrei” che seminavano i germi della dissoluzionedel dubbio, della bruttezza, del disorientamento, della disaffezione verso le radici, del cosmopolitismo utilitaristico, del disprezzo della tradizione, della famiglia, dei valori cristiani: cosa che gli valse, al pari di Pound (dal quale lo divideva la diagnosi: lui credeva nella rinascita della cristianità, l’altro vagheggiava una spiritualità di matrice orientale o neo-pagana), il sospetto, l’avversione e la censura della cultura politically correct, la quale, non potendo scalfire la sua grandezza di scrittore, preferisce, oggi, passare più o meno sotto silenzio la sua attività di saggista e la sua opera di pensatore.
Riportiamo una pagina dal libro del saggista e critico americano Raymond Williams – che non gli è, nella sostanza, favorevole, pur riconoscendone l’acutezza - «Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra 1780-1950» (titolo originale: «Culture and Society 1780-1950», London, Chatto & Windus, 1961; traduzione dall’inglese di Maria Teresa Grendi, Torino, Einaudi, 1968, pp. 274-276):

«… Una comunità cristiana, Eliot afferma, è una comunità “nella quale vige un codice unificato di condotta religiosa e sociale” (“The Idea of a Christian Society”, London 11939, ; trad. it. Milano, 1948, p.p. 44-45). Un’organizzazione cristiana della società sarebbe quella “dove il diritto a conseguire il fine naturale dell’uomo – cioè la virtù ed il benessere condiviso con il prossimo – verrebbe riconosciuto a tutti, ed il diritto al fine ultraterreno – cioè la beatitudine - a coloro che hanno occhi per vederlo” (ibid).
Nella situazione attuale, tuttavia, “una gran parte del meccanismo della vita moderna serve soltanto a sanzionare scopi non cristiani; che essa non è solo ostile ad un’aspirazione sincera dei pochi verso la vita cristiana alla conservazione stessa della società cristiana in tutto il mondo” (p. 44).
Una società cristiana non si realizzerà semplicemente cambiando questo “meccanismo”, tuttavia ogni esame di esso deve condurre a “problemi quale l’assurgere del profitto individuale a idea sociale, la distinzione fra l’uso delle risorse naturali ed il loro sfruttamento, il profitto eccessivo del commerciante in confronto a quello del produttore, l’indirizzo errato dato alla macchina finanziaria, l’iniquità dell’usura, ed altri caratteri d’una società commercializzata che debbono venire vagliati secondo principi cristiani… Noi stiamo accorgendoci che l’organizzazione della società sulle basi del profitto individuale e della distribuzione collettiva dei beni conduce sia al deturpamento dell’umanità attraverso un industrialismo indisciplinato, sia al’esaurimento delle risorse naturali. Buona parte del nostro progresso  materiale sarà pagata, forse, a caro prezzo dalle generazioni future” (pp. 43 e 79).
L’industrialismo, quando non è regolato, tende a creare non una società ma una plebaglia.  Il complesso religioso-sociale sul quale può fondarsi un’organizzazione cristiana della società è in tal modo indebolito o distrutto:
“Quel che piuttosto mi sorprende è che in una società industrializzata come quella inglese, il popolo conservi quel tanto di cristianesimo che c’è ancora… Si potrebbe dire che nella sua organizzazione religiosa, la Cristianità è rimasta  ferma ad un grado di sviluppo adatto  aduna società di agricoltori e di pescatori, e che l’organizzazione materiale della vita moderna (possiamo anche dire “complicazione” per chi intende “organizzazione” come un complimento) ha creato un mondo al quale le forme sociali cristiane  sono male adattate” (pp. 39-40 e 41).
In tale stato di disintegrazione,  o squilibrio, il progresso  materiale o fisico non può essere  se non qualcosa di secondario: ”Una folla non cesserà di essere tale  soltanto perché ben nutrita, ben vestita, alloggiata in belle case e ben disciplinata” (p. 29).
È possibile che dal liberalismo noi ereditiamo soltanto i frutti del suo disordine, mentre la democrazia, nei cui termini noi tendiamo a definire i nostri fini sociali, significa troppe cose per significare un fine verso il quale una società può indirizzare la sua intera esistenza.  In questa critica del liberalismo e della democrazia, Eliot ripete essenzialmente Carlyle: entrambi sono movimento che si allontanano da qualcosa, e possono giungere a qualcosa di molto differente  dallo scopo per cui erano sorti, o altrimenti, in termini sociali, non giungere assolutamente a nulla di positivo
“The Idea of a Christian Society”, nel suo senso generale, più che a formulare una specie di programma, serve a distinguere il concetto cristiano di società da altre idee con cui  stato confuso, o dalle quali è chiaramente negato. Compito di Eliot è di confessare un atteggiamento, ed è un punto essenziale in questo atteggiamento l’asserzione che la formulazione di programmi non possa avere la priorità. Osserva, per esempio, in un passaggio che porta direttamente al genere di indagine affrontata in “Notes Towards the Definition of Culture” (“Appunti per una definizione della cultura”): “Purtroppo nessun progetto di riforma sociale può mirare direttamente ad uno stato di cose che sia propizio ad una fioritura artistica: è probabile, infatti, che le arti siano attività derivate per le quali è impossibile preparare deliberatamente un terreno favorevole. Tuttavia, il loro decadimento può sempre venir preso come sintomo di una infermità sociale che deve essere analizzata” (p. 52).
E continua osservando: “Ma la costante silenziosa influenza che si esercita in ogni società di massa imperniata sul profitto, e che conduce all’abbassamento del livello artistico e culturale, mi pare più insidiosa d’ogni forma di censura. La macchina sempre più perfezionata dell’organizzazione pubblicitaria e della propaganda – ossia la tecnica per influire sulle masse con ogni mezzo tranne che con l’appello alla loro intelligenza – agisce contro l’arte e la cultura. Ostili ad esse sono pure i sistema economico, il caos degli ideali e la confusione di pensiero che distinguono la nostra educazione tipicamente di massa, infine la scomparsa di una classe che riconosca l’obbligo personale e collettivo di prendere atto il suo patronato quanto di meglio viene fatto e scritto” (pp. 52-53).»

Ora, il compito che abbiamo davanti a noi, sulla scia di analisi lucide e sempre valide, come quella di Thomas Stearns Eliot, è quello di rifondare un progetto educativo europeo e cristiano, dal quale possa rinascere una élite intellettuale fedele alla tradizione, e capace, così, di raccoglierne i grandi valori spirituali – il lavoro; la famiglia; la dignità della persona; la libertà; la bellezza -, reagendo all’opera nefasta di distruzione che hanno compiuto generazioni di intellettuali senza radici, senza patria, senza amore per la civiltà che li ha allevati e nutriti, senza senso di appartenenza, senza fedeltà verso niente e nessuno, malati di un ego ipertrofico e propensi a giocare con mille esperimenti politici, sociali, culturali, come se il mondo fosse un teatro dei burattini allestito per i loro capricci, per le loro ossessioni, per le loro deliranti elucubrazioni.
Compito immenso, ciclopico, e tale da scoraggiare anche un Ercole: e nondimeno, compito necessario, indispensabile e assolutamente improcrastinabile. Ne va della nostra sopravvivenza, della sopravvivenza della nostra civiltà, costruita attraverso due millenni di storia, di lavoro, di sacrifici, di pensiero, di fede, di ricerca del bello, del vero, del giusto. Per rispetto ai nostri avi e per rispetto verso noi stessi, non possiamo abbandonare così la partita, senza avere lottato strenuamente per difendere e tramandare quanto di meglio la civiltà europea ha saputo creare in questi due millenni; non possiamo darla vinta ai cavalieri del nulla, ai lugubri banditori del nichilismo. E lo dobbiamo fare, ancora di più, per rispetto verso le generazioni future.
Potrebbe sembrare una missione impossibile; pure, ci sostenga e ci conforti il pensiero che altre volte, nel corso dei secoli, la nostra civiltà cristiana è parsa essere giunta sull’orlo del collasso. Ai tempi di San Francesco d’Assisi e di Santa Chiara, ai tempi di San Domenico, ad esempio, la cristianità sembrava essere giunta ai suoi minimi termini: invecchiata, isterilita, disseccata: in pochi, crediamo, avrebbero scommesso sulla sua ripresa e sulla sua rinascita. Eppure così è stato: nel momento dell’estremo bisogno, la Provvidenza – per dirla con Dante – dispose la comparsa di due “principi”, che ebbero la precisa funzione di rimettere in sesto la navicella della Chiesa e di salvare il patrimonio ideale, morale, spirituale, del cristianesimo, attraverso la fondazione degli ordini medicanti. Sembrava una speranza assurda; e invece essi vi riuscirono.
Dobbiamo ripartire dalla famiglia: dalla famiglia cristiana. Non sarà certo un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità mediti di sottrarre ai genitori – da essa giudicati troppo succubi nei confronti di antichi “pregiudizi” - l’educazione sessuale dei figli, per introdurre negli asili e nelle scuole la cosiddetta ideologia gender, e scalzare così, dalle fondamenta, in qualche anno, l’idea stessa della famiglia naturale, con il modello delle due figure genitoriali, maschile e femminile, costruitosi in migliaia d’anni.
Forze oscure sono assiduamente al lavoro per distruggere la famiglia, avendo riconosciuto in essa il principale ostacolo alla completa distruzione della nostra civiltà. Anche questo sarà, per noi, un motivo d’incoraggiamento: significa che la famiglia naturale, e specialmente la famiglia cristiana, pur così indebolite e minacciate, come lo sono oggi, nondimeno costituiscono ancora una forza formidabile, sulla quale è possibile fare leva per ripristinare un orizzonte di senso, di collaborazione, di armonia e di bene all’interno della nostra civiltà, così prossima al collasso per mancanza di slancio e di linfa vitale.
Forse, ci vogliono solo fede e coraggio: come li ebbero i nostri antenati, in momenti altrettanto drammatici della loro vicenda terrena.



Attualità di T. S. Eliot: o rifondare un’Europa cristiana, o il nulla

di Francesco Lamendola


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.