SIAMO PRONTI PER IL VIAGGIO? Il Viaggio con la v maiuscola è l’unico viaggio che conta davvero nella vita umana dopo che ci si è sbizzarriti a viaggiare nello spazio o magari nella fantasia e nell’interiorità: quello verso la dimensione dell’assoluto e dell’eterno di F.Lamendola
Siamo pronti per affrontare il Viaggio? Il Viaggio con la “v” maiuscola è l’unico viaggio che conta davvero nella vita umana, dopo che ci si è sbizzarriti a viaggiare nello spazio o, magari, nella fantasia e nell’interiorità: quello verso la dimensione dell’assoluto e dell’eterno; ed è un viaggio per il quale non c’è bisogno di preparare le valigie, né occorre preoccuparsi di acquistare il biglietto, perché si parte senza bagagli e senza mezzi di trasporto - ma si parte. Irrevocabilmente. Perché quello è un viaggio di sola andata.
Non è detto, però, che debba essere una partenza triste, tanto meno che debba essere accompagnata da angoscia e disperazione; al contrario: può essere, anzi, dovrebbe essere, la partenza più rasserenante di tutte, quella verso il porto definitivo, dopo tanto vagare irrequieto lungo percorsi e attraverso esperienze e situazioni che tanto spesso ci hanno deluso, e lasciati con un senso di amaro in bocca.
Nel Medioevo esisteva addirittura la Confraternita della Buona Morte: era una delle più antiche e si occupava delle esequie ai defunti, ovviamente non solo in senso materiale, ma soprattutto spirituale e religioso. Eco il punto: per i nostri avi - e, in verità, anche per i nostri nonni - si moriva bene, quando si moriva in grazia di Dio; si moriva male, quando l'anima era lontana da Lui, immersa nelle tenebre del peccato. Dante ha scritto il suo immortale poema per ricordarci questa semplice verità; ma noi moderni ce ne siamo completamente dimenticati, e leggiamo la «Divina Commedia» come se fosse una specie di romanzo avventuroso. Questo è l'atteggiamento giusto per non capirci nulla. Povero Dante, se avesse potuto immaginare una cosa del genere: che sarebbe sopraggiunta una generazione talmente pazza e stolta da non porsi nemmeno più la domanda decisiva sul senso del vivere e del morire, e da considerare come semplici favolette le verità di fede sull'Inferno, sul Purgatorio e il Paradiso.
Per lui, come per San Francesco d'Assisi, e come per tutti i cattolici, di allora e di sempre, esistono due morti: quella del corpo e quella dell'anima. La prima colpisce tutti gli uomini indistintamente; la seconda, coloro che non hanno avuto il timor di Dio. È questa che bisogna temere, non l'altra. In effetti, la morte è una porta e come una seconda nascita: su che cosa, l'uomo moderno lo ha dimenticato. Tutto proiettato nella dimensione terrena, immanente, a forza di tenere gli occhi rivolti in basso, ha disimparato ad alzare lo sguardo verso l'alto. Si crede intelligente, evoluto, progredito, perché la scienza gli ha rivelato molti segreti della natura; ma ha trascurato la cosa più importante di tutte: la vita dell'anima, da cui dipende il giusto atteggiamento verso la morte. Su questo, la scienza non ha nulla da dirgli: dopo averlo illuso di essere divenuto quasi onnipotente, perché capace di manipolare la natura a suo piacimento, e perfino il patrimonio genetico degli esseri viventi, lo lascia poi solo davanti al mistero dei misteri: quello essenziale, e l’unico per il quale non esista una risposta scientifica. E siccome alla morte l’uomo moderno non vuol pensare, questo pensiero segreto gli avvelena l'esistenza: lo rode, lo consuma, lo esaspera, lo terrorizza. Non vorrebbe pensarci; nasconde al proprio sguardo non solo le immagini della morte, ma anche quelle della malattia e della vecchiaia, che potrebbero, in qualche modo, ricordargliela; e, così facendo, rimanda il tempo della salutare riflessione su se stesso, sul proprio scopo, sulla propria mèta, trovandosi poi impreparato nell'ora suprema.
Due sono i fardelli più pesanti che rendono difficoltoso il momento del distacco: i rimorsi e i rimpianti. Entrambi stanno a significare che non si è in pace con se stessi, che non ci si è pacificati con la propria vita: pertanto, che non si è pronti a separarsi da essa. Questo rende le cose difficili: è come se una zavorra ostacolasse i movimenti proprio quando si avrebbe bisogno di muoversi con la massima leggerezza. I rimorsi mordono il cuore con la coscienza del male che si è fatto; i rimpianti, con la coscienza del bene che si avrebbe potuto fare.
La morte, fine o inizio del viaggio? Una volta si parlava della “buona morte”, quando la vita umana era interamente avvolta e, per così dire, protetta dal sentimento religioso, dal battesimo all’estrema unzione; oggi, in tempi di secolarizzazione rampante, di edonismo sfrenato e di nichilismo assoluto, parlare di “buona morte” potrebbe sembrare una macabra ironia. Come potrebbe essere buona la morte, se ci priva per sempre, irrevocabilmente, di quel bene prezioso che è la vita? Pure, bisogna ammettere che anche molti credenti hanno fatto una gran confusione su questo tema. A forza di “svolte antropologiche”, di “umanesimi cristiani” e di “dialoghi” con il mondo moderno, anche nelle sue forme più aberranti e più esplicitamente anticristiane, hanno finito per dimenticarsi che la vita, sì, è un bene prezioso, ma non è un bene assoluto; e, soprattutto, che non è un bene definitivo, ma piuttosto mezzo e strumento per il raggiungimento di quello. Vale a dire che si sono dimenticati dell’essenziale. A meno che non se ne siano dimenticati affatto, e che si siano impegnati in qualcosa di peggio: in un deliberato progetto di stravolgimento del cristianesimo, così come ce lo hanno tramandato duemila anni di Tradizione e di Sacre Scritture, e così come esso è stato gelosamente e amorevolmente custodito dal Magistero della Chiesa, sia pure in mezzo a tante burrasche e a tanti smarrimenti, i quali hanno colpito tutti gli uomini, credenti compresi.
Siamo pronti, dunque, per il gran Viaggio, in qualunque momento esso arrivi?
Un uomo che seppe affrontare la morte con straordinaria compostezza e dignità fu il guerriero seminole Osceola, che, pur non essendo un capo (pare, anzi, che fosse figlio di un bianco e di una indiana), aveva acquistato un ascendente straordinario sui suoi compagni, che mantenne anche durante il lento e doloroso periodo della prigionia, a Fort Moultrie, nel South Carolina, dopo essere stato catturato con l’inganno dalle “giacche azzurre”, mentre si era recato a parlamentare sotto la protezione della bandiera bianca. L’autore di questa infamia era stato il generale Thomas Sidney Jesup, che non se ne mostrò mai pentito (cfr. il nostro saggio: «Osceola e la lotta dei Seminole per la libertà», pubblicato parzialmente sul sito di Arianna Editrice in data 28/08/2007, e ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 22/12/2015).
La morte di Osceola, sopravvenuta per polmonite e per una gravissima infiammazione delle tonsille, all’età di soli ventinove anni, è stata raccontata da un testimone oculare, che era anche un medico, il dottor Weedon, che lui stesso aveva chiesto gli stesse accanto negli ultimi momenti, insieme agli altri ufficiali del distaccamento; Weedon inviò poi questa toccante testimonianza al celebre pittore George Catlin (1796-1972), l’amico degli Indiani, il quale, solo pochi giorni prima, ne aveva eseguito il ritratto, e che, ingannato da una certa apparenza di miglioramento nella malattia, era partito da Fourt Moultrie appena ventiquattro ore prima della fine di Osceola, avvenuta il 30 gennaio del 1838, col quale aveva stretto amicizia, come pure con gli altri capi indiani detenuti in quel luogo.
La riportiamo qui di seguito (da: George Catlin, «Il popolo dei Pellerossa. Usi, costumi, vita nella prateria degli Indiani d’America»; titolo originale: «Letters and Notes on the Manners, Customs, and Conditions of North American Indians»; traduzione dall’inglese e note di Alberto Paleari, Milano, Rusconi, 1987, p. 521):
«Circa mezz’ora prima della fine, sembrò accorgersi che stava per morire, e benché non fosse in grado di parlare mi fece capire a gesti che voleva che mandassi a chiamare i capi e gli ufficiali, cosa che io feci. A gesti disse alle sue mogli (ne aveva due, e aveva anche due bei bambini accanto a lui, di andare a prendergli il vestito più bello, quello che indossava in guerra. Dopo si alzò sul letto (che era appoggiato a terra) e indossò la camicia, i gambali, i mocassini, cinse la cintura di guerra, la sacca delle pallottole e il corno della polvere da sparo, poi si mise a fianco, sul pavimento, il coltello. Quindi chiese la sua pittura rossa e lo specchio, che gi venne tenuto davanti, mentre lui si tingeva mezzo volto, il collo, la gola, i polsi, il dorso delle manie anche il manico del coltello, come quando si è giurato di combattere fino alla morte. Quindi mise il pugnale nel fodero, sotto la cintura, si sistemò con cura il turbante sulla testa, con le tre piume di struzzo. Ora era addobbato di tutto punto, e perciò si mise a giacere per riacquistare un po’ di forze, quindi si rialzò in piedi, e con un sorriso dolcissimo sul volto tese la mano a me e a tutti gli ufficiali e ai capi che gli stavano intorno. Ci strinse la mano in silenzio, e anche alle moglie e ai bambini. Poi fece segno di rimetterlo a giacere sul letto, il che fu fatto. A quel punto si tolse il coltello da scalpo dalla cintura e lo tenne ben saldo nella mano destra, puntandolo sull’altra mano, sopra il petto, e in un attimo, sorridendo, esalò l’ultimo respiro, senza un segno di ribellione o un lamento.»
Nei gesti lenti e solenni, nello scrupoloso rispetto del cerimoniale funebre, nella fierezza di volersi alzare in piedi, vestire e truccare da solo, nella generosità di quelle strette di mano rivolte a tutti, anche ai nemici, e, soprattutto, in quel sorriso incredibilmente luminoso, e quasi incongruo in quel luogo e in quella situazione, almeno secondo la mentalità dei bianchi, noi possiamo vedere un’anima che si accinge ad affrontare il Viaggio supremo con ammirevole sobrietà e dignità, oltre che con perfetto distacco: è come se Osceola avesse fatto i conti con se stesso, con la propria vita, e si fosse sbarazzato per tempo di tutto quel che avrebbe potuto ritardare o complicare il momento della partenza: il fardello dell’Io, con il suo carico di rimorsi e di rimpianti.
Quanti di noi saprebbero fare altrettanto?
Eppure, chi non è pronto al distacco in qualsiasi momento, è una persona che ha ancora dei conti aperti con la vita: e avere dei conti aperti equivale a portarsi dietro il fardello dell’Io, anche nei tratti più scabri e in salita, anche là dove si avrebbe un disperato bisogno di agilità e leggerezza. Ci viene data una vita intera per imparare a deporre il fardello dell’Io, almeno in parte, almeno qualche volta: e questo perché ci troviamo nelle condizioni di spiccare il salto, quando sarà arrivato il nostro momento, come l’uccellino che si getta fuori dal nido per la prima volta. La saggezza della vita consiste in questo: nel capire che la vita stessa è una lunga e paziente preparazione al distacco dall’Io. Se non si fa almeno un po’ di pratica per tempo, poi ci trova smarriti nel momento decisivo, con il rischio di lasciarsi sopraffare dalla disperazione e dall’angoscia.
Un modo di pensare molto moderno, molto banale, molto superficiale, vorrebbe che il pensiero della morte sia in contrasto con una vita gioiosa; che, per non denigrare la vita, non si pensi mai alla morte; che, per non sminuire la sua bellezza, si metta fra parentesi l’attesa del momento in cui si passerà dalla dimensione del tempo a quella dell’eterno. È un errore madornale, che fanno anche moti cosiddetti credenti. La vita è bella, questo è certo: è una gioiosa avventura, un itinerario a dir poco affascinante, che può aprirci davanti agli occhi spettacoli d0’incomparabile magnificenza. Però è fuggevole, e fragile, e imperfetta: anche questo non va mai dimenticato. Non bisogna sacralizzare la vita in se stessa: la vita fisica non è sacra, perché appartiene all’ordine della natura, e la natura è imperfetta, ferita dalla realtà del Peccato. Gli amici più cari ci deludono e, talvolta, ci tradiscono; ovunque scorgiamo invidia, superbia, avarizia: pressoché insondabile è il mistero della malizia umana, che ci colpisce anche là dove meno ce l’aspetteremmo. E a tutto questo bisogna aggiungere la malattia, la morte, gl’infortuni di ogni genere che possono colpirci in qualsiasi momento. Spesso, davanti a tale cose, gli uomini reagiscono con un misto di rabbia e d’incredulità: si sentono ingannati e defraudati di qualcosa che spettava loro di diritto. Ma n on è così, Niente ci spetta di diritto: neppure il corpo che abitiamo; neppure la terra su cui possiamo i piedi. Tutto ci è dato in usufrutto e tutto può esserci tolto, in qualunque istante.
Tutto questo non è pessimismo: è realismo. Le cose stanno così. Noi non siamo padroni di nulla, assolutamente di nulla. E non siamo stati chiamati alla vita per passare da una ricerca del piacere a un’altra, ma per prepararci al Viaggio decisivo. È lì che si vedrà di che stoffa siamo fatti; prima di quel momento, è sempre possibile fingere e mentire, farsi passare per ciò che non si è, mettersi delle maschere – persino di fronte a se stessi. Non dobbiamo mai perdere di vista il fatto che siamo creature, e che la dimensione terrena non è la dimensione dell’Assoluto. Siamo solo dei viandanti, dei nomadi perennemente in cammino: se sostiamo per alzare le tende, lo facciamo solo per concederci un po’ di riposo, e poi rimetterci in marcia. La vita è questo; non una passeggiata di piacere.
Chi non lo ha compreso, è rimasto un bambino. Il mondo è pieno di bimbi travestiti da adulti. Però affrontare il grande Viaggio in maniera consapevole non è cosa da bimbi, ma da adulti. Un pensiero ci potrà dare coraggio, se il cuore dovesse venir meno: che, in quell’arduo passo, non saremo soli...
Siamo pronti per affrontare il Viaggio?
di Francesco Lamendola
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