ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 19 gennaio 2016

A dirla tutta non c’è da meravigliarsi?

Papa Francesco, le parole di Benigni ci ricordano il nuovo corso del Vaticano
Roberto Benigni, tra una battuta e un sorriso, ha fatto una considerazione fortissima: “Papa Francesco sta tirando la Chiesa con tutte le sue forze. E dove la sta tirando? La sta tirando verso il cristianesimo”. Sguardi imbarazzati in quel momento durante la presentazione del primo libro-intervista di Bergoglio scritto con il vaticanista Andrea TornielliIl nome di Dio è misericordia. Eppure l’affermazione di Benigni lascia pensare. C’è una sorta di assolutizzazione del pontificato di Francesco che si era già verifica con san Giovanni Paolo II, come se prima del Papa polacco non ci fosse stato nulla nella storia della Chiesa cattolica. Ma lì l’assolutizzazione era dettata dalla longevità del regno wojtyliano e dalla generazione di giovani che aveva conosciuto solo quell’uomo“chiamato da un Paese lontano”, sia attraverso i media, sia nelle tantissime udienze e nei 104 viaggi in giro per il mondo.
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Con Bergoglio lo scenario è assolutamente diverso. A tre anni di pontificato però l’assolutizzazione del suo governo sembra addirittura più forte di quella verificatasi sotto san Giovanni Paolo II. Prima di Francesco il nulla. Ed ecco che Benigni alla presentazione del primo libro intervista del Papa arriva ad affermare con assoluta certezza che Bergoglio sta tirando la Chiesa verso il cristianesimo. Una Chiesa staccata totalmente dal suo fondatore prima della fumata bianca del 13 marzo 2013. A dirla tutta non c’è da meravigliarsi.
La frattura tra Gesù e la Chiesa in duemila anni di vita di quest’ultima si è verificata numerose volte e per lungo tempo. Forse già nei primi secoli i cristiani dell’epoca erano più attenti agli accordi politici con i governanti per guadagnarsi la sopravvivenza in terra che ai precetti del Vangelo per assicurarsi il paradiso in cielo.
Andando avanti nei secoli basterebbe citare Papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, passato alla storia per la moglie, Vannozza Cattanei, l’amante, Giulia Farnese, le prostitute di Borgo Pio che frequentava, gli sciagurati figli, uno dei quali cardinale, Cesare, e la figlia Lucrezia, che sarebbe stata perfino complice di incesto. Ma lo stesso Bonifacio VIII, l’autore del primo Giubileo, quello del 1300, fu collocato da Dante nel suo Inferno a causa della vendita delle indulgenze con le quali assicurava ai pellegrini l’ingresso delle porte del paradiso. Pochi decenni prima un semplice e umile frate di Assisi di nome Francesco aveva tentato invano di insegnare al Papa e alla Curia romana dell’epoca che il Vangelo non è una bella favoletta per bambini, ma un testo da vivere in ogni tempo.
Il santo poverello niente poté contro la corte papale, arroccata sui suoi privilegi e le sue lussurie, ma riuscì almeno ad aprire una feritoia e a testimoniare un messaggio diverso all’interno della Chiesa. Oggi anche san Francesco deve essere assai disgustato per il crac finanziario dei suoi frati minori e per il lusso di quelli che dovrebbero essere i suoi seguaci più fedeli. Non a caso il primo Papa a scegliere di chiamarsi Francesco non ha usato mezze misure per richiamare i frati: “O siete voi liberamente poveri o finirete spogliati”.
Bergoglio, con la sua vita austera, con la sua Ford Focus blu, con la sua suite 201 a Casa Santa Marta composta di soltanto 70 metri quadrati, con il suo mangiare alla mensa comune servendosi al buffet, con il suo portarsi la borsa nera da solo o la mitra per le celebrazioni sotto al braccio ha dato al mondo un’immagine di normalità. Con la rinuncia all’appartamento papale nel Palazzo Apostolico vaticano ha dato la più grande lezione ai cardinali e ai vescovi che sguazzano in appartamenti di 400 e 500 metri quadrati, per non parlare dell’attico dell’ex Segretario di Stato Tarcisio Bertone.
Certamente quella di Francesco è un’immagine inedita e molto forte che arriva via Twitter e Facebook prima ancora che attraverso i giornali al cuore di tutti, fedeli e non. I suoi gesti conquistano e incantano, ma non si tratta di una competizione tra Papi. Tra Bergoglio e Ratzinger c’è un’autentica amicizia e chi li ha visti insieme non ha potuto non notare la delicatezza del loro rapporto. Per Francesco, Benedetto XVI è davvero il “nonno saggio” che ha nella sua casa, in Vaticano. È in questo spirito che la Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger – Benedetto XVI ha inaugurato la sua pagina Facebook che in appena tre giorni ha ottenuto quasi 10mila “Mi piace”. Un segno di continuità e di rispetto da leggere in continuità e non in antitesi.

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Papa Francesco, demagogia da peronismo? I rischi per noi…

Papa Francesco ricorre alla demagogia per conquistare consensi ma può fare danni mentre non fa abbastanza per i cristiani perseguitati nel mondo
Papa Francesco ha il senso della folla. Per ingraziarsi i fedeli dice cose di facile presa demagogica che possono essere pericolose
Papa Francesco insiste nella demagogia di bassa lega e dice, ignorando la Genesi, che la mancanza di lavoro “è il dramma dei nuovi esclusi del nostro tempo, che vengono privati dei loro diritti, mentre la giustizia umana chiede l’accesso al lavoro per tutti”. Quando mai il lavoro è stato un diritto? A noi hanno insegnato che è un dovere. La Bibbia (Genesi) dice: “Con dolore [dalla terra] trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. […] Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”. La cosa che infastidisce un po’ è che, di fronte alle sue prese di posizione tanto demagogiche, ci si aspetterebbe una martellante azione in difesa dei cristiani, martoriati e martirizzati nel mondo. Non saranno tutti cattolici romani ma sono tutti battezzati in Cristo. Eppure il silenzio della Chiesa è imbarazzante. Papa Francesco ne parla ogni tanto ma non con l’intensità che dedica all’alta filosofia giustizialista. Non c’è giorno che dai quattro angoli del mondo non giungano notizie di persecuzioni. Sarebbe bello che ogni giorno Papa Francesco si affacciasse alla sua finestra e esortasse il mondo a difendere i cristiani perseguitati, magari anche accogliendone un po’, fra i tanti profughi, nel suo Vaticano. I suoi interventi in difesa dei cristiani sono sporadici. Invece predica su altri temi, forse perché sparando nel mucchio pensa di non urtare nessuno. Che il lavoro è un diritto lo dicono i politici di oggi, inducendo nei giovani e anche nei loro anziani la convinzione che se è un diritto nulla si deve fare per cercarselo, tanto poi Giorgio Napolitano (che lo ha teorizzato ex cathedra da presidente della Repubblica) o Beppe Grillo un posto in comune o un salario di cittadinanza e di sopravvivenza te lo daranno. Nessuno poi ha detto e dice che se è un diritto è comunque un diritto non disponibile altrimenti se è un diritto e basta il suo esercizio diventa un optional e posso anche rifiutarlo. Non può dirlo il Papa, perché il suo messaggio trascende il contingente della politica, non sai mai quando parla l’uomo e quando parla il rappresentante di Dio. Non può azzardarsi a dire parole inconsulte. Poi, pensando planetario, Papa Francesco ne ha detto un’altra: “Oggi è il tempo del lavoro schiavo, quello senza diritti, e della mancanza di lavoro”. Parole sante, ma viziate dalla parola “oggi”, sono quelle 4 lettere, oggi, che danno un valore devastante e sbagliato al discorso di Papa Francesco. La schiavitù esiste da che mondo è mondo, l’antica Roma si sfaldò per la fine delle guerre che procuravano masse di schiavi motore della economia del tempo, gli schiavi sono proseguiti per mille anni e più oltre Gesù Cristo, nei monasteri i monaci nobili e futuri santi pregavano e studiavano, a zappare la terra ci pensavano gli schiavi, poco più che schiavi erano i contadini per secoli e secoli nell’era cristiana, quella delle radici cristiane dell’Europa. Si dice servi della gleba, ma servo in latino vuol dire schiavo. La schiavitù non è di oggi, è una cosa bruttissima, si deve combattere sempre e ovunque, dentro di noi innanzi tutto, ma non come male dell’era presente bensì come male eterno, intrinseco alla natura umana. Questo rende la lotta più ardua, non alimenta facili illusioni. Tutta la storia dell’uomo è fatta di una sopraffazione sopra l’altra, di un popolo che arriva dove già un altro si era stabilito e gli dice: da oggi tu sarai il mio servo, il mio schiavo. Pochi secoli fa milioni di europei avidi e affamati si sono rovesciati in America, Nord e Sud, hanno quasi sterminato gli indigeni, hanno portato dall’Africa legioni di schiavi e poi si sono proclamati caposaldo della libertà e della democrazia. Non è la prima volta che Papa Francesco si abbandona a colpi di demagogia che lasciano perplessi perché potenziali portatori di conseguenze pericolose. A volte viene il dubbio che subisca l’influenza di qualche consigliere nefasto. Anche se il Papa è una delle persone più autorevoli e importanti del mondo, resta un uomo. Anche se in lui convergono poteri da sovrano assoluto, difficilmente si può pensare che un uomo, di quasi 80 anni, possa governare da solo un impero che non ha uguali per estensione nel mondo. Non era così ai tempi del Papa Re. Accanto al trono papale c’erano cardinali potentissimi e abilissimi che presiedevano alla amministrazione della Chiesa. Meno che mai una gestione assolutamente autocratica è concepibile al giorno d’oggi. Meno che mai nel caso di Papa Francesco, impegnato in una opera di stravolgimento della Chiesa cattolica senza del quale incombe un continuo declino. Difficilmente si può accettare che il Papa parli come voce diretta di Dio, anche chi non crede non può accettare di far fare al Padreterno figuracce come quella di mandare in carcere Galileo Galilei. Meno ancora si possono attribuire agli atti di gestione del Papa i crismi della infallibilità. Qualche erroretto Papa Francesco lo ha commesso, in alcuni casi lo si si è già visto, di altri, come la demagogia a tutti i costi, gli effetti si vedranno col tempo. Il più mediaticamente noto errore di Papa Francesco è stata la scelta di Francesca Immacolata Choauqui e del suo sponsor mons. Vallejo Balda, cosa che con grande umiltà lo stesso Papa Francesco ha riconosciuto. Ma anche il fatto che di tanti direttori di giornale nel mondo Papa Francesco abbia scelto come interlocutore il direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, riflette una visione diciamo così un po’ provinciale del suo lavoro. Certo Scalfari è il più grande direttore di giornale di questo secolo in Italia e fra i maggiori in Europa ma questo può interessare uno storico di giornalismo non il Sommo Pontefice. Certo Repubblica è letta a Roma e in Vaticano più del New York Times e avere alleato il proclamato ateo che l’ha fondata può essere utile nei giochi di palazzo. Ma che Papa Francesco telefoni a Scalfari e induca il suo co-Papa Benedetto XVI a aprire un epistolario con Piergiorgio Odifreddi non può essere casuale. Nulla da eccepire nemmeno per Odifreddi ma dal Papa della Chiesa Universale mi sarei aspettato qualcosa di meno casalingo, come il direttore del New York Times, il giornale più autorevole del mondo, a cavallo fra etnie e religioni differenti, proprietari cattolico, protestante di origine israelita, europei, africani, asiatici, ebrei ci scrivono. Se la scelta degli interlocutori di Papa Francesco può confinare con il folklore, la scelta dei temi è più inquietante perché va di pari passo con la discreta ma inesorabile ascesa di sacerdoti che non vengono da lontano ma quasi dal nulla, come marginali diocesi in Calabria. Può essere anche una scelta coraggiosa e originale per rompere il piombo che ingabbia la Chiesa di Roma. Se però poi per trovare spazio sui giornali, tanto acritici quanto smaniosi di forti emozioni, uno spara parole in libertà allora l’effetto può avere conseguenze non auspicabili. La riflessione che viene da fare mettendo assieme tutti questi dati è che lo stesso Papa Francesco può essere terreno fertile per il seme della demagogia non a causa di sprovvedutezza, inesperienza, ingenuità ma perché anche lui la pensa così. Jorge Bergoglio Papa Francesco è nato in Argentina nel 1936 e aveva 10 anni quando Juan Peron andò al potere. Il fascismo di Peron non pagò dazio perché evitò scelte di campo non per astuzia, come Francisco Franco, ma perché ormai la guerra mondiale era finita. Inoltre il fascismo di Peron, che doveva sterilizzare il terreno ai comunisti, ne assorbì parte delle pulsioni. Lo fece al punto che dal peronismo derivò quella spinta verso il terrorismo che ha martirizzato l’Argentina e con cui anche Bergoglio dovette fare i conti negli anni in cui fu superiore dei gesuiti. Il peronismo ha permeato la cultura politica e economia in Argentina e viene considerato all’origine di molti suoi mali. Forse il suo ciclo si è concluso nel 2015, dopo oltre 70 anni, con la elezione del primo presidente non peronista, Mauricio Macri. Il Giustizialismo che è la matrice del peronismo non è quello che si è inteso dire in Italia dopo Mani Pulite. La parola non deriva dal potere o strapotere dei giudici ma dalla giustizia sociale. In nome della giustizia sociale a favore delle masse dei descamisados, tanto poveri da non possedere nemmeno la camicia, invece della strada dello sviluppo economico fu scelta la scorciatoia delle elargizioni demagogiche. Per questo quando Matteo Renzi parla di “giustizia sociale” dà un po’ i brividi anche se c’è da sperare che non abbia mai approfondito molto la materia. Papa Francesco è un’altra cosa. Ha letto molto, è coltissimo, è gesuita. Soprattutto è cresciuto negli anni del giustizialismo con cui la Chiesa, prima di rompere su aborto e divorzio, con Peron andava d’accordo. Ancor più è vissuto e ha operato in quella Argentina peronista e giustizialista. Per questo desta allarme quando lancia messaggi come quelli sul diritto al lavoro e sulla schiavitù. In prima battuta nessuno gli può dare torto. Pensare a tanti giovani disoccupati fa male, pensare alla schiavitù ancor di più. Come gli si può dare torto quando Papa Francesco parla di “sfruttamento” che “vige nelle civilissime società occidentali come in quelle dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina”, e  di aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, “che in certi paesi dell’Europa tocca il 50 per cento” (qui forse la spara un po’ troppo stile Istat): “Cosa fa un giovane che non lavora? Cade nelle dipendenze, nelle malattie psicologiche, nel suicidio, e non sempre si pubblicano le statistiche dei suicidi giovanili”. “È il dramma dei nuovi esclusi del nostro tempo, che vengono privati dei loro diritti, mentre la giustizia umana chiede l’accesso al lavoro per tutti”. Sembra una predica domenicale  di prima che le chiese si svuotassero di fronte a tante esagerazioni in stile Savonarola. Si può anche capire: il Papa cerca consensi, cerca nuovi proseliti. Ma è il Papa, non un parroco di periferia. Come l’ha detta Papa Francesco non è corretto e può essere pericoloso.  

di Marco Benedetto

(Stefania Falasca) Un atto ripetuto tre volte per la tradizione giuridica rabbinica diventa chazaqà, consuetudine fissa, ha fatto osservare il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni accogliendo domenica la terza visita di un Pontefice in Sinagoga. Certamente la presenza di Francesco al Tempio Maggiore ha dato il senso di questa consuetudine. E non solo nel consolidarsi di un rapporto che dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate è andato approfondendosi. L' immagine di Francesco che si attarda passando avanti e indietro tra i banchi del Tempio per stringere le mani a ognuno e infine abbracciare gli ultimi sopravvissuti alla deportazione nazista segna un incontro che non porta lo stigma del ritualismo. È lo stabilirsi di un legame spirituale, nella mutua fiducia, di una consapevole relazione 'intra-familiare'. Ed è il tracciato tangibile e concreto di una nuova epoca. Contraddistinto da un messaggio aperto e benefico che una altrettanto aperta e benefica ricezione non ha mancato di sottolineare. Con questa nuova visita del Papa in Sinagoga, e con questo rinnovato pubblico incontro, ebrei e cattolici lanciano un messaggio nuovo, anzi, sempre nuovo, rispetto alle tragedie che hanno riempito anche le cronache degli ultimi mesi, come rimarcato dalla stessa presidenza della Comunità ebraica di Roma: «La fede non genera odio, non sparge sangue, richiama al dialogo». Prefigurando «una convivenza ispirata all' accoglienza, alla pace e alla libertà in cui si impara a rispettare, ciascuno con la propria dignità e diversità, l' altro». E qui i gesti tangibili e ripetuti hanno la supremazia sulle parole. Gesti orientativi nella bussola di un tempo alla deriva, che immemore naufraga nell' ombra oscura dell' estremismo e della violenza erigendo muri e nuovi ghetti e nuove persecuzioni. Gesti che chiamano all' impegno comune per la difesa della dignità umana, per la pace e la giustizia perché il nesso religionipace non cessa, anzi, esige di essere uno dei segni forti del nostro tempo, nella consapevolezza urgente che «la violenza dell' uomo sull' uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche». Il nodo oggi, e specialmente del cattolicesimo e dell' ebraismo, dei «fratelli e sorelle nella fede », è proprio quello di riproporre la necessità vitale di una coscienza di sé senza ipocrisia in una rinnovata percezione dell' altro e dunque di responsabilità in quella visione di veri rapporti tra religioni come fonte di sviluppo e di pace. Qui sta lo spartiacque odierno. E la prospettiva è comune. I gesti e le parole di papa Francesco sono stati tipici del suo pontificato post-conciliare che ha da tempo maturato il dialogo intra-religioso con l' ebraismo già da prima dell' elezione a Vescovo di Roma e che ribadisce la sua ricezione del Vaticano II come lascito acquisito da far fruttare, rendendo possibili gli sviluppi teologici recenti scaturiti dal solco della rivoluzione copernicana iniziata con la Nostra aetate. In primo luogo, il recente e importante documento vaticano pubblicato, il 10 dicembre scorso, dalla Commissione per i rapporti religiosi con l' ebraismo. Documento che mette nero su bianco il punto di non ritorno: «I cristiani, per comprendere se stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l' irrevocabilità dell' Antica Alleanza e l' amore costante e fedele di Dio per Israele». Ciò significa sancire il rifiuto di un' azione evangelizzatrice e di missione istituzionale con il popolo ebraico, significa quindi chiudere un capitolo di storia doloroso nel riconoscimento di una complementarietà perché «Dio continua a operare nel popolo dell' Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che scaturiscono dal suo incontro con la Parola divina. E per questo anche la Chiesa si arricchisce quando raccoglie i valori dell' ebraismo», come aveva espresso il Papa nella Evangelii gaudium. I n tono con questo spirito dell' incontro i discorsi tenuti da Renzo Gattegna, presidente delle Comunità ebraiche italiane, e del rabbino capo Di Segni, sono stati pieni di riferimenti all' inizio di questa nuova prospettiva di rapporti tra ebraismo e cristianesimo. Il rimando all' anno giubilare, entro il quale anche questa visita si inscrive, prendendo spunto dai Salmi sul tema della misericordia indissociabile dalla giustizia è stato «un segno di come le strade divise e molto diverse dei due mondi religiosi condividono comunque una parte di patrimonio comune». E se sono state esplicitate le attese dell' ebraismo verso una Chiesa che non torni indietro rispetto alla svolta iniziata, si è fatto esplicito riferimento alla necessità per la Chiesa di far conoscere ai suoi fedeli tale insegnamento sull' ebraismo. Demoliti i timori nascosti, sono istanze queste che non possono più permettersi il lusso del solo alveo specialistico senza declinarsi nel contesto vitale della Chiesa contemporanea, così come non possono essere ignorate dall' insegnamento ebraico per spazzare pregiudizi e deviazioni affinché il punto di non ritorno possa effettivamente coincidere con l' avvio consapevole e fecondo di una fraterna nuova era.

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