La guerra senza quartiere divampata dal 3 maggio, in Italia, tra il ministro della giustizia Alfonso Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo, entrambi appartenenti all’ala giustizialista della politica e della magistratura, ha oscurato ciò che è accaduto in Vaticano nei giorni immediatamente precedenti, con protagonista papa Francesco, anche lì all’insegna del giustizialismo più sfrenato.
In Argentina, “justicialista” era il nome del partito creato da Juan Domingo Perón, il leader di cui Jorge Mario Bergoglio fu in gioventù fervente sostenitore fino ad essere tra gli scrittori del suo testamento politico, pubblicato dopo la sua morte nel 1974.
Ma nel linguaggio corrente è giustizialismo il voler fare giustizia sommaria di chi è messo sotto accusa, anche prima che un regolare processo si svolga e ne accerti le responsabilità. È il procedere in modo sbrigativo contro chi si vuole colpire, con processi in piazza più che nelle aule di tribunale, con campagne mediatiche preconcette, con condanne e sanzioni “a priori” basate sul solo sospetto.
In Vaticano, con questo pontificato, il giustizialismo è di casa. E l’ultima sua fiammata si è accesa tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, per di più con una clamorosa contraddizione tra le parole e i fatti.
Il 1 maggio era la festa di san Giuseppe lavoratore e nell’omelia della sua messa teletrasmessa da Santa Marta il papa ha detto, dopo aver chiesto di pregare “perché a nessuna persona manchi il lavoro“:
“Due mesi fa ho sentito al telefono un imprenditore, qui, in Italia, che mi chiedeva di pregare per lui perché non voleva licenziare nessuno e ha detto così: ‘Perché licenziare uno di loro è licenziare me’. Questa coscienza di tanti imprenditori buoni, che custodiscono i lavoratori come se fossero figli… Preghiamo pure per loro”.
I media, in coro, hanno rilanciato queste commosse parole di papa Francesco, dette proprio nel giorno che in tutto il mondo era la festa dei diritti dei lavoratori (nella foto, il papa a pranzo con degli operai nella mensa vaticana).
Senonché la sera precedente la sala stampa vaticana aveva emesso un sibillino comunicato nel quale si informava “che sono stati disposti provvedimenti individuali per alcuni dipendenti della Santa Sede, alla scadenza di quelli adottati all’inizio dell’indagine sugli investimenti finanziari e nel settore immobiliare della segreteria di Stato”.
Di quali “provvedimenti” si trattava? Di licenziamenti in tronco. Decisi da papa Francesco e fatti calare sui malcapitati quello stesso giorno, il 30 aprile.
L’indagine all’origine dei licenziamenti, citata nel comunicato, è riassunta in questo post di Settimo Cielo del 25 novembre scorso:
In breve, il 1 ottobre del 2019 la gendarmeria vaticana agli ordini dell’allora suo comandante Domenico Giani aveva perquisito gli uffici della segreteria di Stato e dell’Autorità di Informazione Finanziaria, AIF, sequestrando documenti, computer e telefoni cellulari. E il giorno dopo erano stati sospesi dal servizio cinque funzionari, un ecclesiastico e quattro laici, tutti messi sotto indagine dalla magistratura vaticana, ai quali sarebbe stato aggiunto in seguito un sesto indagato, monsignor Alberto Perlasca, già capo dell’ufficio amministrativo della segreteria di Stato.
L’imputazione riguardava principalmente l’acquisto da parte della segreteria di Stato, con denari dell’Obolo di San Pietro, di un lussuoso edificio in un quartiere di pregio di Londra, al n. 60 di Sloane Avenue. Acquisto molto dispendioso e attuato per vie contorte, a partire dal 2015, dalla prima sezione della segreteria, quella diretta dal “sostituto” che fino al maggio del 2018 era Giovanni Angelo Becciu, oggi cardinale, al quale è succeduto il venezuelano Edgar Peña Parra.
Per chiudere l’affare, all’inizio del 2019, Peña Parra aveva chiesto allo IOR, la “banca” vaticana, un’altra grossa somma. E fu lì che scoppiò il dissidio che portò al blitz della gendarmeria. Lo IOR non solo rifiutò di fornire quella somma, ma giudicò scorretta l’intera operazione, su cui sporse denuncia al tribunale vaticano, coinvolgendo anche l’AIF, accusato di omessa vigilanza.
Il più noto e il più alto in grado degli indagati era appunto l’allora direttore dell’AIF, Tommaso Di Ruzza. La cui innocenza è stata pubblicamente difesa, sulla base di un’indagine interna, dal suo diretto superiore, lo svizzero René Brüelhart, salvo poi vedersi entrambi bruscamente congedati dal papa al termine dei rispettivi quinquenni di servizio, Brüelhart il 18 novembre e Di Ruzza il 20 gennaio.
Tra gli altri indagati, Perlasca è tuttora al suo posto di promotore di giustizia aggiunto del supremo tribunale della segnatura apostolica, mentre l’unica donna dei sei, Caterina Sansone, è stata spostata ad altro incarico. I rimanenti tre sono invece caduti il 30 aprile sotto la mannaia del licenziamento e sono il sacerdote Mauro Carlino, già capo dell’ufficio informazione e documentazione della segreteria di Stato e segretario di Becciu quand’era sostituto, e i due laici Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi.
Becciu ha difeso con forza, in varie dichiarazioni pubbliche, la correttezza dell’operazione finita sotto indagine, di cui lui era gerarchicamente il principale responsabile, fino a schierarsi contro il suo diretto superiore, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, che invece la definiva “opaca”.
E papa Francesco? Con il calcolato candore che gli è proprio, nel rispondere alle domande di due giornalisti nella conferenza stampa sul volo di ritorno dal suo viaggio in Thailandia e Giappone, il 26 novembre, ha sì detto di attenersi a una garantista “presunzione di innocenza” nei confronti degli indagati, ma ha anche asserito convinto che “la corruzione c’è e si vede”.
Non solo. Francesco ha raccontato d’essere stato lui stesso a ordinare al tribunale vaticano di avviare l’indagine e poi ad autorizzare il blitz della gendarmeria, in evidente spregio dell’aurea distinzione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario che è l’essenza di uno Stato liberale, e incurante d’aver destituito il comandante Giani poco dopo la perquisizione, per la sola colpa di aver fatto ciò che il papa gli aveva ordinato di fare.
Quanto ai licenziamenti del 30 aprile scorso, va notato che Francesco li ha fatti scattare nonostante le indagini siano ancora in una fase preliminare e uno di loro, Fabrizio Tirabassi, sia ancora in attesa persino del primo interrogatorio. Quindi in assenza di qualsiasi previo accertamento processuale delle loro vere responsabilità. Inoltre, ai licenziati non è stata data nessuna motivazione ufficiale della loro cacciata.
Non è la prima volta che papa Francesco agisce così. Si è liberato con queste brusche modalità anche di qualche cardinale a lui scomodo. Curiosamente, in coincidenza con i licenziamenti del 30 aprile, è riaffiorata la notizia di un altro sconcertante licenziamento di tre anni prima, quello dello svizzero Eugenio Hasler, cacciato dal papa da un giorno all’altro dalla segreteria del governatorato della Città del Vaticano, sulla base di accuse anonime circolanti in curia che il licenziato ha sempre respinto come totalmente infondate, e sulle quali non è stata mai avviata una regolare indagine.
E questo sarebbe il “considerare i lavoratori come se fossero figli” dell’imprenditore buono tanto decantato dal papa, “che non voleva licenziare nessuno”.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 12 mag
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