ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 26 gennaio 2016

La Chiesa sarebbe nata per un malinteso

LA PROSPETTIVA STRAVOLTA

La smania del fare del sociale ha stravolto la prospettiva cristiana? Per dirsi cristiani pare che sia indispensabile esibire solo certe credenziali. Chi ha promosso Eugenio Scalfari al ruolo di esegeta ufficiale del Santo padre?
di F. Lamendola  


La smania del fare, del sociale, del “politico”, la frenesia dell’attivismo, la volontà di operare per “cambiare le cose”, se non, addirittura, per “cambiare la realtà” e “cambiare il mondo”, ha afferrato, per caso, il popolo cristiano, e la stessa Chiesa, stravolgendo l’autentica ed eterna prospettiva del Vangelo?
Chi, per motivi di età, ricorda, in qualche modo, la maniera “normale” di essere cristiani, sia laici che consacrati, prima del Concilio Vaticano II, rimane colpito soprattutto da una cosa: che oggi, per essere e per dirsi autenticamente cristiani, pare che sia assolutamente indispensabile esibire le credenziali di un attivismo molteplice e instancabile, sia sul piano strettamente ecclesiale, svolgendo tutta una serie d’incarichi e responsabilità a livello parrocchiale, diocesano, o nei movimenti carismatici, o nel volontariato cattolico, sia sul piano più ampio della dimensione sociale in quanto tale, non senza frequenti sconfinamenti, magari, in quello amministrativo e anche in quello politici vero e proprio, con tanto di sacerdoti che si  schierano per questo o quel referendum, per questo o quel movimento di opinione, per questo o quel partito politico (ma preferibilmente per i partiti di sinistra; perché gli altri suscitano, in codesti cattolici “attivisti” e “progressisti”, una ripugnanza molto vicina al disgusto fisico; fino al caso patologico, e tuttavia attuale, di quel tale don Giorgio De Capitani che maledice Berlusconi e gli augura la morte dal suo sito Internet e dalle trasmissioni radiofoniche cui è invitato a partecipare, e verso il quale non sono stati presi provvedimenti più severi che quello di rimuoverlo dalla sua piccola parrocchia, in Brianza (nemmeno a noi piace Berlusconi e lo abbaiamo sempre scritto; ma che un prete cattolico auguri un ictus a altro un essere umano, fosse anche il peggiore, la dice lunga sullo stravolgimento della prospettiva cristiana,  fatta di amore, da parte dei preti di sinistra).
L’idea che il “vero” cristiano si riconosca dal fare, dall’agire, è molto antica: risale perlomeno alla Lettera di Giacomo (2, 14): «Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?»: concetto giusto, ma che si presta ad una lettura integralista e fuorviante; perché è vero che la fede si riconosce dalle opere, ma non ne consegue affatto che le opere esauriscano tutto il fatto della fede, e tanto meno che lo realizzino integralmente ed automaticamente. Si possono fare molte cose, ma non avere la vera fede; e si possono farne poche, in apparenza, ma avere una fede così grande da edificare e incoraggiare migliaia di altre persone. Le opere sono esposte alla vista di tutti; la fede, solo all’occhio di Dio. Un cristiano, o un uomo che si dice tale, può essere ammirato e applaudito perché fa un mucchio di cose, ma potrebbe essere mosso soprattutto dal proprio narcisismo e dalla propria vanità; mentre un cristiano autentico, che si lascia riempire dallo Spirito dell’amore divino e rinuncia alle ambizioni del proprio ego, diventa uno strumento potentissimo dell’amore universale, pur se decide di rinchiudersi fra le quattro mura d’un convento di clausura. Se si perde di vista questo fatto, si perde di vista l’essenziale. L’essenziale non sono le opere; le opere sono importanti, ma non sempre le opere più vistose, quelle di forte impatto mediatico, sono anche quelle di maggior valore; vi sono pure altre opere, che scaturiscono dalla “semplice” contemplazione e dall’adorazione, le quali, nondimeno, smuovono le montagne, anche se nessun giornalista sarà mai in grado di documentarle, e nessun fotografo d’immortalarle; e anche se non se ne potrà fare un libro-intervista, o difficilmente se ne potrà ricavare un film agiografico. Perché quel che avviene nel colloquio dell’anima con Dio, Dio solo lo conosce, lo valuta, lo comprende.
Ai nostri giorni, l’estremizzazione del concetto esposto da San Giacomo ci sembra abbia raggiunto livelli di guardia. Ciò sta portando ad una crescente esteriorizzazione del fatto della fede, a una crescente spettacolarizzazione di essa: sembra ormai che solo i “preti di strada” siano dei veri preti, e si dimentica che migliaia di religiosi d’ambo i sessi, e anche moltissimi laici, dedicano la loro vita, silenziosamente e umilmente, al servizio dei più poveri, o dei più bisognosi sotto qualsiasi altro aspetto, senza mai andare in televisione e senza sognarsi di vantarsi per ciò che fanno, nell’ombra e nel silenzio, unicamente per amore del Cristo.
Ci piace riportare quanto osservava Joseph Ratzinger, allora cardinale, allorché lesse, davanti a diecimila persone convenute  all’XI edizione del Meeting di Rimini per l’amicizia fra i popoli, il 1° settembre 1990, una relazione che fece scalpore, intitolata «Una compagnia sempre riformanda» (da: Andrea Tornielli, «Benedetto XVI. La prima biografia aggiornata del nuovo Papa», Edizioni Piemme, 2005, pp. 144-146):

«È un intervento che lascia di stucco sia i “ratzingeriani” che  gli “antiratzingeriani”: i primi rimangono sorpresi  “dall’estremismo” del “Panzerkardinal”, i secondi dai suoi fendenti contro la burocrazia  che non risparmiano nemmeno la Cura romana  della quale lo stesso porporato fa parte.
”Anche nella Chiesa viviamo oggi, mi sembra, questa tentazione, naturalmente comprensibile umanamente, di farsi capire anche dove non c’è fede, e si crede – spiega Ratzinger -  che il ponte tra la Chiesa e la mentalità odierna  potrebbe essere la morale. Tutti vedono più o meno che c’è bisogno di morale e così  offrono la Chiesa come una garanzia di moralità, come un’istituzione di moralità, e non hanno il coraggio di presentare il Mistero. Il Mistero non è comprensibile, pensano, omettiamo queste cose oscure e parliamo delle cose comprensibili, parliamo della morale. In questo senso intendevo accennare a una tentazione cristiana e cattolica di ridurre, con una riflessione  comprensibile ma sbagliata,  l’annuncio cristiano alla morale, e proprio così stanno estenuando anche la morale stessa. La riduzione di Cristo a modello morale, tipico dell’eresia pelagiana (“L’’errore di Pelagio ha molti più seguaci oggi di quanto non sembri a prima vista”), è un tema che nei mesi successivi Ratzinger riprenderà, nel suo intervento al Sinodo dei vescovi  sulla figura del sacerdote.
Fanno scalpore, poi, nel discorso del Meeting, le parole del cardinale sul primato, nella Chiesa,  della vita rispetto alle strutture. “L’attivista, colui che vuol costruire tutto da sé, è il contrario di colui che ammira (“l’ammiratore”). Egli restringe l’ambio della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l’ambito delle cose  decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta  essa diventa per noi tutti.  La dimensione liberante della Chiesa non è costituita  da ciò che noi stessi facciamo, ma da ciò che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e inventare, bensì è un precederci, un venire a noi  di ciò che è inimmaginabile, di ciò che è “più grande del nostro cuore”.
“È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati - continua Ratzinger – l’idea che una persona sia tanto più cristiana   quanto più è impegnata in attività ecclesiali.  Si spinge a una specie di terapia ecclesiastica dell’attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato, o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all’interno della Chiesa.  In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un’attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio… Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo e semplicemente della Parola e del sacramento e pratichi l’amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver mai fatto parte di sinodi e senza aver votato n essi, e tuttavia  egli è un vero cristiano”.
“Dopo il Concilio abbiamo creato tante nuove strutture, tanti consigli a diversi livelli, se ne creano ancora… dobbiamo essere consapevoli che queste strutture rimangono cose secondarie, di aiuto per lo scopo primario, e devono essere capaci di scomparire, eventualmente, e di non sostituirsi per così dire, alla Chiesa. In questo senso ho sollecitato un esame di coscienza che potrebbe bene estendersi anche alla Curia romana, perché si valuti se tutti i dicasteri oggi esistenti sono necessari. Dopo il Concilio abbiamo già avuto due riforme della Curia, quindi non è da escludere anche una terza. Parole che suonano stridenti con l’immagine del Ratzinger dipinta dai media mondiali e che accolgono le istanze di quanti propongono di “alleggerire” la burocrazia romana snellendo le strutture della Santa Sede.»

Lasciamo ad Andrea Tornielli - che è stato molto disinvolto nel passare dall’elogio di Benedetto XVI all’apologia di Francesco (nel libro-conversazione con Bergoglio, appena uscito nelle librerie, «Il nome di Dio è Misericordia») - la responsabilità di quest’ultimo giudizio, che sembra riportare la riflessione sul terreno, così caro ai cattolici “progressisti”, dell’antiburocratismo vaticano, e concentriamoci sul nocciolo della relazione dell’allora cardinale Ratzinger: la smania del fare, dell’agire, che ha preso settori sempre più vasti della Chiesa e del popolo cristiano, e che si accompagna alla tendenza di ridurre il cristianesimo a morale, con la scusa di favorire il “dialogo” con i non credenti. Abbiamo visto dove ci ha portati quest’ultima tendenza: all’equivoco più grossolano, per cui, ormai, Eugenio Scalfari, il gran papa massonico e radicale, si sente autorizzato ad alzare la voce ogni volta che il Papa dice qualcosa, per fornire la “giusta” interpretazione delle sue parole. È appena accaduto in occasione di quanto ha detto Francesco, sabato 23 gennaio 2016, all’apertura del Sinodo sulla famiglia: «Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione»; e Scalfari, immediatamente, si è precipitato a fare la chiosa a queste parole, dicendo che non bisognava interpretarle alla lettera, che il loro vero senso era un altro… Ma chi ha promosso Eugenio Scalfari al ruolo di esegeta ufficiale del Santo padre? L’errore, probabilmente, è stato quello di avergli concesso, proprio in apertura del pontificato di Francesco, una serie di interviste quantomeno imprudenti, specialmente quella del 1° ottobre 2013, nel corso della quale Bergoglio avrebbe affermato che «non esiste un Dio cattolico» e che i concetti di Bene e Male non discendono da una legge universale, rivelata o anche solo naturale, ma dalla valutazione soggettiva della coscienza individuale.
Dopo la rivincita dei modernisti e dei filo-protestanti in seno alla Chiesa cattolica, si profila ora la vittoria postuma dei pelagiani. Per costoro, non bisogna più parlare troppo del peccato, anzi, meglio non parlarne affatto, e specialmente del Peccato originale, perché ciò “deprime” la dignità dell’uomo e la sua fiducia in se stesso. Eppure è proprio qui che si cela una delle più pericolose eresie del cristianesimo, che fu già attiva all’inizio del V secolo e che S. Agostino combatté strenuamente, con tutte le sue forze: quella secondo la quale l’uomo sarebbe naturalmente buono, o, comunque, naturalmente capace di raggiungere la salvezza, perché dotato di strumenti sufficienti a scegliere il bene ed a perseverare in esso, e a ripudiare il male. Se così fosse, allora tutto il cristianesimo sarebbe un pietoso equivoco. Gesù Cristo, il Figlio di Dio, si sarebbe incarnato per un malinteso; per un malinteso sarebbe morto sulla croce, e sempre per un malinteso sarebbe risorto. Per un malinteso si perpetuerebbe il Sacrifico della messa, con la celebrazione dell’Eucarestia; per un malinteso sarebbero stati istituiti i sacramenti del Battesimo, della Confessione e della stessa Comunione. Anche la Chiesa sarebbe nata per un malinteso: se l’uomo può fare il bene con le proprie forze, allora, gli basta la guida della coscienza ed, eventualmente, quella del gran papa massonico e radicale, fautore di umanesimo chiuso in se stesso.
La prospettiva cristiana, però, è un’altra. Essa non reputa indispensabile gettarsi a testa bassa nelle opere, bensì aprirsi alla conversione del cuore, dalla quale discendono tutte le conseguenze positive per la vita dell’anima. Ora, la conversione richiede un supremo gesto di umiltà, una rinuncia al proprio io, per poter ricevere tutto lo splendore della grazia divina. È per mezzo della grazia divina che l’uomo diventa capace di fare grandi cose; ma essa gli rimane preclusa, finché continua ad agitarsi affannosamente tra le cose del mondo. Disse Gesù a questo proposito, e non avrebbe potuto essere più chiaro: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta» (Luca, 10, 41-42). 


La smania del fare, del sociale, ha stravolto la prospettiva cristiana?

di Francesco Lamendola

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