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giovedì 28 gennaio 2016

"Lugubre e a tratti opprimente"


Francesco, Leonardo Di Caprio e la vera Chiesa "revenant"


dicaprio
A sorpresa, nella mattinata di giovedì 28 gennaio, papa Francesco ha dato udienza in Vaticano a Leonardo Di Caprio, a motivo, si è fatto sapere, della convergenza tra l'enciclica "Laudato si'" e l'attivismo ecologista dell'attore, candidato all'Oscar come protagonista del film "The Revenant".
"Lugubre e a tratti opprimente", ha scritto di questo film Andrea Galli su "Avvenire" del 23 gennaio, lasciando però ai critici cinematografici una competente valutazione.

Perché quello che davvero premeva al giornalista del quotidiano cattolico – già interlocutore di Camillo Ruini nell'ultimo libro del cardinale, "Intervista su Dio", edito da Mondadori – era di alzare il velo su ciò che "The Revenant" fa solo balenare in una breve scena, quando inquadra il silenzioso protagonista tra le rovine di una chiesa cattolica, nel mezzo di una natura selvaggia.
Nei primi decenni dell'Ottocento, infatti, tra l'alto corso del Missouri e le Montagne Rocciose un pugno di eroici gesuiti percorsero quelle terre con un coraggio e una fortezza di spirito non inferiori a quelle del contemporaneo protagonista di "The Revenant". Anzi, avverte subito Galli, "con una differenza: essi si mossero non in cerca di guadagni materiali, ma per la salvezza delle anime, e riuscirono a penetrare il mondo indigeno come nessun altro prima".
La loro impresa fu stupefacente. Si estese sull'arco di tre secoli e il racconto che ne fa Galli su "Avvenire" è assolutamente da leggere per intero:
I pionieri di quei missionari gesuiti penetrarono in quelle terre nella prima metà del Seicento: "istruirono i pellerossa, li allontanarono da costumi disumani, li battezzarono e iniziarono una paziente inculturazione del Vangelo. Passarono per privazioni e prove che, se non fosse per le dettagliate relazioni che inviarono regolarmente ai superiori in Europa, sembrerebbero inverosimili".
Padre Isaac Jogues (1607-1646), catturato dai Mohawk, "dopo un anno di prigionia e torture ritornò in patria sfregiato e con le dita di una mano amputate. Ma poco dopo volle tornare fra i suoi indiani".
Padre Jean de Brébeuf (1593-1649), catturato dagli Irochesi, "subì un supplizio lento: venne ustionato con acqua bollente e carboni ardenti, gli furono spezzate una a una le articolazioni, quindi tagliati uno dopo l’altro naso, lingua, orecchie, gli furono cavati gli occhi. Non essendo riusciti a impedirgli fino all’ultimo di bisbigliare 'Gesù, abbi pietà di loro', i suoi carnefici dopo averlo ridotto a un tronco senza vita gli mangiarono il cuore e ne bevvero il sangue: segno di ammirazione per il suo coraggio e un modo per impossessarsene. E qualcosa del genere effettivamente accadde. Fu proprio un gruppo di Irochesi a tramandare a Ovest, fra le Montagne Rocciose, l’ammirato ricordo di Brébeuf e compagni. E così, 150 anni dopo, venuti a conoscenza della presenza di gesuiti nell’avamposto di St. Louis, quegli indiani compirono quattro spericolate spedizioni, di migliaia di chilometri, per chiedere con insistenza che uno dei grandi 'veste nera' andasse ad abitare fra loro".
Il che avvenne col gesuita belga Pierre-Jean De Smedt (1801-1873), "sorriso paterno e tempra d’acciaio, che divenne in breve, tra infiniti viaggi a piedi o in canoa su e giù per il Missouri, uno dei maggiori conoscitori di quelle terre. Imparò a dormire in mezzo alla neve, a cavarsela in condizioni proibitive, scalò montagne, si addentrò da solo, munito di breviario e del suo amato clarinetto, un po’ come il gesuita del film 'Mission', in mezzo ad accampamenti dove altri sarebbero stati immediatamente uccisi a colpi di tomahawk. Ma per gli indiani era l’uomo bianco che parlava 'senza lingua biforcuta'. Convertì con il suo esempio e anche con la sua prestanza. Uno degli indiani che battezzò cercò di ucciderlo in un’imboscata. Ma padre De Smet riuscì a disarcionarlo da cavallo, a sopraffarlo nel combattimento corpo a corpo e a strappargli l’ascia di guerra: la prova della sua abilità e la pietà che mostrò verso il vinto conquistarono quest’ultimo al Dio forte e misericordioso dei cattolici".
Fu fatta anche di questo la straordinaria spinta missionaria che animò la Chiesa cattolica fino a poco oltre la metà del Novecento. Dopo di che avvenne quel ripiegamento, anzi, quel crollo lucidamente denunciato da padre Piero Gheddo – lui stesso grande missionario – in una sua memorabilediagnosi di qualche anno fa.
Una diagnosi diametralmente opposta a quella tratteggiata da Francesco nell'omelia di apertura dell'anno giubilare, l'8 dicembre scorso, cinquantesimo anniversario di quel concilio Vaticano II che – a detta del papa – avrebbe invece spinto la Chiesa "ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario".
"Secche"? "Rinchiusa"? Ma non era quella degli anni, dei decenni, dei secoli precedenti il Vaticano II la vera Chiesa missionaria "in uscita", che oggi giustamente si vorrebbe "revenant", rediviva?

Settimo Cielo di Sandro Magister 28 gen

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