ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 9 gennaio 2016

Spalancate le porte!


http://opportuneimportune.blogspot.it/2016/01/santa-marta-outlet.html

Giubileo della misericordia, ma con i confessionali vuoti

La lettera choc di un sacerdote in cura d'anime. Sempre meno penitenti e sempre meno pentiti. Gli effetti controproducenti di una "porta" troppo spalancata

di Sandro Magister





ROMA, 9 gennaio 2016 – Hanno fatto notizia, a fine anno, i dati forniti dalla prefettura della casa pontificia sulle presenze nel 2015 alle udienze pubbliche con papa Francesco, con numeri quasi dimezzati rispetto all'anno precedente:

Alle udienze generali del mercoledì si è scesi dalle 1.199.000 presenze del 2014 alle 704.100 del 2015. Mentre per gli Angelus domenicali il calo è stato da 3.040.000 a 1.585.000.

Ciò non toglie che la popolarità di papa Francesco resti straripante. I suoi indici di popolarità non sono però in grado di dire quale grado di effettiva pratica religiosa vi corrisponda.


Molto più indicative sono, a questo proposito, altre rilevazioni. Ad esempio quelle ufficiali che l'ISTAT compie ogni anno in Italia sulla vita quotidiana di un gigantesco campione di cittadini, fatto di circa 24 mila famiglie, per un totale di circa 54 mila individui, residenti in 850 città grandi e piccole.

Nell'ultima rilevazione annuale resa nota, relativa al 2014, la "percentuale di persone di oltre 6 anni che si recano in un luogo di culto almeno una volta alla settimana" è risultata essere del 28,8 per cento.

Il fatto che più di un quarto degli italiani entri in chiesa almeno una volta alla settimana può essere giudicato notevole, in sé e in rapporto ad altri paesi. Ma  se si confronta questo dato con le rilevazioni degli anni precedenti, anche qui si registra un calo netto.

Durante i sette anni del pontificato di Benedetto XVI questo stesso indicatore è stato in Italia costantemente superiore al 30 per cento, e mediamente attorno al 32-33 per cento. Decisamente più alto che nel 2014, il primo anno pieno del pontificato di Francesco, quello in cui la sua popolarità ha toccato il picco.

La lettera che segue tiene conto di questi indicatori statistici. Ma valuta il reale "effetto Francesco" sulla vita religiosa con lo sguardo più ravvicinato e diretto del pastore d'anime, del confessore. Il quale scrive d'aver sperimentato durante questo pontificato non solo un ulteriore calo dell'accesso alla confessione sacramentale, ma anche uno scadimento della "qualità" delle confessioni stesse. Uno scadimento a cui non appare estraneo un utilizzo di certi detti di papa Jorge Mario Bergoglio che hanno avuto un  enorme successo mediatico.

L'autore della lettera è un ecclesiastico con specializzazione scientifica di alto livello e con rilevanti incarichi d'insegnamento in Italia e all'estero, ma che dedica anche molto tempo ed energia alla cura pastorale.

Le sue valutazioni riflettono quelle di un numero crescente di parroci, che – in via riservata – non mancano di confidare analoghe preoccupazioni ai rispettivi vescovi.

E anche "www.chiesa" assicura riservatezza all'autore della lettera, troppo esposto alle prevedibili ritorsioni di un "new establishment" ecclesiastico – come lui lo chiama – che ha nell'ossequio conformistico a questo pontificato uno dei suoi vizi più deleteri.

Una riservatezza che consente quella "parresia" o franchezza di parola tanto incoraggiata dallo stesso papa Francesco, che anche durante un sinodo vuole sia noto "che cosa" si dice in aula, ma non "chi" lo dice.

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“Chi è lei per giudicarmi?”. Le confessioni di un confessore

Caro Magister,

sull’impatto del pontificato di papa Francesco "ad intra" e "ad extra Ecclesiae", per quanto concerne il rinnovamento della vita spirituale dei fedeli e della loro partecipazione comunitaria a quella della Chiesa, così come l’auspicato ritorno alla pratica evangelica e sacramentale di quanti se ne erano allontanati negli scorsi decenni, non poco è già stato scritto. E da diverse prospettive: teologiche, antropologiche, storiche, sociologiche, culturali, comunicative e politiche. Null’altro ritengo si debba aggiungere in proposito, anche perché molti di questi dati e di queste considerazioni devono ancora essere digeriti attraverso una riflessione critica e pacata.

Resta comunque aperta – e in parte impregiudicata – l’individuazione di un robusto indicatore spirituale e pastorale per misurare l’effetto di un cambiamento di personalità, di disciplina o di insegnamento sulle anime e sul popolo di Dio.

Ne sono consapevole. Quelle di “anime” e di “popolo di Dio” sono due categorie teologiche ed ecclesiali oggi in disarmo, in particolare negli interventi dell’attuale pontefice e del suo "new establishment". Ma fanno pur parte, fino a evidenza contraria, della fede cattolica confermata dallo stesso Concilio Vaticano II. E la loro negligenza porta con sé il rischio, tutt’altro che peregrino, di scambiare la "salus animarum" con i "vota aliquorum" e il "bonum populi Dei" con il "popularis consensus". Traduco: la salute delle anime con i desiderata di alcuni e il bene del popolo di Dio con la popolarità.

Lascio ai cultori di sociologia della religione, di comunicazione pubblica della fede e di politica ecclesiastica ogni considerazione sulla partecipazione di massa dei fedeli e dei non credenti agli eventi pubblici in cui è presente il Santo Padre (udienze generali, Angelus, celebrazioni liturgiche, etc.) – i cui dati statistici ufficiali forniti dalla prefettura della casa pontificia mostrano una marcata flessione dal primo al terzo anno del pontificato di papa Francesco – e sul significato eventuale che questi numeri presentano in ordine alla conversione al Vangelo e all’adesione al messaggio "urbi et orbi" del pontefice per una “nuova primavera” della Chiesa, caratterizzata dalle “porte" spalancate con facilità verso tutti (se non ricordo male, il Vangelo di Luca però parla di una “porta stretta” per attraversare la quale occorre “sforzarsi”, fare fatica, e di “molti che cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”).

Desidero invece comunicare semplicemente l’esperienza – i fatti così come si danno nella quotidianità del lavoro pastorale di periferia, cosicché "contra factum non valet illatio" – di un prete che dedica il tempo e le energie che gli restano, dopo aver adempiuto al ministero che il vescovo gli ha principalmente affidato, all’opera della riconciliazione sacramentale, convinto che la misericordia di Dio passi anzitutto, in via ordinaria e sempre accessibile, attraverso la discrezione della buia grata e della stretta finestra del confessionale e non percorrendo, alla luce dei fari delle basiliche e sotto gli occhi di tutti, le grandi porte dell’Anno Santo (il cui merito è un altro: quello di far ottenere la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i propri peccati qualora già rimessi, quanto alla colpa, nel sacramento della confessione, che resta il primo e fondamentale veicolo della misericordia di Dio verso di noi peccatori, dopo il battesimo).

I fatti sono questi. Dall’apertura dell’Anno Santo voluto da papa Francesco e in occasione delle festività natalizie del 2015 – così come da quando Jorge Mario Bergoglio siede sulla cattedra di Pietro – il numero dei fedeli che si è accostato al confessionale non è aumentato, né nei tempi ordinari, né in quelli festivi. Il trend di una progressiva, rapida diminuzione della frequenza della riconciliazione sacramentale che ha caratterizzato gli ultimi decenni non si è arrestato. Anzi: mai come in prossimità di questo Natale i confessionali della mia chiesa sono stati ampiamente disertati.

Ho cercato conforto per questa amara considerazione immaginando che le basiliche legate all’Anno Santo a Roma o in altre città, oppure i santuari e i conventi, abbiano potuto attrarre un numero maggiore di penitenti. Ma un giro di telefonate ad alcuni confratelli che ascoltano abitualmente le confessioni in questi luoghi (cogliendo l’occasione di un augurio, come faccio ogni anno) ha confermato la mia constatazione: file di penitenti tutt'altro che lunghe, ovunque, meno ancora che nelle festività degli anni passati.

E vi è sempre meno notizia anche di conversioni memorabili di pecorelle smarrite da tanti anni, che ritornano all’ovile del Buon Pastore attraverso i “servi inutili” della sua misericordia che siamo noi preti. Quando, molto raramente, questo accade, non vi è esplicito né implicito riferimento alla persona o alla parola del papa attuale più di quanto ve ne sia stato in passato per i suoi predecessori (quanti giovani tornavano dalle Giornate mondiali attuando il proposito di confessarsi regolarmente!).

Diffidando del valore dei numeri, perché anche la salvezza di una sola anima ha un valore infinito agli occhi di Dio, ho ripercorso la “qualità” delle confessioni da me ascoltate e ho chiesto – nel rispetto del segreto confessionale circa l’identità del penitente – notizie ad alcuni confratelli penitenzieri di lunga esperienza. Il quadro che si presenta non è certo felice, sia per quanto concerne la coscienza del proprio peccato, sia in riferimento alla consapevolezza dei requisiti per accedere al perdono di Dio (anche in questo caso, so che il termine “perdono” sta cedendo il passo a “misericordia” e rischia di andare presto in soffitta, ma a quale costo teologico, spirituale e pastorale?).

Due esempi valgano per tutti. Un signore di mezza età, al quale ho chiesto, con discrezione e delicatezza, se era pentito di una ripetuta serie di peccati gravi contro il settimo comandamento "non rubare", dei quali si era accusato con una certa leggerezza e quasi scherzando sulle circostanze non certo attenuanti che li avevano accompagnati, mi ha risposto riprendendo una frase di papa Francesco: “La misericordia non conosce limiti” e mostrandosi sorpreso che ricordassi a lui la necessità del pentimento e del proposito di evitare in futuro di ricadere nello stesso peccato: “Quel che ho fatto ho fatto. Quel che farò lo deciderò quando uscirò da qui. Come la penso su ciò che ho compiuto è questione tra me e Dio. Sono qui solo per avere quello che spetta a tutti almeno a Natale: poter fare la comunione a mezzanotte!” E ha concluso parafrasando l’ormai celeberrima espressione di papa Francesco: “Chi è lei per giudicarmi?”.

Una giovane signora, alla quale avevo proposto come gesto penitenziale, legato all’assoluzione sacramentale di un grave peccato contro il quinto comandamento "non uccidere", la preghiera in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento esposto sull’altare della chiesa e un atto di carità materiale verso un povero nella misura delle sue possibilità, mi ha risposto seccata che il papa aveva detto pochi giorni prima che “nessuno deve chiederci nulla in cambio della misericordia di Dio, perché è gratis”, e che non aveva né tempo per fermarsi in chiesa a pregare (doveva “correre a fare gli acquisti natalizi in centro città”), né soldi da dare ai poveri (“che tanto non ne hanno bisogno perché ne hanno più di noi”).

È evidente che qualche messaggio, almeno così come ricevuto dal papa e giunto ai credenti, si presta facilmente ad essere frainteso, equivocato, e dunque non aiuta la maturazione di una coscienza certa e retta nei fedeli circa il proprio peccato e le condizioni della sua remissione nel sacramento della riconciliazione. Con buona pace di mons. Dario Viganò, prefetto della segreteria per la comunicazione della Santa Sede, l’"incedere zigzagante" tra i concetti senza mai soffermarsi a precisarne uno – che egli riconosce come pregio dello "stile comunicativo di papa Francesco", capace di "renderlo così irresistibile" all’ascoltatore moderno – presenta qualche inconveniente spirituale e pastorale, di non poco conto se ha a che vedere con la grazia e i sacramenti, il tesoro della Chiesa.

Mi fermo qui, per non abusare della sua pazienza nel leggermi. Non ho la pretesa di proporre come termometro della fede e della vita ecclesiale la quantità o la qualità delle confessioni e, più in generale, della frequenza ai sacramenti, né di fare di essi un parametro esclusivo per la valutazione di un pontificato o dello stato di salute della Chiesa. Non sarebbe equo e farebbe perdere di vista altre dimensioni della vita secondo il Vangelo e della missione ecclesiale.

Ma non dovremmo neppure trascurare di prendere in considerazione alcuni segnali preoccupanti che provengono dalle chiese di "periferia”, così come da quelle del “centro”.

Non avevano del tutto torto i vescovi che, almeno fino al Concilio Vaticano II e in molti casi anche dopo, durante le visite pastorali nella propria diocesi chiedevano anzitutto ai parroci quante confessioni e quante comunioni facevano in un anno, rapportandole al numero dei battezzati affidati alla loro cura.

E neppure avevano torto i papi che, in passato, si facevano consegnare dai vescovi in visita "ad limina apostolorum" il numero dei sacramenti amministrati complessivamente nelle loro diocesi.

Erano vescovi e papi che traevano utili indicazioni sullo stato della cura delle anime e della santità del popolo di Dio semplicemente dalla medicina delle anime e dal veicolo della grazia santificante.

Non disponevano certo di tutto l’apparato istituzionale, comunicativo, tecnologico e organizzativo reso possibile dalla sociologia religiosa e della stampa e radiotelevisione, ma avevano dalla loro l’umile certezza che non è accarezzando le mode culturali e antropologiche del tempo che si salvano le anime, né andando dietro all’onda dei (ri)sentimenti e delle rivendicazioni individuali e sociali all’interno e all’esterno della Chiesa che si edifica il popolo di Dio sulla via della santità.

Grazie per l'attenzione e tanti saluti cordiali, "ad maiorem Dei gloriam".

[Lettera firmata]
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351203


Effetto Francesco. La parola al sociologo delle religioni

Introvigne
Ricevo e pubblico volentieri questa ampia nota critica che Massimo Introvigne mi invia a proposito dei dati richiamati nel servizio di www.chiesa messo in rete poche ore fa:
Il professor Introvigne è sociologo di rilievo internazionale, ha fondato e dirige il Centro Studi sulle Nuove Religioni e insegna sociologia delle religioni all'Università Pontificia Salesiana di Torino.
Semplicemente premetto, a proposito dell'affluenza agli incontri con il papa, che ritengo meglio confrontabili, perché ricorrenti di anno in anno in modo più regolare, i dati delle udienze del mercoledì e degli Angelus, piuttosto che quelli delle udienze speciali e delle celebrazioni liturgiche, molto più discontinui, ma inclusi anch'essi nei dati complessivi.
Quanto invece al dato ISTAT 2014 sul 28,8 per cento di italiani che "si recano in un luogo di culto almeno una volta alla settimana" (cosa diversa dall'andare a messa), concordo sia con molte delle osservazioni che fa Introvigne, ad esempio sull'over-reporting di tante risposte rispetto alla reale pratica religiosa, sia sulla validità delle ricerche regionali da lui citate, a loro tempo ampiamente qui segnalate.
Ma ciò su cui il servizio di oggi di www.chiesa ha richiamato l'attenzione non è l'analisi del dato in sé, ma solo il nudo confronto tra il dato del 2014 e quelli di anni precedenti, che – a parità di metodo di rilevamento – erano più alti di 3-4 punti.
*
DEL CATTIVO USO DELLA SOCIOLOGIA
Caro Magister,
Seguo con attenzione il Suo blog e ho notato i riferimenti ai dati ISTAT sulla pratica religiosa e ad altri dati, accompagnati da diverse interpretazioni dei Suoi cortesi interlocutori. Come sociologo, sono preoccupato dall’uso improprio della sociologia come arma impropria nella contesa fra sostenitori e avversari di Papa Francesco. Alcuni di coloro che intervengono sembrano citare dati senza comprendere esattamente di che cosa si stia parlando.
Comincio da un problema più semplice, i partecipanti agli incontri a Roma con il Santo Padre (tutti, non solo le udienze del mercoledì) forniti dalla Prefettura della Casa Pontificia:
2008 - 2.215.000
2009 - 2.243.900
2010 - Dato non fornito
2011 - 2.553.800
2012 - 2.351.200
2013 - 6.623.900
2014 - 5.916.800
2015 - 3.210.860
I dati del 2013 riguardano solo il periodo dopo l’elezione di Papa Francesco. Non sono in grado di rispondere al quesito su perché le statistiche del 2010 non siano state a suo tempo diffuse. Le statistiche si commentano da sole. Gli incontri con Papa Francesco sono arrivati nel 2013 (calcolando che il dato non si riferisce a un anno pieno) ad attirare oltre il triplo dei partecipanti agli incontri con Benedetto XVI. C’è stato un lieve calo nel 2014 rispetto al 2013, ma siamo comunque ben oltre il doppio della media di Papa Ratzinger. E c’è stato un calo notevole nel 2015, in una parte significativa determinato dal vero e proprio crollo del mese di dicembre, nonostante il Giubileo. Dal momento che nel 2015, e in particolare nel dicembre 2015, Papa Francesco non ha modificato il suo stile e la sua predicazione rispetto al periodo precedente, mi sembrerebbe più ragionevole attribuire il dato ai proclami dell’ISIS su imminenti attacchi a Roma, ai fatti di Parigi e al diffuso timore di attentati. Le interpretazioni vanno comunque tenute separate dai dati. I dati ci dicono che Papa Francesco attira più fedeli a Roma di Papa Benedetto XVI. So benissimo che questo non ci dice nulla sulla qualità del suo Magistero. In questo testo parlo però solo ed esclusivamente di numeri e di sociologia.
Vengo al problema più serio, che occupa i sociologi della religione italiani – e non solo – in dibattiti spesso aspri da oltre vent’anni. Avendo partecipato in prima persona a questi dibattiti, mi fa un po’ sorridere l’enfasi giornalistica sui dati ISTAT. Se fosse vero che in Italia il 33% della popolazione andava a Messa regolarmente sotto Benedetto XVI e «solo» il 28,8% sotto Francesco, l’Italia sarebbe un esempio clamoroso di successo della nuova evangelizzazione, e i nostri vescovi dovrebbero essere lodati per avere messo in atto campagne missionarie di straordinaria efficacia ignote in altri Paesi. Con l’eccezione della piccola Malta e della Polonia, i dati noti ai sociologi sono inferiori al 28,8% in tutti i Paesi europei. L’Italia avrebbe quattro volte i praticanti cattolici della Francia e quasi il triplo della Svizzera e della Germania.
Purtroppo, questi dati sull’Italia non sono reali. Se si fa una media delle conclusioni delle ricerche compiute dai sociologi italiani che si sono occupati di questo problema nel XXI secolo, la valutazione si attesta intorno, o un po’ sotto, al 20%. Il centro studi che io dirigo, il CESNUR, stima il 18,5%. Da che cosa deriva la discrepanza con l’ISTAT? Non è che l’ISTAT abbia «sbagliato». È che stiamo contando cose diverse. Anzitutto, chi traduce il dato ISTAT in pratica cattolica non si avvede che i questionari dell’ISTAT sono formulati in modo religiosamente neutro. Chiedono se si frequentano «luoghi di culto» e non luoghi di culto cattolici. Molti li interpretano come se l’Italia fosse ancora un Paese a monocultura religiosa cattolica. Non è così. Il 2,9% dei cittadini italiani – secondo i dati aggiornati presentati su www.cesnur.com, il nuovo sito del CESNUR dedicato esclusivamente al pluralismo religioso in Italia e che affianca il sito istituzionale www.cesnur.org– appartiene a una minoranza religiosa. Attenzione: stiamo parlando di cittadini italiani, non di immigrati (se si contano i presenti sul territorio nazionale, immigrati compresi, la percentuale di fedeli di minoranze religiose sale al 9,1%). Il 2,9% può sembrare modesto, ma occorre considerare che si tratta in maggioranza di convertiti di prima generazione, per definizione praticanti. Se uno lascia il cattolicesimo o l’ateismo per convertirsi al pentecostalismo attirato dalle sue funzioni «calde», di solito va poi regolarmente a queste celebrazioni. I pentecostali italiani sono 319.000, e la percentuale di non praticanti è molto bassa. Per tacere dei 75.000 membri del gruppo buddhista della Soka Gakkai, una realtà religiosa definita appunto dalla «pratica» ben più che da una dottrina.
Soprattutto, l’ISTAT – come tanti altri istituti le cui statistiche finiscono spesso sui giornali – non conta chi va effettivamente in un luogo di culto, ma chi dice di andarci all’intervistatore. Si tratta di due dati molto diversi. Anche i non sociologi sanno quanto diverso sia contare chi dice che voterà un determinato partito nei sondaggi e chi lo vota effettivamente nelle urne. Ormai in tutti i Paesi per le cerimonie religiose si studia l’over-reporting, cioè la discrepanza fra chi risponde agli intervistatori dichiarando di essere andato in chiesa la settimana precedente e chi ci è andato per davvero. Come si fa? È semplice, ma è costoso. Occorre in una zona determinata rilevare con pazienza tutti i luoghi di culto, anche semi-privati e minimi, e in un week-end dato (iniziando il venerdì, perché ci sono anche le moschee) dispiegare rilevatori muniti di semplici macchine calcolatrici e registrare le entrate effettive. Dopo di che si procede con la consueta indagine telefonica a campione del tipo di quella realizzata dall’ISTAT, chiedendo agli intervistati se hanno partecipato a una funzione religiosa nella settimana precedente.
Conosco un solo Paese al mondo dove, con impiego di risorse massicce da parte dei vescovi cattolici, esiste una «domenica delle statistiche» in cui, da molti anni, avviene una rilevazione di questo genere in tutti i luoghi dove si celebra una Messa cattolica, seguita da un’indagine telefonica a campione. Si tratta della Polonia. I dati non sono esattamente pubblicizzati, ma sono accessibili agli studiosi. Il margine medio di over-reporting è del 12%, con punte più alte, fino al 16%. Questo significa che se, per esempio, in una regione polacca il 40% dichiara di essere andato a Messa nel week-end precedente, il conto alle porte delle chiese rivela che il dato reale è fra il 24% e il 28%.
In Italia non si sono mai trovate le risorse per indagini nazionali del tipo di quella polacca, ma esistono due serie statistiche costruite da Alessandro Castegnaro in Veneto e dal sottoscritto e PierLuigi Zoccatelli in Sicilia. Si può discutere sulla rappresentatività di dati regionali, ma rimane il dato curioso che in Veneto e in Sicilia il dato di partecipazione reale alla Messa rilevato con il conteggio alle porte delle chiese è quasi identico: 18,5% in Sicilia e 18,3% in Veneto. Dati che corrispondono alla stima dei praticanti regolari in diverse importanti ricerche sociologiche nazionali. Praticanti cattolici: la Sicilia è una delle regioni italiane con il maggior numero di pentecostali e i praticanti di altre religioni che abbiamo rilevato sono un altro 3,5% della popolazione totale. Nella stessa indagine siciliana – descritta nel volume di cui sono autore con Zoccatelli La Messa è finita? (Sciascia, Caltanissetta-Roma 2010) – nell’indagine telefonica si dichiarava praticante regolare il 33,6% della popolazione, cioè al netto dei non cattolici il 30,1%. Il dato dell’over-reporting corrisponde a quello medio polacco.
Chiudo con tre commenti finali. Primo: coloro che riferiscono all’ISTAT o ad altri di essere andati a Messa ma in realtà non ci sono andati non sono semplici bugiardi. Considerarli mentitori o burloni che si divertono a ingannare gli intervistatori sarebbe un altro modo di usare in modo sbagliato la sociologia. Tutti gli studi sull’over-reporting considerano il numero di chi dichiara di aver frequentato una funzione religiosa, anche se non lo ha fatto, tutt’altro che irrilevante. Le risposte esprimono infatti un’identità e un’identificazione con la pratica religiosa che è sociologicamente interessante, anche se non corrisponde a una pratica reale.
Secondo: le serie statistiche sulla partecipazione alla Messa mostrano che ha senso trarne conclusioni solo sul lungo periodo, ripetendo più volte le stesse indagini, anche in luoghi diversi. Il calo dei partecipanti alla Messa nell’Europa Occidentale – discorsi diversi valgono per altri continenti, Stati Uniti compresi – è iniziato negli anni 1960 e, pur non procedendo in modo lineare, è sempre continuato. Non possiamo neppure attribuirlo a fenomeni interni alla Chiesa Cattolica perché nelle denominazioni protestanti storiche il calo è stato ancora più marcato. In Italia abbiamo avuto un contenimento nel danno nei primi anni del pontificato di Giovanni Paolo II: ma è un dato che possiamo accertare e studiare seriamente solo ora, a distanza di qualche decennio. Dire adesso che il numero dei fedeli che vanno a Messa è aumentato o diminuito nel pontificato di Papa Francesco non ha molto senso.
Terzo: ho coniato io la formula «effetto Francesco» in una ricerca del 2013. Sono contento che sia stata ripresa in centinaia di altre ricerche e migliaia di articoli: ne ho trovati anche in Cina e in India. Vorrei però precisare che l’«effetto Francesco» delle mie due ricerche (2013 e 2014) non si riferiva affatto alla pratica religiosa festiva. Avendo partecipato ai dibattiti sul punto, e diretta una delle più note ricerche italiane sul tema, so benissimo che la pratica religiosa va misurata nel lungo periodo ed è influenzata da una serie complessa di variabili. Le mie ricerche per cui ho coniato l’espressione «effetto Francesco» miravano a confermare o smentire quanto Andrea Tornielli ed altri giornalisti avevano riferito in modo aneddotico: il fatto che un certo numero di parroci e rettori di santuari descrivevano persone da anni lontane dalla Chiesa che mostravano un nuovo interesse per il cattolicesimo, citando specificamente la persona del nuovo Papa come ragione di questo riavvicinamento. Attenzione: nuovo interesse per la Chiesa non significa decisione di partecipare regolarmente alla Messa domenicale. La partecipazione alla Messa si misura, come ho cercato di spiegare, con tutt’altra metodologia.
Su un campione di parroci italiani, il 50% ha confermato l’esistenza dell’«effetto Francesco» nella propria comunità, mentre il 50% non lo ha constatato. L’indagine è stata ripetuta da colleghi britannici – con un «effetto Francesco» lievemente superiore a quello italiano – e statunitensi, con un «effetto Francesco» inferiore. Conclusione: l’«effetto Francesco» non è unanimemente diffuso, ma non è neppure un’invenzione giornalistica.
Ancora una volta, tutto questo non ci dice nulla sulla qualità del Magistero di Papa Francesco. Ma non tirate per la giacchetta i sociologi.
Un cordiale saluto.
Massimo Introvigne

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