ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 23 febbraio 2016

L'eco del nulla

A suo tempo ho divorato il libro di Umberto Eco, Il nome della rosa, poi ho capito che in quella costruzione mancava un elemento fondamentale (che ora, confidiamo, possa vedere anche lo scrittore, Lassù).

Ero un lettore onnivoro. Spaziavo dai polizieschi al fantasy, dai tomi storici all'avventura. Quel volume era un best seller, e parlava di cose che amavo: medioevo, misteri, labirinti. Così me lo portai a casa, e lo divorai.
Un guaio dei lettori onnivori, che hanno letto troppo, è che spesso colgono le fonti da cui gli scrittori hanno attinto. Gli originali.
Ora, una citazione è qualcosa che può anche far piacere. L'ammiccamento ci può anche stare. Anche la parodia è benvenuta. Ma quando un autore prende le idee altrui e le fa proprie, senza dirlo...ecco, è una cosa che non riesco a sopportare. Non sono pochi i libri che ho lasciato letti a mezzo oppure ho terminato con fatica perché li ho scoperti plagi di opere precedenti.
Per fare di meglio del tuo modello devi essere veramente, veramente bravo. E no, Eco non lo era. "Il nome della rosa" è un libro enormemente sopravvalutato. L'idea di un frate investigatore la troviamo nella appena precedente saga diFratello Cadfael. Il protagonista e il suo assistente sono chiaramente modellati su Sherlock Holmes e Watson, ma non ne posseggono statura e carisma. In compenso ne rubano soluzioni e metodo. Il modus operandi dell'assassino è preso dai romanzi di Agatha Christie, veleno compreso (ma quell'idea era di Caterina de' Medici). Il bibliotecario cieco è Jorge Luis Borges, al centro del suo labirinto. A neanche un terzo del libro avevo già capito l'assassino. Mi mancava solo il vero movente: troppo stupido e irrealistico. I personaggi non erano persone vere, ma marionette che l'autore spostava per confermare la sua tesi. Storicamente non stava in piedi, e per uno che si atteggiava a storico era il peccato più grave.

Non avevo compreso quale fosse la cosa peggiore. Allora non ero ancora abbastanza attrezzato filosoficamente per cogliere in pieno l'intento dell'autore. Il suo nichilismo, la tesi portata avanti a scapito della realtà. Però capivo molto bene che aveva avvelenato la trama: un volume che emana qualcosa che uccide.
Ci misi qualche giorno, dopo averlo terminato, a comprendere cosa mi disturbava, e l'intuizione mi arrivò improvvisa: in quel libro non c'era amore.
Nessun amore, di nessuno per nessuno. Perché se tutto è nulla, se tutto è solo nome, allora niente ha senso, neppure l'amore. Nessuno dei monaci crede nell'amore di Dio, o prova piacere ad essere un monaco. Per tutti è scelta incomprensibile. E allora perché lo sono? In cosa credono, dunque? Ogni cosa è sopraffazione, sesso, potere, ideologia. Il cristianesimo è una scusa, una maschera, non esiste. Tutti vivono in una finzione.

Ma cosa mi può insegnare un libro del genere? Così diverso dalla vita che vedo, che provo ogni giorno? Un plagio erudito, un pastiche di cose già lette, assemblato male, senz'anima?
Nulla.
E da quel giorno ho chiuso con Umberto Eco.
Rimane la domanda, che mi sono fatta solo molto dopo: come mai un romanzo del genere riesce a diventare un best-seller? Come mai i critici, che pur libri ne devono avere letti almeno quanto me, non hanno colto quanto ho colto io, o, se lo hanno colto, non l'hanno detto?
E' un interrogativo che faccio anche a voi. Chi aveva interesse a spingere un libro che diffamava la Chiesa, alterava la storia, echeggiava il nulla? E perchè?
Berlicche

L’allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco,
secondo Padre Sommavilla
L'analisi del pensiero dello scrittore e il vero senso di
"Il nome della Rosa"
di Padre Guido Sommavilla
Articolo pubblicato su La Civiltà Cattolica del 19 settembre 1981
il nome della rosa
 Il Nome della rosa e la tesi radicale dello strutturalismo francese          
Roma – di Padre Guido Sommavilla, "La Civiltà Cattolica, 19 Settembre 1981 – "Ci riferiamo all'allegro nominalismo nichilistico che però Umberto Eco molto seriamente sostiene o, meglio, insinua nel suo recente romanzo Il nome della rosa, ora vincitore del Premio Strega 1981. Che noi sappiamo, la critica finora ha avvertito in questo libro il nominalismo, ma non che esso è esattamente nichilistico e tuttavia allegro e perché, né tantomeno ha visto che questa era la fondamentale intentio operis et operantisEppure tutta l'idea era dogmaticamente scandita in latino in un esametro che fa da ultima riga nell'ultima pagina del romanzo: Stat rosa pristina nomine, nuda nomina tenemus.Non abbiamo che i nudi nomi, cioè che le nude parole, le quali non dicono nulla tranne se stesse, non significano nessuna verità. È o, meglio, era la tesi radicale dello strutturalismo francese. Un nudo nome è dunque e soprattutto quello della rosa a cui spetta il primo dei nomi, cioè Dio, che è dunque lo stesso nome del nulla. La rosa del titolo è dunque Dio e il suo senso è il nulla. Se non abbiamo, con questo, azzeccato il senso del titolo, abbiamo certamente, ci pare, azzeccato il senso del libro, dove nella stessa ultima pagina sopracitata, 10 righe sopra l'esametro, si era sentenziato, questa volta in tedesco: Gott ist ein lautes nichts («Dio è un puro nulla»: nel senso di caos primordiale e finale).
 La Trama                                                                                                             
Se così è (e lo proveremo), allora non è esattamente vero che l'autore abbia scritto questo libro «per puro amore di scrittura». Vero è che tutto l'amore dell'Autore, come almeno qui risulta, è che tutto non sia che scrittura, che tutte le verità non siano che vuote parole, ma con una eccezione, la sua, la verità che tutta la verità non sia che un nudo nome. Per questa verità egli lotta, dicevamo, molto seriamente e per tutto il libro e con tutte le sue parole. Che si suppongono quindi in questo senso non una pura e vuota scrittura.
 La Trama esterna                                                                                               
Ecco molto in breve la trama esterna. Mentre Ludovico il Bavaro è in Italia e il Papa ad Avignonefra Guglielmo, un francescano inglese omonimo di Guglielmo di Occam, pure inglese e francescano e filosofo nominalista (e partigiano dell'Imperatore), si trova a inquisire in una abbazia benedettina italiana tra Appennino e Alpi marittime su certi orrendi fatti. In una settimana sette frati vengono trovati uno per notte uccisi in circostanze misteriose, che però hanno tutte un riferimento alla grande biblioteca del monastero. Questa è una vera fortezza-labirinto, fatta apposta, si direbbe, per scoraggiare il sapere invece che promuoverlo. Vigila su di essa la tetra figura di un monaco tedesco: Iorge (da würgen = strozzare?). Mortali vendette a spirale tra omosessuali o mortali contese di potere? Guglielmo scopre alla fine che era fin peggio: una mortale contesa circa un libro proibitissimo, protetto sopra ogni altro da segreti, divieti, trappole e da un veleno micidiale incollato sulle pagine. Chi, mosso da perversa curiosità, lo toccava, moriva. Che libro? Nientemeno che il presunto libro secondo della Poetica di Aristotele nell'unica copia esistente, dove il filosofo trattava, dopo la tragedia, la commedia ossia l'ironia.
 La Trama interna                                                                                               
Vedremo più avanti le ragioni della sua estrema pericolosità. Prima occorre sapere della trama interna, ideologica, che attraversa quella esterna. L'intero romanzo si offre infatti ad essere fondamentalmente interpretato come una deriva di riduzioni, mediante identificazione, del valore o senso superiore all'inferiore o del supremo all'infimo e nullo o del diverso all'identico, dove l'identico è ogni volta l'inferiore o infimo o nullo. Si tratta ogni volta, naturalmente, di alti e di bassi presunti, quanto a valore, nella valutazione di chi scrive. I due antagonisti massimi, poi, della romanzesca vicenda, appunto Guglielmo e Iorge, sono interpretabili a massima profondità come, rispettivamente, colui che avalla e colui che frena una simile deriva. Ma ecco anzitutto alcuni esempi emblematici e di progressiva intensità in questo riduzionismo.
 Un significato di volontà schopenhaueriano-nietzscheano-freudiano   
Il tema attacca durante un dialogo tra Guglielmo e Ubertino da Casale là nell'abbazia: «Quello che volevo dire è che c'è poca differenza tra l'ardore dei serafini e l'ardore di Lucifero, perché nascono sempre da un'accensione estrema della volontà […] temo di non sapere più distinguere, Ubertino». E Guglielmo cita a sostegno di questa sua «paura» un brano di Angela da Foligno, dove una sua mistica esperienza di amore con Cristo viene descritta con terminologia erotica. Ubertino, che è uno «spirituale», reagisce con sdegno: «Non è la stessa cosa, c'è un salto immenso». Due pagine dopo sempre Guglielmo insinua che l'identificazione è, più precisamente, riduzione (freudiana) delle passioni anche più nobili e sante, come l'adorazione e l'umiltà, a «lussuria», a quella stessa a cui si riducono in fondo in fondo anche la superbia e la rivolta. Chi leggerà con attenzione questo tema troverà che un filo unico unisce queste prime sue formulazioni con certe ultime, per esempio: «La radice […] dei peccati è la radice stessa della santità». Troverà che questa «radice» è ancora e sempre quell'«ardore», quell’«accensione della volontà» o quella «lussuria» di cui aveva detto Guglielmo, dove il significato di volontà non è evidentemente più quello classico di facoltà della libertà iscritta nell'intelligenza della verità, ma è quello di istinto vitale cieco in senso moderno schopenhaueriano-nietzscheano-freudiano, di cui il desiderio erotico-sessuale è il punto focale massimo (Schopenhauer) o il centro radicale onnicomprensivo (Freud), ola egualmente cieca volontà di potenza che viene prima dell'intelligenza e la determina(Nietzsche). Ed è già per il Guglielmo di Eco quello che sarà per tutti costoro: la sola fondamentale realtà dell'uomo, della quale tutto il resto (intelligenza, spirito, virtù, arte, ecc.) non è che l'alone, l'epifenomeno, il mito, non più realtà ma irrealtà e illusione.
 Riduzionismo totale dall'alto al basso                                                           
Tutta la massa interna del romanzo conferma questa interpretazione nella linea di un riduzionismo sempre più totale dall'alto al basso mediante identificazione o eliminazione di tutte le differenze.Nessuna differenza viene stabilita, per esempio, tra «eretici» e «cardinali», che sono due «perversioni» uguali e contrarie; e nessuna tra «eresia» e «ortodossia», di cui pure fra Guglielmo non vede più la differenza. Si intende, non nel senso che entrambe sono o vere o false, ma nel senso che la verità in genere non esiste, «non è da nessuna parte». Anche verità e falsità, dunque, si identificano in unmedium che le cancella entrambeMa più avanti sembra invece che la verità si trovi dalla parte degli eretici, identificati con gli esclusi di ogni tempo, a loro volta identificati con i «poveri» e i «semplici» di ogni tempo, che sarebbero da sempre gli «esclusi» dai «poteri».
 L'influenza del nominalismo di Guglielmo di Occam                                
Ora i poveri e i semplici hanno «ragione [dunque hanno la verità] perché posseggono l'intuizione dell'individuale», che esclude ogni universale, come insegnava OccamPeccato però che lo si dica così universalmente di tanti e come criterio universale di verità e dopo che si è detto che non c'è veritàGuglielmo è accompagnato là nell'abbazia da un giovane novizio benedettino tedesco di nome Adso, che gli fa da segretario. È lui il finto narratore di tutta la vicenda. Sarà via via sempre più conquistato dal riduzionismo radicale di Guglielmo. Ne fa anzi a un certo punto l'esperienza: sperimenterà cioè personalmente l'identità tra l'esperienza mistica di Angela da Foligno e quella erotico-sessuale che egli si prende una notte con una puttanella che i monaci, non contenti della loro omosessualità, avevano introdotto furtivamente in biblioteca.
 Dio e il caos primordiale                                                                                  
Una riduzione identificazione più vistosa e universale si ha alla fine: quella tra Dio e il caos primordiale (del possibile: presunto concetto occamistico di Dio), a cui aderisce Guglielmo, e quella, che è però la stessa, a cui aderisce proprio nell'ultima pagina Adso: tra Dio e il nulla, già sopra riferita. Si intende il nulla di noi tutti singolarmente presi, di tutti i nostri io distinti, e di tutte le differenze della realtà, tutte cose destinate a disfarsi alla fine nell'unico, indifferenziato Dio-caos primordiale e finale. Allo stesso modo che tutta l'abbazia, uomini, animali, reparti, libri, saràridotta alla fine in cenere da un incendio apocalittico sviluppatosi da un libro che prende fuoco. E allo stesso modo che già Adso aveva profeticamente previsto in un suo sogno, dove aveva visto confondersi e rovesciarsi oscenamente l'una nell'altra le cose, i simboli e le persone più sante e più perverse e, per esempio, Cristo con Giuda e viceversa.
 Due verità a sfida                                                                                               
Ma l'identificazione-riduzione più impressionante tentata (ma forse non riuscita) in questo libro è quella che lo stesso Adso intuisce per un lampo e «con un brivido»: tra Guglielmo e Iorge, i due antagonisti massimi là nell'abbazia, che, ormai riconosciutisi a vicenda per tali, si sfidano mortalmente, ma guidati e istigati dalla stessa ambizione di fondo (dalla stessa «lussuria»: vedi sopra) a sopraffarsi a vicenda, l'uno per impadronirsi del libro di cui sopra, al fine di liberarne la verità, e l'altro per nasconderlo o, al limite, distruggerlo col fuocoallo scopo di soffocarla.All'acme di un diverbio, il dialogo culminante di tutto il romanzo e decisivo dei suoi significati, essi si accusano a vicenda di essere «il diavolo».
 Confusione tra bianco e nero, tra valori più alti e valori più bassi          
Vale la pena analizzare un po' i termini di queste due «diavolerie» in contesa mortale. Nel dialogo di cui si tratta Iorge spiega perché il trattato aristotelico sulla commedia o ironia è pericoloso al punto da dover essere tenuto segreto a tutti i costi, non escluso il delitto. Perché in essol'ironia vi era approfondita a tal punto fino ai principi da insegnare a ridere per principio di tutto, anche delle cose più venerabili, sante e terribili, quali la «santità», il «peccato», l'«Incarnazione»così che sarebbe stato allora possibile anche peccare senza paura. Il libro avrebbe insegnato a riconoscere la sostanza ridicola di tutta la realtà, a confondere i valori più alti con i più bassi, e dunque a ridere dei primi come dei secondi, anzi addirittura «a tentare di redimere con diabolico rovesciamento l'alto attraverso l'accettazione del più basso». Avrebbe insegnato, ad esempio, che tutto non è, in fondo e in realtà, che lussuria, istinto erotico-sessuale di vita, identico all'istinto di morte (come insegnaFreud), ennesima identificazione riduzione. Era insomma una Aristotele, tutto romanzesco evidentemente, che aveva già intravisto la «verità» nominalistico-nichilistica di Umberto Eco, la verità che non esiste nulla di serio.
 Verità illuministica e nominalistica                                                               
Precisamente questa era anche la «verità» che Guglielmo cercava, che già in fondo sapeva. Era davvero una «diavoleria» per Iorge. Una «diavoleria» erano invece per Guglielmo la contro verità di Jorge che le sue contro misure a impedire la diffusione dell'altra. Per Guglielmo «il diavolo e la fede senza sorriso la verità che non viene mai presa in dubbio […] verità che ha il sapore della morte […] la tetraggine». Evidentemente un «romanzo» strutturato in modo da culminare in simili contrapposizioni, dove è chiara la scelta dell'una posizione contro l'altra, non è stato scritto «per puro amore di scrittura». Esso mira evidentemente a una «verità» contro un'altra «verità», dove la prima è allegramente avallata per vera e la seconda rabbiosamente denunciata per falsa, tenebrosa, disumana. La falsa verità di Iorge è poi evidentemente supposta come quella dell'inquisizione ecclesiastica e in genere della Chiesa cattolica. La vera verità di Guglielmo-Eco è non meno evidentemente quella di una inquisizione «illuministica» e poi inoltre «nominalistica», protesa ad abbattere la prima con l'abbattimento di ogni possibile verità, con il dogma dei nuda nominaMa che cosa possono mai abbattere dei nudi nomi?
 Il nome della rosa - Un assioma tutto da ridere                                           
Se poi la verità è che tutto è da ridere, è da ridere (direbbe proprio Aristotele) anche la teoria che afferma che tutto è da ridere, tutta da ridere dunque anche l'idea centrale di questo libro.È dunque ridicolo sostenere che tutto è ridicolo. Sarebbe ridicola allora anche per esempio l'intelligenza (magari di Eco) o la scienza, che pure questo nominalismo riduce a dei puri giochi tra parole. E sarebbe allora ridicolo anche il dolore, l'ingiustizia e tanti tragici errori, magari pure dell'inquisizione ecclesiastica. Ma l’équipe di Bennassar ha dimostrato che perfino l'inquisizione ecclesiastica spagnola è stata per i suoi tempi, a confronto dei tribunali «secolari», un tribunale modello per «serenità» e «discernimento»Neppure la peggiore delle inquisizioni è stata dunque come Eco qui ce la dipinge, come gli piacerebbe fosse stata.

 Dogmatismo assoluto, nominalismo e ateismo reale                                 
Se c'è uno che non prende mai in dubbio la sua verità è l'Autore di Il nome della rosa nel suodogmatico assoluto, nominalismo e ateismo. Una «tetraggine», una «verità dal sapore di morte», è semmai, di nuovo, questa sua dei nudi nomi, della totale non verità e del nulla nichilistico, alla fine, di tutti noi e di tutte le differenze nel Dio-caos. È poi falso che la verità cattolica sia che tutto è da piangere o che tutto è mortalmente serio: essa distingue benissimo tra più o meno serio e faceto, come distingue tra tante altre cose, scale di valori e disvalori, ragioni di dolore e di gioia (flere cum flentibus, gaudere cum gaudentibus), che invece l'altra «verità» non sa più distinguere nel suo grigio anzi nero e banale riduzionismo.
 Un libro costruito a specchi deformanti… e tattica strisciante                  
Un'ultima curiosità. Perché francescano questo Eco dell'uscente Medioevo? Evidentemente perché erano francescani anche gli inglesi Occam e Ruggero Bacone, suoi maestri e supposti antesignani dell'età moderna. Guglielmo simpatizza con i movimenti francescani deviazionisti, è sottilmente ribelle al Papa e parteggia per l'Imperatore (per il potere laico sull’ecclesiastico). Ma la vera ragione originaria della scelta è San Francesco stesso come Eco se lo concepisce. Il «giullare di Dio» pure insegnava a ridere, e rideva, di tutto, e anticipava così a meraviglia l'idea che non c'è niente di serio al mondo. Era l'ispirazione originaria del Poverello. Solo che poi egli stesso l'ha tradita o gliel'hanno fatta tradire: quando accettò di rientrare sotto l'ombra del Potere, lasciandosi approvare la regola dal Papa. Come a dire che invece del buffone che era destinato a diventare ha accettato di diventare un santo. Ma con la sua vile «inclusione» sotto il Potere egli ha escluso gli esclusi, cioè i poveri e i semplici. Che è un altro lampante falso storico, tra i tanti di questo libro: tutto costruito a specchi deformanti in serie sistematica e tattica strisciante, a discredito e derisione (anche se fa poi ridere così poco) di tutti i valori della Chiesa, della religione, dell'etica, della civiltà e della vita".
Padre Guido Sommavilla / Civiltà Cattolica

Articolo pubblicato su La Civiltà Cattolica del 19 settembre 1981
http://www.quieuropa.it/lallegro-nominalismo-nichilistico-di-umberto-eco-secondo-padre-sommavilla/

I poveri sono bestie. Parola di Eugenio Scalfari

di Alceste
I tempi attuali hanno questo di particolare: dovremo viverli sino in fondo e berne la coppa sino alla feccia.
Uno dei maestri residui del pensiero italiano (un altro, celebratissimo, è crepato recentemente), il nababbo Eugenio Scalfari, nei giorni scorsi se ne è uscito con tale argomentazione: “i poveri soddisfano esclusivamente i loro istinti e voglie primari; non ne hanno di secondari: la ricerca di Dio, ad esempio; collezionare ceramiche Ming; leggere trattati di socialisti tedeschi dell’Ottocento; scrivere per il teatro; occuparsi di lirica et cetera. Il loro mondo (il mondo dei poveri) è chiuso, basico, animale”.
I poveri, ne consegue, dei bruti.
Ovviamente Scalfari ha ragione. Tutta la mia famiglia, ad esempio, in particolar modo i miei ascendenti diretti (nonni materni e paterni), son lì a confermare le sue tesi.  Aggiungo di più.
I poveri, quelli veri, quelli che ben presto popoleranno la nazione, sono pure brutti, sporchi e cattivi.
Brutti poiché le privazioni imbruttiscono; e un lavoro non intellettuale (lavoro intellettuale: scrivere articoli da quattro soldi con l’aria condizionata, i piedi sul tavolo e le sfogliatelle alla propria destra, ad esempio) non regala tempo per curarsi la barba come un orticello (altro esempio).
In quanto brutti i poveri attirano altri brutti: ne nascono, a meno di un terno secco cromosomico, figli brutti.
I poveri sono sporchi, poi, perché quando si è brutti, con un lavoro di merda, e la mattina ci si sveglia con una donna laida, grassa e sboccata al fianco (è un esempio pure questo) si va in depressione, e, in depressione, come tutti sanno, non si ha mica voglia di farsi la doccia, profumarsi con essenze che nemmeno si è in grado di comprare o tagliarsi i baffi in maniera cool.
Va da sè che un tizio che è brutto, con una moglie brutta, e figli brutti, senza una lira, con un lavoro merdoso e le ascelle che gli puzzano, si incattivisca ogni giorno che passa.
Queste mie considerazioni sembrano facili e posticce, ma non è così: si basano su una osservazione costante,empirica, trentennale, degli Italiani.
Quando dico che i poveri sono brutti intendo proprio questo: che esiste una relazione diretta, scientifica, causale, fra la mancanza di pecunia e le fattezze umane (le gambe delle donne: basta osservare le gambe delle nostre nonne e le gambe delle loro nipoti; la bellezza delle gambe delle donne è questione di censo. Le belle nipoti però non hanno da illudersi: le gambe delle loro figlie torneranno presto a incurvarsi).
Ed esiste una relazione diretta tra povertà e moralità umana (sempre dei poveri: ignoranti, zotici e maleducati).
Insomma Scalfari ha ragione: i poveri sono bestie.
Tuttavia oserei rivolgergli una domanda: com’è che i nababbi suoi pari (De Benedetti, Tronchetti Provera,Montezemolo, gli Agnelli et cetera) e tutti gli intellettuali che secondo lui intrattengono altissimi discorsi e pensose meditazioni (con una ruga sulla fronte), e tutti i dotti che ha il privilegio di interrogare con quesiti celesti sulla vita e sulla morte (vescovi illuminati, rabbini illuminatissimi, premi Nobel) – insomma tutta la sceltissima pletora di menti eccelse che i bisogni primari non sanno manco cosa siano, e vantano, invece, bisogni secondari, terziari, quaternari … come mai tutti questi eletti sono, alla fine della fiera, delle micidiali nullità?
È una semplice domanda, non altro.
Insomma, ragazzi miei, se l’italia è in declino da trent’anni almeno, tanto che la sua classe media è ormai in putrefazione culturale, a chi addebitare la colpa?
Non ai poveri, che pensano solo a magnà’, a beve e a scopà’ (i bisogni primari).
Cos’ha dato alla nazione De Benedetti? E Montezemolo? E il cardinal Martini, a ben pensarci, cosa ha fatto per impedire l’agonia dell’Italia? Hanno mai detto qualcosa, questi venerati maestri un tanto al chilo, contro la trasformazione d’un Paese geniale e bello in un mattatoio sociale (son solo tre esempi, potrei continuare per decine di pagine)?
Sorgono altre domande. Se i poveri sono come porci in calore, il cui unico scopo è guazzare nel tiepido brago della propria limitatezza, quali bisogni secondari aveva uno come Lapo Elkann? Privo di vere urgenze (proprie ai brutti, sporchi e cattivi), in realtà cosa cercava?
Son curiosità.
Che fanno sorgere altre curiosità. Esempio: cos’ha dato alla nazione Eugenio Scalfari? Come si son inverati i suoi bisogni secondari, terziari?
Mentre è sprofondato sui velluti della redazione di Repubblica meditando le superne cose de l’etternal gloria, insomma, che gli passa per la capoccia? Lui che è una delle punte più acuminate del genio nazionale.
Che gli passa per la testa a queste flebili increspature della storia della mediocrità, a parte tali sbocchi di boria suprematista, dopo decenni e decenni di chiacchiere, pontificazioni, giri di valzer, tradimenti? Quale debito vantano verso la comunità e il nostro futuro questi tronfi massoni del nulla?
Fonte: Pauper Class

1 commento:

  1. Eco ebbe la necessità di lasciare una traccia di veleno contro la Chiesa , come lui stesso disse una volta a proposito del libro che lo ha reso famoso. Forse come accade a molti per qualche sgarbo ricevuto. Per quella traccia di veleno è stato esaltato dalmondo laico. Su Avvenire in compenso è stato definito cattolico di ferro..rip

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