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mercoledì 30 marzo 2016

Il segno della croce

MORETTI RISPOSTA AL POSITIVISMO

    Il segno della croce di Marino Moretti è la risposta cristiana a Germinie Lacerteux. E' certo che il suo romanzo Il segno della croce pubblicato nel 1926 è la “risposta” cristiana e cattolica al Naturalismo positivista 
di Francesco Lamendola  



 Non sappiamo se Marino Moretti lo abbia concepito così; non sappiamo nemmeno se egli abbia letto il romanzo più famoso dei fratelli Edmond e Jules de Goncourt, Germinie Lacerteux, apparso nel 1865: ma è certo che il suo romanzo Il segno della croce, pubblicato nel 1926, è la “risposta” cristiana e cattolica al Naturalismo positivista, forte di una fede incrollabile nella Scienza e nel Progresso, ma di una povertà raggelante sul piano spirituale.
(anche se il famoso critico Emilio Cecchi vede piuttosto una certa analogia con il romanzo settecentesco di Daniel Defoe, Moll Flanders). Entrambi i romanzi, quello di Moretti e quello dei fratelli de Goncourt, hanno per protagonista una donna del popolo, una umile serva, la cui vita si svolge tutta nella cerchia ristretta ed asfittica dell’universo padronale; la prima è affezionata, a suo modo, alla padrona, ma soggiace al ricatto morale del suo uomo, che la spinge sulla china della colpa e la induce anche a rubare nella casa in cui presta servizio; la seconda passa da un padrone all’altro, sempre maltrattata e mortificata, tenta anche di farsi una propria famiglia e dei propri affetti, ma fallisce sempre, tuttavia conservando un fondo di purezza e d’inconsapevole “santità”, mentre l’altra, quella creata dai fratelli de Goncourt, imbocca senza speranza e senza ritorno la strada della degradazione, del vizio e della follia.
Marino Moretti è uno scrittore d’ispirazione cristiana, anche se del suo cristianesimo non fa una esplicita bandiera, non lo proclama se non sommessamente, nei pensieri e soprattutto nella vita dei suoi umili e tribolati protagonisti; ed è questa la differenza sostanziale con la prospettiva dei de Goncourt e, in genere, con tutta la letteratura di stampo positivista, ma anche con gran parte di quella decadentista. Per Moretti romanziere – non del tutto riferibile al Moretti poeta crepuscolare, quello delle Poesie scritte col lapis (1910), che molti italiani hanno incontrato sui banchi di scuola – la letteratura non è studio d’ambiente e nemmeno analisi psicologica, ma pietoso chinarsi sul dramma degli ultimi, senza l’epos verista di un Verga e anche senza l’epos cristiano del Manzoni: perché Moretti resta fedele alle tinte grigie, sfumate, alle atmosfere desolatamene tristi, ma non tragiche, di A Cesena o di La domenica dei cani randagi, ma vi innesta una sorta di ardita fierezza dei reietti, degli umiliati, un istintivo amore per la vita, colta specialmente là dove essa si fa difficile e occorre conquistarla giorno per giorno, con sudore e con pena.
La serva che è la protagonista del romanzo di Moretti, lo si vede subito, è assai cara al cuore dell’autore; il sottotitolo, Il romanzo di una serva di campagna, ha un tono affettuoso che invano si cercherebbe nell’opera dei de Goncourt, che osserva la protagonista con l’occhio freddo e impassibile dello scienziato interessato soprattutto a ciò che è deforme e patologico (“implacabile come la miseria”, ebbe a definirlo Victor Hugo), più che con umana partecipazione; e, tanto per essere ancora più chiaro, qualora ve ne fosse stato bisogno, Moretti aggiunge una dedica esplicita: Alla cara memoria di Maria C., serva. Anche Germinie, come Clarice, è una povera ragazza di campagna; ma il suo destino si compie nella metropoli, a Parigi, dove va a servizio presso delle rancorose sorelle; mentre quello di Clarice, anche se, a un certo punto, anch’ella deve seguire i suoi padroni nelle grandi città, Parigi compresa (ma è questa, forse, la parte meno felice del romanzo), resta pur sempre una ragazza di campagna dal principio alla fine, la città non ha il potere di cambiarla, né di corromperla; e, se riesce, per un momento, ad illuderla, non riesce tuttavia a spingerla verso la degradazione, perché la sua radicata sanità contadina la protegge e la difende anche nei momenti di più grave umiliazione e sconforto.

Ha scritto Emilio Cecchi su questo romanzo di Moretti (nella Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Milano, Garzanti, 2001; edizione per il Corriere della Sera, 2005, vol. 17, pp. 399-403):

Il taglio del libro fa pensare alle predelle d’altare nelle quali son schierate, una accanto all’altra, figurine di martiri e di santi, come se qualcuno debba passarle in rivista in un corridoio dove soltanto con qualche industria si evita di batter il capo nel soffitto. E la figura, qui,è sempre della stessa persona, a tanti momenti della sua carriera mortale. Delicati Clarice, una seguace di Santa Zita, protettrice, come tutti sanno, delle povere serve.  E par quasi di identificare Clarice con la santa: una Santa Zita senza aureola, fra marmitte e granate; per isbaglio o per burla indotta in tentazione; una volta, ahimè, perfino incinta;  più e più con gli anni vilipesa e più vicina a quello che lo scrittore assume come ideal tipo d’umanità, e diciamo pure di santità; la creatura buona senza saperselo, un po’ grossa, forse un po’ sciocca; tipo che il Moretti ha trovato da studiare sul vivo in fondo alla provincia; nella trasformazione letteraria del quale, a un esame attento, si riconosce qualcosa del fanciullino del Pascoli, dell’”umiliato e offeso” dei russi, con magari un po’ di Renard e Charles-Louis Philippe; ma, tutto, fuso genuinamente,  rinato in un’atmosfera nativa, diventato, insomma, autentico Moretti.
Siffatta disposizione dell’opera è troppo semplice, per non aver precedenti, in ogni letteratura, che sarebbe ozioso elencare. Il paragone più famoso – e soltanto il fatto di azzardarlo è altissimo elogio – forse ci viene offerto da “Moll Flanders” di Defoe, epopea della servetta ingannata dal figlio de’ padroni e che a poco a poco, attraverso matrimoni discutibili e peripezie d’ogni sorta, scivola nel meretricio, e al meretricio unisce il furto, sperimenta gli orrori del bagno penale e della colonia; e torna a Londra, a tempo per finire la vecchiaia come donna onesta. Nemmeno in Defoe è mutazione morale della protagonista; sebbene Moll Flanders, da prima ingenua, doventi, abbiam detto, ladra, prostituta, e, inconsciamente, incestuosa. Ma, durante le sue traversie, le resta un tomo di bontà spietata, di dignità senza infingimenti;  e questa interpretazione d’un carattere che sembrerebbe non poter definirsi altro che infame costituisce una delle novità del libro, rispetto al tempo, e una delle ragioni della sua grandezza.  Nel Moretti non si esce da una scala di sentimenti compresa fra l’aspirazione, poco più amabile, all’amore, e una bontà cieca e rassegnata. Nessun studio d’avventure; ma un passaggio da casa a casa, da padrone a padrone; e anche l’intermezzo coniugale è poco meno che un altro servaggio. Soltanto quando lo scrittore ha sentito la materia assottigliarglisi fra mano e forse intepidir l’interesse, ha deciso di trasportarsi fuor dell’ambiente provinciale, a Roma e poi a Parigi. E qui il libro ci trova meno consenzienti.
Nel rotolio monotono di quell’esistenza servile, nel movimento a temi estremamente scarni, sul quale il Moretti ha condotto il racconto, era facile inserire di tutto, a titolo d’abbellimento e divagazione; e non sempre la scelta è stata di gusto. Si ricorderà il famoso colpo di pistola, nei “Due fanciulli”, che lasciò perplesso più d’un lettore; e a molti, anche oggi, sembra impossibile che Moretti l‘abbia scaricata davvero quella pistolettata. Così, ora, l’ha ripreso l’illusione di aver talvolta bisogno di toni e passaggi assai crudi; e basterebbe citar l’episodio della padroncina di Clarice, con la quale lo sposo bestiale consuma a violenza la prima festa delle nozze, in fondo a un palco, durante un’”Aida” di gala; o la notturna gita della vecchia Clarice col soldato al Colosseo. In realtà, sembrano scoraggiamenti dell’artista a lavorar quella sua trama monocroma, cui pensa aggiunger pregio con sanguigni contrasti; mentre essa gli fiorisce più riccamente con quanta più sobrietà egli la tratta.
Ma quand’egli è in provincia, la mano gli si muove più leggera e sciolta anche a’ pretesti caricaturali. Lo sposalizio di Clairce, il poeta rusticano che improvvisa un epitalamio grottesco finito a ceffate, sono indovinati alla perfezione nel colore e ne’ movimenti. Così la serie delle figure appena travestite, di cui l’artista sembra far tanti specchi alla povera Clarice; il corteggio delle serve, la Dosolina, la Zelma, la Luziina; e, nelle lontananze parigine, Zoè, la serva mora.
E valga, soprattutto, l’autenticità del motivo fondamentale. La musica che ne sgorga è tenue, a volte sviata; ma quando cotesto motivo ritorna ingenuamente, cessa ogni stanchezza in chi ascolta,, e il racconto ritrova un ritmo vitale.  In questo, il Moretti è maestro: in una capacità d’invenzioni straordinariamente sobrie, fatte di nulla, ma cariche di tanta suggestione affettuosa; e, nel loro ordine, ornate di grazia caratteristica e pittoresca. Del suo piccolo mondo è diventato padrone; lo conosce in tutte le pieghe, in tutte le screpolature; può trarne tutti i partiti. Che cosa può cercare in un clima descrittivo che non è il suo, chi sa rappresentarci a quel modo indimenticabile la decrepita Luziina coll’abito mortuario di francescana; i piccoli giardini pubblici sacri agli amori ancillari; o il piccino che saluta Clarice, arrivata nuova al servizio, chiedendole d’aiutarlo in un “bisognino”?
Federico Zuccari aveva messo il “bisognino” in una scena dell’”Età dell’Oro”, sotto gli alberi delle Esperidi.Il Miller ne trasse il tema d’un capolavoro. Rimbaud, anarchicamente, mirava alle stelle. Moretti, col “bisognino” ha decorato uno zoccoletto, un peduccio dell’altarino di Santa Zita.


Si dice, ed è una giusta osservazione, che la bellezza è nell’occhio che guarda, non nella cosa in se stessa; ebbene, l’occhio con cui Moretti guarda le cose è un occhio pieno di bontà, di comprensione, di tenerezza, che le riveste tutte, anche le più umili e le più miserevoli, d’una certa quale dolcezza luminosa, di una certa quale grazia semplice e affettuosa, piena di umana sollecitudine e di cristiana pietà. Invano si cercherebbe qualcosa di simile in Geriminie Lacerteux, dove la protagonista, orfana sbalzata dalla provincia rurale nel ritmo turbinoso e malsano della grande capitale, serve soprattutto ai suoi autori per mostrare la strada del nuovo romanzo naturalista, concepito come un documento scientifico e fondato su una lettura del fattore umano come qualcosa di puramente biologico, e meccanico, sottoposto all’imperio di leggi fatali e ineluttabili, quelle dell’ambiente, del tempo e dell’evoluzione.
Il fatto che Germinie Lacerteux sia considerato da tutti, anche dai molti che non l’hanno mai letto, ma ne hanno soltanto sentito parlare, come un romanzo-capolavoro, come una pietra miliare nella storia della letteratura moderna e contemporanea, insomma come una di quelle opere classiche davanti alle quali ci si deve inchinare riverenti, magari senza aver ben capito il perché, mentre non solo all’esterno, ma nella stessa Italia,  Il segno della croce è un romanzo pressoché sconosciuto al grande pubblico odierno (anche se, a suo tempo, godette di un positivo riscontro da parte della critica e, più ancora, dei lettori: il che dovrebbe far riflettere su certi giudizi troppo schematici e frettolosi circa una presunta “chiusura” e “arretratezza” culturale della letteratura italiana negli anni Venti e Trenta del ‘900), è una eloquente testimonianza di un fatto di cui parliamo da tempo: la ferrea, petulante, insopportabile dittatura culturale di una critica e di una storiografia “progressiste” e “moderniste” che pretendono d’imporre i loro gusti ed i loro teoremi ad un pubblico sempre più irreggimentato e manipolato, quanto meno si rende conto di esserlo.
La cosa veramente paradossale – ma neppure tanto, se si penetra bene addentro in certi meccanismi psicologici - è che a privilegiare una lettura brutale e pessimistica degli umiliati e degli offesi, e a scartare o respingere come “falsa” e “ipocrita” una lettura bonaria e affettuosa, siano proprio una critica letteraria ed una storiografia che si ispirano, neanche tanto velatamente, ad una ideologia di sinistra, ieri dichiaratamente marxista, oggi vagamente “progressista” e, semmai, “cattolica di sinistra”, le quali, in teoria, dovrebbero incarnare un rapporto privilegiato proprio con gli “umili” e gli “ultimi”, proprio con quel “popolo” e con quei “lavoratori” di cui tanto proclamavano di preoccuparsi, e alla cui “liberazione” quegli intellettuali si erano votati.Come spiegare, allora, che vi siano maggiore pietà, maggiore comprensione per la povera serva Clarice, in un Marino Moretti, il quale marxista non è, ma cattolico, che in tanti e tanti scrittori progressisti e di sinistra? Anzi, è proprio negli scrittori di sinistra – i Moravia, per esempio, volendo fare un nome tra mille – che il disprezzo dell’uomo tocca le punte più estreme, popolo o non popolo, lavoratori o non lavoratori. Ma una ragione, forse, c’è. Non abbiamo appena visto uno di questi campioni della sinistra andare all’estero, pagare e portarsi a casa un figlio fatto su commissione da una Germinie dei nostri giorni?

Il segno della croce di Marino Moretti è la risposta cristiana a Germinie Lacerteux

di Francesco Lamendola

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