CHIESE IN LEGNO DI CHILOE'
Dalle chiese in legno della remota Chiloé sale un cantico a Dio per la bellezza del creato. L’isola di Chiloé si trova nel Cile centro-meridionale nel 2000 l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità 16 delle sue chiese in legno
di F. Lamedola
Lo scrittore Francisco Coloane (1910-2002), nativo di Quemchi, nell’isola di Chiloé, è colui che ha fatto conoscere quelle terre estreme, bellissime e un po’ malinconiche, dove rari sono i giorni di sole e frequentissime le precipitazioni, al grande pubblico internazionale, grazie ad opere come Capo Horn (del 1941), I conquistatori dell’Antartide (1945), Terra del Fuoco (1956), Cacciatori di Indios (1980),Una vita alla fine del mondo (2000), Naufragi (2002), Antartide (2006, postumo), ispirandosi a scrittori di mare come Herman Melville, Joseph Conrad e ad un viaggiatore irrequieto ed insolito come Bruce Chatwin.
L’isola di Chiloé, la maggiore dell’arcipelago omonimo, si torva nel Cile centro-meridionale, dal clima temperato-fresco e piovoso, fra i 41° e i 43° di latitudine Sud; ha una superficie di circa 9.000 kmq. (poco più della Corsica) ed è lunga 180 km. per 50 di larghezza, con una popolazione di 160.000 persone. Il territorio dell’arcipelago è suddiviso in dieci comuni, ma solo due sono le città di una certa importanza: Castro, la capitale dal 1982, fondata nel lontano 1567 sulla costa settentrionale, in faccia al Pacifico; e Ancud, la vecchia capitale, fondata nel 1767 sulla costa orientale, quasi all’estremità di un lungo fiordo che si apre sul mare interno (Golfo di Ancud e, più a mezzogiorno, Golfo del Corcovado). Detto fra parentesi, Ancud fu una delle ultime tre piazzeforti spagnole ad essere evacuate dalla madrepatria, nel 1826, quando già tutte le altre colonie avevamo conquistato l’indipendenza mediante le guerre di liberazione condotte dagli eserciti rivoluzionari (le altre due erano il porto di Callao, in Perù, e Caracas, nel Venezuela).
Nel 2000 l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità 16 delle sue chiese in legno, sulle circa 150 costruite (e non più di 70 ancora esistenti) in un particolare stile centro-europeo, fra il barocco e il neoclassico, essendo state erette a partire dal XVIII secolo, allorché, per la scarsità di sacerdoti, furono fatti arrivare religiosi di nazionalità diversa dalla spagnola (cosa vista sempre con sospetto dalle autorità di Madrid), specialmente tedeschi, ungheresi e transilvani, dapprima gesuiti, poi, dopo la loro espulsione, avvenuta nel 1776, soprattutto francescani, i quali edificarono le nuove chiese secondo gli schemi architettonici importati dalle loro terre natie.
Le più recenti risalgono al principio del XX secolo, poi vennero erette altre chiese in stile moderno, con materiali convenzionali e secondo schemi di tipo funzionale; in totale, nell’arcipelago ve ne sono, oggi, circa 400, ma una parte di quelle di valore storico sono andate in rovina. Delle sedici chiese tradizionali, dichiarate dall’Unesco patrimonio mondiale, quattro si trovano nel comune di Castro (una nel capoluogo), tre in quello di Quinchao, tre in quello di Piqueldon, tre in quello di Delcahue, due in quello di Cronchi, e una in quello di Quemchi.
Sorgono su una base in pietra, generalmente hanno una pianta rettangolare, con tetto a due spioventi e sono sormontate da una torre campanaria poligonale, di solito ottagonale; la facciata è preceduta da un portico, di solito a tre arcate, qualche volta cinque o più; l’interno, a più navate, divise da colonne, è, caratterizzato da una ricca ornamentazione. Il legname utilizzato per la costruzione è ricavato essenzialmente dal Cipresso e dal Faggio antartico (Nothofagus), prelevato dai ricchissimi boschi dell’arcipelago, i quali, però, a causa dello sfruttamento intensivo, rischiano, da un po’ di tempo a questa parte, di finire completamente distrutti, con il che se ne andrebbe la principale risorsa economica degli abitanti, unitamente alla pesca. All’esterno sono verniciate di colori vividi e smaglianti, dal giallo al celeste, dal rosso alla tinta naturale del legno.
Laggiù, agli estremi confini del mondo, fra cielo e mare, in uno dei luoghi più lontani dalla civiltà europea (per arrivarci, ai tempi della navigazione a vela, ma anche delle prime navi a vapore, bisognava scendere lungo l’Atlantico in tutta la sua lunghezza, e poi affrontare il temutissimo Capo Horn, con le sue leggendarie tempeste che videro naufragare centinaia di navi; oppure addentrarsi lungo i canali tortuosi e malsicuri dello Stretto di Magellano, lungo ben 500 km., prima di sboccare nel Pacifico), queste chiese dall’aspetto suggestivo e vagamente incongruo, che si slanciano verso il cielo perennemente grigio, sono come una commossa preghiera rivolta a Dio per la bellezza e la varietà della Sua creazione.
Ma che cosa ne pensano i loro parrocchiani e i loro sacerdoti, quegli uomini confinati laggiù, in una realtà come fuori dal tempo, fatta di una vita dura, di un clima severo, di una quasi assoluta mancanza di quelle comodità e distrazioni che caratterizzano la vita moderna, con le sue grandi città e i suoi ritmi febbrili e angosciosi? Il giornalista Paolo Miola lo ha domandato, un paio d’anni fa, a monsignor Juan Maria Agurto Muñoz, vescovo di quella diocesi dal 2002, allorché succedette a monsignor Juan Ysern de Arce; da quella intervista ci permettiamo di riportare alcuni passaggi (dalla rivista Missioni della Consolata, Torino, n. 7 del Luglio 2014, pp. 53-55):
D: Monsignore, il nome Chiloé deriva da un termine huilliche. Cosa rimane oggi dei popoli originari di questo arcipelago?
R. Una volta era vergognoso ammettere le proprie radici indigene, oggi per fortuna è vero il contrario. Quando gli Spagnoli arrivarono a Chiloé, c’erano dei popoli originari: Chonos, Cuncoas e soprattutto gli Huilliches, che vengono considerati i Mapuches dl Sud, quelli relazionati con il mare (anche se – a essere sinceri – molti Huilliches non vogliono essere assimilati ai Mapuches). Purtroppo questa diversità cultuale non è stata ancora accettata dalla nostra Costituzione. […]
Esse [le chiese] sono state costruite con la tecnica dei falegnami che fanno le imbarcazioni. Provate a guardare la volta del tetto. È come il fondo di una barca capovolta.
D. La loro storia parte da lontano…
R. Le chiese nacquero con la prima evangelizzazione a partire dal 1600: i gesuiti prima, i francescani poi. Si costruivano come le case cioè utilizzando il legno nativo (”alerce”, “ciprés de las Guaitecas”, “coigüe") e le tecniche di costruzione locali. Nell’anno 2000 l’Unesco dichiarò 16 di esse “patrimonio dell’umanità”. Si badi che l’agenzia delle Nazioni Unite non dà denaro; si limita al riconoscimento e alla certificazione. Dato che ai visitatori non facciamo pagare un biglietto d’ingresso alle chiese, il nostro autofinanziamento è per ora limitato alla vendita di ricordini o piccoli servizi ai turisti. I restauri vengono quindi pagati dallo stato cileno, che si è assunto il compito di proteggere il patrimonio.
D. Per lei cosa rappresentano le chiese di Chiloé?
R. Sono un segno della fede, ma anche dello sviluppo sociale e culturale dell’arcipelago. Esse sono state costruite attraverso la “minga” cioè con la collaborazione gratuita delle comunità. La “minga”, parola indigena, può riguardare la costruzione della casa, l’effettuazione del raccolto o una battuta di pesca. Ma anche la costruzione di una chiesa.
D. Un’ultima curiosità, monsignore. La chiesa di San Francisco, a Castro, ha un colore giallo, che definire acceso è quasi riduttivo. Quella di Tenaun è blu, quella di Caguach rossa. Come si spiegano queste scelte cromatiche?
R. In tanti se lo chiedono, ma la spiegazione è molto semplice. Dato che qui, per gran parte dell’anno, dominano il colore grigio delle nuvole e verde intenso della natura, gli abitanti hanno sempre voluto colori molto vivi per le loro case e anche per le chiese. Si sono scelti colori contrastanti che risaltino molto. Un ennesimo esempio di come quella di Chiloé sia una comunità più viva che mai.
È curioso il fatto che, per trovare qualcosa di simile alle chiese in legno di Chiloé, bisogna andare quasi all’alto capo del mondo, in Scandinavia, e specialmente in Norvegia, dove la Stavkirke, ossia la “chiesa a pali portanti”, costruita in legno strutturale, è il tipico edificio religioso medievale di quelle regioni nordiche. Anch’esse sono state riconosciute dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, e precisamente quella di Urnes, nella Norvegia centrale (risalente addirittura al XII secolo), nel 1979, e quella di Petäjävesi, nella Finlandia centrale (costruita nel 1763-64), nel 1994. Le chiese in legno della Scandinavia sono molto antiche, e vennero costruite a partire dalla fine dell’epoca vichinga, allorché quelle popolazioni, cristianizzate e sedentarizzate, incominciarono ad assimilare e rielaborare gli elementi della giovane civiltà europea: la religione di Roma e la struttura feudale tipica del mondo germanico dopo la dissoluzione dell’Impero carolingio.
Le chiese di Chiloé non sono certamente così vetuste, nondimeno la loro antichità è notevole, riferita al contesto americano: vennero innalzate un paio di secoli dopo la conquista spagnola (e portoghese) del subcontinente sudamericano L’arcipelago, infatti, venne avvistato per la prima volta nel 1540 e conquistato nel 1558, da Garcia Hurtado de Mendoza, mentre sulla terraferma di fronte a Chiloé gli Spagnoli non riuscirono mai a porre piede, come pure i Cileni dopo la conquista dell’indipendenza, fino alla seconda metà del XIX secolo: la frontiera degli uomini bianchi si fermava al fiume Bio-Bio; al di là di esso, i fieri Araucani (oggi conosciuti come Mapuche) difesero con successo la loro indipendenza fin verso il 1884, come già avevano fatto, prima dell’arrivo dei bianchi, nei confronti del potente Impero incaico. In un primo tempo l’isola venne denominata Nuova Galizia, probabilmente per le caratteristiche della frastagliatissima costa, ricca di fiordi di origine glaciale, che ricordano le rìas della costa gallega; ma poi subentrò il nome attuale, desunto dalla lingua indigena del popolo huilliche (di cultura mapuche, che era stanziato anche sulla terraferma, a sud del fiume Toltén) e che significa “luogo di chelles”, cioè i gabbiani dalla testa nera. Da notarsi che “huilliche”, nella loro cultura, significava “uomini del Sud”.
Come abbiamo visto, Chiloé fu l’ultimo baluardo spagnolo in terra americana a resistere, dopo le campagne dei libertadores Simon Bolivar e José de San Martin, quest’ultimo sostenuto dalla flotta dell’avventuriero inglese Thomas Cochrane. Ben due campagne lanciate contro la guarnigione spagnola, nel 1820 e nel 1824, si risolsero in un nulla di fatto; solo nel 1826 la bandiera rossa e gialla venne ammainata, e l’ultimo vascello spagnolo levò le ancore per tornare in Europa. Un po’ per il carattere “legittimista” e conservatore dei suoi abitanti, un po’ per la frequentazione e la mescolanza con balenieri e avventurieri provenienti dall’Europa e dal Nord America nel corso del XIX secolo, i Chiloti hanno sempre vissuto come in un mondo a parte, popolato da tradizioni e leggende molto particolari (come quella del Caleuche, una mitica nave a vela fantasma che appare e scompare al largo dell’isola, con a bordo un equipaggio di marinai annegati).
Le grandi e belle chiese in legno, odorose di bosco e costruite con il lavoro comunitario dalle popolazioni locali, secondo le tecniche della tradizione marinaresca, ma in uno stile che evoca altri cieli e altre culture, vanno inserite in questo contesto: cioè sullo sfondo di un mondo estremo, appartato e sognante, rude ma genuino, impastato della fierezza indigena e della magnanimità castigliana. Esse testimoniano un tempo che sembra lontanissimo, perché antecedente all’arrivo della grande ondata della modernità, quando ancora il canale di Panama non era stato neppure immaginato, e l’unica maniera di approdare a questi lidi era sfidare le tremende tempeste di Capo Horn o il nebbioso labirinto di canali, irti di isole e scogli, dello Stretto magellanico: rotte che consigliavano ai marinai, sia l’una che l’altra, di fare testamento, prima di lasciare l’Europa.
Entrando al loro interno, si ha veramente l’impressione di avanzare non già lungo le navate di una chiesa, ma lungo il sottoponte di una nave a vela dell’epoca gloriosa dei cacciatori di balene. Tutto è di legno lucido e splendente, dal pavimento al soffitto, dalle travi portanti alle colonne, dal pulpito all’altare, alle numerose statue della Madonna e dei Santi, e, naturalmente, agli stalli del coro, intorno all’abside. La luce scende obliqua dalle finestre laterali, e verticale dalla cupola sovrastante il presbiterio, o dalla torre campanaria, e sarebbe sufficiente a illuminare pienamente l’ambiente, se il cielo dell’isola non fosse così spesso coperto, e i raggi del sole così avari nel farsi vedere dagli squarci nella coltre di nubi basse, cariche di umidità. Allegri fiori gialli crescono alti e folti sui prati davanti e intorno alle chiese di questa finis mundi, e paiono unire la loro semplice, rustica bellezza a quella severa delle chiese in legno, che solo i colori vivaci dell’esterno paiono capaci di ravvivare.
Dalle chiese in legno della remota Chiloé sale un cantico a Dio per la bellezza del creato
di Francesco Lamendola
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