(Massimo Franco) «E adesso, per paradosso il Vaticano deve sperare che alla Casa Bianca vada Hillary Clinton. Rispetto a Donald Trump, sarebbe il male minore…». Il diplomatico statunitense sorride. Sa bene quanto Oltretevere la campagna presidenziale sia stata seguita finora con un filo di scetticismo; e quanta diffidenza esista verso la candidata dei democratici , considerata, nelle parole di un amico sudamericano del Papa, «una campionessa dell' ideologia laicista», guardata dai vescovi americani come un' avversaria storica sul piano dei valori.
D' altronde, nell' unico viaggio in Usa di Francesco, la Clinton non si è vista neppure per un saluto fugace. E la mancata ricerca di un contatto è stata notata dall' entourage del Pontefice. Qualcuno ricava una conferma indiretta della freddezza anche nel rifiuto cortese ma fermo opposto alla richiesta di Bill Clinton di incontrare in udienza privata Jorge Mario Bergoglio. Per due volte, l' ultima nel novembre scorso, l' ex presidente Usa ha fatto sapere che avrebbe avuto piacere di vedere Francesco a quattr' occhi, a Casa Santa Marta. E per due volte gli è stato detto che era impossibile, perché il protocollo vaticano non prevede incontri con ex capi di Stato e di governo. L' unica possibilità era di ammetterlo alla cerimonia del baciamano, e di scambiare qualche battuta durante un' udienza pubblica del mercoledì in piazza San Pietro. D' altronde, l' ex presidente apparve come un alleato freddo dai tempi di Giovanni Paolo II. Perfino ai funerali di Karol Wojtyla, nel 2005, Bill Clinton disse poco diplomaticamente che il papa polacco lasciava «a mixed legacy», un' eredità in chiaroscuro. E Hillary è la femminista che nell' aprile del 2015, davanti alla National Association for Women a New York, affermò che «le convinzioni religiose» su aborto, unioni omosessuali, adozioni «debbono essere cambiate» con leggi ad hoc. Insomma, la piattaforma del Partito democratico Usa, attenta alle minoranze, nella narrativa dell' episcopato cattolico è assimilata spesso a quella della sinistra europea. Quando Francesco è andato in America a fine settembre del 2015, l' unico punto di contatto che Hillary Clinton ha individuato è stato sui cambiamenti climatici. Il problema è che la candidata, consolidata dal Super Martedì del 1° marzo in undici Stati, si avvicina alla designazione da parte dei democratici avendo come alternativa Trump: un costruttore miliardario e arrogante che sta piegando al suo verbo xenofobo il Partito repubblicano; umiliando gli altri candidati, compresi alcuni cattolici. Per il Vaticano, però, il problema non è legato alla fede protestante della Clinton, metodista, e del presbiteriano Trump: anche se attaccare Francesco «significa fare un fischio ai cristiani evangelici che temono i complotti papali», ha scritto James Keane su America , la rivista dei gesuiti Usa. I fantasmi di uno scontro religioso, simile a quello che covava ancora ai tempi del cattolico John Kennedy negli Anni Sessanta del secolo scorso, sono datati. Per la Roma papale, il punto interrogativo sarà come trattare con un' inquilina o un inquilino della Casa Bianca i quali perseguono un' agenda in parte conflittuale con quella dei vescovi americani e del cattolicesimo mondiale. Nella campagna presidenziale in corso, «il livello della maggior parte dei candidati porterebbe a dire che gli Usa riflettono il declino dell' Occidente», ripetono da tempo i collaboratori di Francesco. Tra il laicismo della Clinton e la xenofobia e l' islamofobia di Trump, il male minore sembrerebbe il primo: tanto più dopo che il Pontefice, parola che significa «costruttore di ponti», ha definito Trump «non cristiano» per la sua mania di alzare muri contro i migranti. È probabile che le parole di Bergoglio abbiano favorito e non danneggiato il candidato repubblicano agli occhi di una base radicalizzata: convinta, a detta di Trump, che il Papa «non capisca i problemi posti all' America dall' immigrazione»; e che «quando l' Isis attaccherà il Vaticano, Francesco ci chiederà aiuto». È un' America che teorizza un persistente pregiudizio anti yankee del Pontefice, in quanto argentino. D' altronde, sono stati i circoli repubblicani più conservatori a definirlo «un Papa politicizzato»; a tacciarlo di posizioni «criptocomuniste»; e a tentare di perpetuare il vecchio schema della contrapposizione tra l' America latina cattolica e gli Usa protestanti, trascurando il ruolo crescente dei latinos, importanti per un' eventuale vittoria della Clinton. Ma si profilano contrasti più globali, sulla politica estera. L' esperienza e la competenza della Clinton potrebbero diventare una sfida alla «geopolitica della misericordia» di Bergoglio. Uno dei punti di attrito, emerso durante la presidenza di Barack Obama, sono i rapporti con la Russia. Da quando era segretario di Stato Usa, Hillary invocava più durezza con Mosca. Seguendo le trasmissioni di Russia Today , la tv russa in lingua inglese, già nel 2011 avvertiva, allarmata: «C' è una guerra sull' informazione e la stiamo perdendo. La Russia ha lanciato un canale in inglese, l' ho visto in diversi Paesi, è stato molto istruttivo…». E quando due anni fa si è celebrato il referendum per la riunificazione della Crimea alla Russia dopo l' aggressione di Mosca, la Clinton arrivò a fare paragoni tra Vladimir Putin e il dittatore nazista Adolf Hitler. Si tratta di un approccio agli antipodi rispetto a quello di Francesco, che non ha mai definito Putin «aggressore»; e che ha appena compiuto una riconciliazione epocale con il Patriarca ortodosso russo Kirill, benedetta dal Cremlino e celebrata nella Cuba dei fratelli Castro. Il Vaticano di Bergoglio segue una strategia tesa a togliere di mezzo tutte le incrostazioni della Guerra fredda. «La Santa Sede - ha osservato il direttore padre Antonio Spadaro sulla rivista dei gesuiti italiani La Civiltà cattolica - ha stabilito o vuole stabilire rapporti diretti e fluidi con le superpotenze, senza entrare in reti precostituite di alleanze e influenze». E a proposito della lotta contro il terrorismo dell' Isis, Spadaro ha aggiunto: «Servirebbe che sunniti, sciiti, Russia e Occidente facessero causa comune». Questo spiega la politica della «porta aperta con la Russia di Putin… Come pure il desiderio di un ponte diplomatico con la Cina di Xi Jinping», secondo il direttore della rivista. Negli ultimi contatti tra emissari di Washington e persone vicine a Bergoglio, la discussione si è concentrata sul ruolo svolto dal governo di Mosca nella ricucitura con gli ortodossi; e su quale effetto avrà nelle relazioni tra Vaticano e Cremlino. «Certamente quell' incontro è stato voluto sia dal Patriarca Kirill che da Putin», si fa notare. Gli Usa ne sono certi. Ma Bergoglio e il successore di Obama, chiunque sia, troveranno un modus vivendi. «D' altronde - osserva un diplomatico americano con un filo di ironia - se ha dialogato con Putin che è arrivato con 45 minuti di ritardo all' ultima udienza papale, siamo certi che Francesco sarà più che capace di dialogare con la Clinton. Il vero problema sarà, semmai, per l' episcopato cattolico statunitense».
http://ilsismografo.blogspot.it/2016/03/stati-uniti-la-laica-hillary-o-trump-l.html
La strana coppia: Donald Trump e Vladimir Putin
I rapporti di Trump con la Russia risalgono al 1987, quando cercò di fare business nel tentativo di costruire una “Trump Tower” a Mosca e negoziò per la costruzione di hotel di lusso a Mosca e Leningrado.
Tuttavia, Trump fu infastidito dalle regolamentazioni sovietiche relative alle joint venture, le quali richiedevano che i sovietici fossero in possesso del 51 %.
Nel libro, “The Global Emerging Market: Strategic Management and Economics” di Vladimir Kvint, emerge che nel 2008 l’Organizzazione Trump aveva registrato i suoi marchi di fabbrica in Russia nei settori dello sviluppo immobiliare e delle costruzioni.
Nel 2013, Trump era di nuovo in Russia col suo concorso di “Miss Universo”.
Trump è nato nella grande e ricca New York ed è stato cresciuto nella capitalistica America (con un importante background aziendale).
Putin è nato in un quartiere povero e operaio a San Pietroburgo ed è cresciuto nella comunista Unione Sovietica (con un importante background nella polizia segreta).
Il primo era ben noto al grande pubblico americano prima di candidarsi come presidente, il secondo è rimasto uno sconosciuto fino alla rimozione di Boris Eltsin alla fine del 1999.
Trump spesso parla bene di Putin, definendolo un uomo intelligente, gli piace per come ha saputo consolidare le forze armate, le agenzie di intelligence e l’aggressiva politica estera.
Trump nel suo ultimo libro, “Crippled America: How to Make America Great Again”, definisce Putin “un leader”, a differenza di Obama.
Putin e Trump condividono una forte antipatia per l’attuale presidente americano e vogliono un cambiamento di rotta nella politica estera americana.
Sono due solitari che amano essere gli unici uomini al centro della scena.
Hanno una forte personalità, sono egocentrici, ricchi di autostima, amano il culto della personalità e vedono se stessi come i salvatori della loro nazione dal disastro causato dai loro predecessori: Eltsin e Obama.
Hanno in comune l’odio per l’ISIS, il disgusto per il fondamentalismo islamico e sono disposti a prendere misure drastiche per fermarle.
Eppure entrambi sono pragmatici conservatori nazionalisti che cercano di ripristinare gli elementi importanti del passato come una delle priorità principali, detestano i progressisti e sono ardenti patrioti nella loro nazione.
Putin è abituato a scrutare gli avversari attraverso il loro modo di comunicare, studia le apparizioni pubbliche, le eventuali vulnerabilità per poi sfruttarle come vantaggio, ha imparato dagli errori dei suoi avversari e metterà a frutto i passi falsi e le gaffe dell’istrionico candidato presidenziale. Il più grande problema di Trump è la sua mancanza di esperienza negli affari esteri e nella politica di difesa. Quest’ultimo negli Usa gode della fama di essere un “enfant terrible”, e Putin apprezzerà molto la parte “enfant” del candidato americano.
Nella conferenza stampa di dicembre 2015, Putin elogiò il candidato presidenziale repubblicano, ma dall’altra parte non era mai successo che durante una campagna presidenziale si evocasse il nome di un leader russo così frequentemente.
Putin è un politico che non aderisce ad una particolare ideologia ed è pronto a lavorare sulle relazioni con tutte le forze politiche amichevoli, così cerca appoggio nella UE sostenendo i partiti ribelli in Europa e allo stesso modo cerca in Trump lo stesso appoggio.
Sembra che il sostegno di Mosca per il capofila repubblicano faccia parte di una ben più ampia strategia che contrassegna come alleati chiunque sia disposto a lavorare con la Russia e che non è d’accordo con il suo isolamento causato dalle sanzioni economiche.
Mosca, ultimamente definisce amici i politici e i partiti che appartengono ai poli di opposizione, come l’estrema destra del Fronte Nazionale in Francia guidata da Marine Le Pen, la sinistra Syriza in Grecia e la sinistra di Podemos in Spagna.
Questi due uomini, anche se provenienti da mondi diversi, condividono tratti comuni tali da renderli una insolita strana coppia, raramente vista nella politica internazionale.
Nel frattempo, è divertente vederli passare attraverso i movimenti di adesione ad una relazione che probabilmente non diventerà mai realtà.
Il Cremlino nella sua ricerca di alleati politici esterni all’establishment, sta sostenendo il candidato outsider alla presidenza degli Stati Uniti.
Tutto questo ha scatenato le ire della rivista americana Forbes, che ha pubblicato un articolo in cui diffida Trump dal diventare troppo amico di Putin, enumerando le solite accuse al leader russo, che lo dipingono come il male assoluto.
A dire il vero Trump ha scatenato le ire di molti: Mitt Romney, in un incendiario discorsoha definito il magnate americano pericoloso per il paese, lo ha accusato di aver solo ereditato i sui soldi e di essere un businessman mediocre, affermando inoltre che sarebbe un incapace in politica estera.
Romney ha motivato il suo discorso non per proporsi come candidato, ma con il solo scopo di fermare Trump.
Per non parlare dei neocons e delle lobby ebraiche.
Le sue affermazioni sul fatto che le guerre in Siria, Iraq e Libia sono state un totale fallimento, che erano basate su bugie, e che Assad dovrebbe restare al suo posto sono in totale opposizione con gli orientamenti neocons.
In fine, parlando della sua idea di politica dell’immigrazione, ha citato come esempio Israele dove gli immigrati del terzo mondo “sono chiamati invasori e vengono incarcerati e deportati senza processo”.
Ora, se Trump diventerà il nuovo presidente degli Usa, a mio avviso ci sono tre opzioni da considerare:
- Come l’immagine di Obama venne costruita per rappresentare una rottura col passato della politica di Bush e per essere una novità sulla scena politica (anche sfruttando il fatto di essere nero), l’immagine di Trump potrebbe essere stata costruita per rappresentare la nuova rottura con i vecchi modi politically correct degli altri candidati e parlare direttamente alla pancia degli americani. Come il primo, anche il secondo potrebbe rivelarsi un clamoroso “fake”.
- Dopo una campagna elettorale rutilante, fatta di discorsi “senza filtro” e senza ipocrisie, e dopo aver sbugiardato tutto e tutti, Trump col tempo potrebbe essere riportato a più miti consigli dalle lobby e dal deep state.
- Trump se è davvero quello che dice di essere, e mette in pratica ciò che ha promesso potrebbe avere vita breve, e non solo in senso figurato. Sia ben chiaro, Trump non stravolgerà la politica estera americana, e gli USA continueranno a voler imporre la loro egemonia a livello mondiale, tuttavia ci sono speranze che possa essere molto più assennato e pragmatico dei suoi predecessori: nel frattempo qualcuno ci salvi da quella pazza isterica della Clinton! Di Nuke The Whales , il
Sospeso da Goldman Sachs: ha fatto donazione a Trump
Si chiama Luke Thorburn, ed è l’unico addetto del colosso bancario d’affari ad aver dato un contributo alla campagna del candidato: per 534,58 dollari. Si tenga conto che gli altri dipendenti di Goldman Sachs hanno fatto donazioni per oltre 199 mila dollari a Marco Rubio, 99 mila per Hillary Clinton (le contribuzioni alle campagne dei candidati devono essere pubblicamente dichiarate) . Siccome era l’unico, di lui ha parlato il New York Times: così la banca se n’è accorta, ed ha preso le misure.
Formalmente, la banca non l’ha punito per aver scelto Trump, ma per un altro motivo. Ha scoperto che Luke Thorburn ha con altri un sito, che si chiama “Make Christianity Great Again”, e si propone come un’organizzazione di cittadini che intende “portare Dio al centro delle nostre vite”. Il motto – che evoca quello di Trump, Make America Great Again, appare sui cappellini che l’organizzazione vende per 14.99
Ecco il punto: quello di Thorburn è un sito a scopo di lucro. Goldman Sachs – fa’ sapere una fonte della direzione – consente ai dipendenti di “perseguire le proprie opportunità d’affari”, ma prima devono chiedere il permesso all’azienda. Non l’ha chiesto, dunque sospeso (quando la cosa s’è risaputa, la banca d’affari ha fatto sapere che Luke è sospeso ma senza interruzione dello stipendio; il giovane è introvabile…)
E’ un piccolo aneddoto, ma mostra che l’Establishment getta la maschera e vien meno ai divinizzati principi della American Liberty (la libertà d’opinione, la libertà politica) a tal punto è terrorizzato da Trump. Le sparate degli spaventatissimi esponenti dei poteri forti sono degne di nota.
“I militari rifiuteranno di obbedire a Trump, se diventa presidente”: Michael Hayden, ex direttore della Cia. “Trump è un gravissimo pericolo per la democrazia”: Larry Summers (J), economista di Obama fino al 2010.
“Trump renderà l’America meno sicura” sia perché ha simpatia “per il dittatore Putin”, e “per le sue parole d’odio anti-islamico; passa dall’isolazionismo all’avventurismo militarista”, hanno scritto 60 personalità ebraiche “del settore della sicurezza” fra cui spiccano le firme di attori primari dell’11 Settembre e iniziatori, sotto Bush figlio, della guerra infinita contro l’Islam ancora in corso. Si va da Dov Zakheim, il rabbino padrone di una fabbrica di droni che era uno dei tre viceministri sotto Rumsfeld (gli altri Wolfowitz e Feith, parimenti israelo-americani), a Michael Chertoff, il capo della Homeland Security che insabbiò le indagini sull’attentato alle Twin Towers quando portavano a Sion, da Eric Edelman (altro sottosegretario alla Difesa sotto Buh), a Max Boot, il consigliere in politica estera del noto pacifista senatore McCain, da Eliot Cohen, consigliere di Bush, a Kagan, il marito della Nuland ed esponente dei neocon più sfegatati.
La loro paura si capisce: sono i responsabili della “Nuova Pearl Harbor”, ossia dell’11 Settembre e di aver portato l’America ad invadere l’Irak di Saddam. Una presidenza non amica che apra quel capitolo, li rovina.
Trump “vuole distruggere la libertà”, secondo i fratelli Koch, due miliardari industriali (J) che avevano annunciato di essere pronti a spendere 900 milioni di dollari per far vincere un repubblicano, per lo più attraverso la “Koch Network”, una rete di amici milionari che danno i contributi non apparendo col proprio nome, ma come “fondazioni culturali” – il che ha il vantaggio di rendere impossibile sapere quanto dà ciascuno di loro. Nelle ultime ore, i Koch hanno fatto sapere che “non” useranno la somma per Trump, ma nemmeno contro Trump: un angosciato riconoscimento della sua forza. “I repubblicani ebrei hanno completamente fallito nell’impedire l’ascesa del tossico Trump”, lamenta su Forward (la patinata rivista ebraica) Noam Neusner, che scriveva i discorsi per lo sconfitto Jeb Bush.
Poi ci sono inattesi appoggi. “Trump è odiato dall’elite perché non è stato iniziato alle società segrete”, è sbottato Newt Gingrich, già presidente del Senato e candidato repubblicano alle primarie del 2012: senza diffondersi su quali società segrete intendesse (Skull & Bones? Bohemian Grove? Trilateral?). Louis Farrakhan, fondatore della setta negra e fanta-musulmana Nation of Islam, che maneggia un bel po’ di voti neri, ha pubblicamente lodato Trump, “il solo che davanti alla comunità ebraica, ha detto: non voglio i vostri soldi”.
“Farà colare a picco l’economia Usa”, ha invece profetizzato Mitt Romney – come se l’economia americana non fosse già a picco, sostenuta dalle pompe di liquidità della Fed. Effettivamente uno dei motivi di terrore dei poteri forti sono le idee di Trump sulla globalizzazione: è contro, ferocemente contro. “Creerò milioni di posti di lavoro obbligando per esempio Apple a fabbricare i suoi IPhones in America, non in Cina”; e sulle merci cinesi, che distruggono posti di lavoro nazionali, ha minacciato di appioppare dazi del 45%. Inoltre, benché milionario, è favorevole ad alzare le tasse sulle grandi fortune, e s’è pronunciato per la copertura sanitaria universale; il che gli ha riscosso l’approvazione di Paul Krugman, che turandosi il naso ammette: “E’ esattamente lo sbruffone ignorante che appare. Ma in economia, ha ragione Trump”.
Economist: sì, col globalismo siamo impoveriti
Fatto singolare, una conferma, forse involontaria, è venuta dalla bibbia del liberismo globale, l’Economist. Il 6 febbraio, ha pubblicato una rilevante indagine sulle conseguenze dell’aver portato troppo rapidamente la Cina nel libero commercio mondiale. I lavoratori cinesi hanno trovato occupazione a milioni, ma – scopre l’Economist – “i lavoratori dei paesi sviluppati hanno della crescita cinese più di quanto gli economisti credevano (…). L’esposizione improvvisa alla concorrenza straniera ha significato almeno un decennio di calo dei salari e dei posti di lavoro”.
La Cina, in 22 anni, è passata dal 2,3 al 18,8% dell’export mondiale di prodotti industriali, fino ad avere dei monopoli in determinati settori. Nello stesso tempo, gli Stati Uniti hanno perso il 44% dei posti di lavoro industriali (1990-2007): questa emorragia è dovuta indubbiamente alla Cina (alle delocalizzazioni): mille dollari d’importazioni cinesi hanno provocato in Usa un abbassamento dei salari di 500 dollari e la perdita di 2,4 milioni di lavori. Uno studio della Fed in collaborazione con Yale giungo a sostenere che l’apertura dei mercati globali alla Cina, coi suoi bassi salari, è costata agli Usa la perdita del 30 percento del lavoro industriale. In Europa, non si sono fatti i conti, ma la realtà che abbiamo attorno è eloquente. Fino a che la differenza dei salari fra cinesi ed occidentali resta così colossale, i paesi sviluppati (ex sviluppati?) sono condannati alla devastazione sociale. E vengono spinti a “riforme”, leggi, riduzioni salariali, che sono comunque insostenibili, ed hanno provocato la deflazione-depressione che soffriamo.
Interessante ammissione. Che lascia sperare in un cambio di clima, dopo 30 anni di globalizzazione selvaggia imposta dall’ideologia washingtoniana e londinese. Trent’anni in cui il capitale finanziario ha suggerito, imposto, quanto segue: voi imprese occidentali, andate a fabbricare le merci nei paesi a bassi salari, e poi venite a rivenderle nei paesi a salari alti. Furbo, no?
Adesso si comincia a scoprire che i “salari alti” non ci sono più dove dovrebbero essere, e le merci restano invendute, a prezzi calanti. Trump è “lo sbruffone ignorante” che dice Krugman, ma Dio ci scampi dai sapienti economisti liberisti. Esiste vita intelligente nella globalizzazione? Pare di no.
Trump piace all'America profonda, ecco perché
di Alessandro Rico
Il ciclone Trump ha fatto irruzione sulla scena politica americana, mietendo vittime soprattutto a destra. L’establishment del Partito Repubblicano, dopo il trionfo del tycoon nel Supermartedì delle primarie, è in fibrillazione. L’apparato si sta compattando nel disperato tentativo di fermare l’avanzata di questo scomodo outsider, per due ragioni principali: primo, Trump ha scardinato la disciplina di partito e i suoi equilibri gerarchici, trasformando il vento antipolitico in un devastante uragano; secondo, la candidatura del miliardario newyorkese sembrerebbe compromettere la conquista repubblicana della Casa Bianca. Stando ai sondaggi, infatti, l’ascesa di Donald Trump avrebbe un effetto paradossale: non ci sarebbero rivali in grado di tenergli testa nello schieramento di destra, ma nella corsa contro la Clinton sia Rubio che Cruz avrebbero buone possibilità di vincere, mentre Trump verrebbe ampiamente sconfitto.
I sondaggi, si sa, lasciano il tempo che trovano e di qui a novembre la strada è ancora lunga. Lo scenario che si va delineando conferma però i successi strategici guadagnati dai democratici grazie a Obama e le corrispettive difficoltà dei repubblicani. Sia sul fronte economico che su quello dei temi eticamente sensibili,le politiche risolutamente di sinistra dell’amministrazione Obama, unitamente all’egemonia culturale liberal che negli ultimi anni si è consolidata oltremisura,hanno radicalizzato l’elettorato conservatore. C’è una fetta di America che non si riconosce nel politicamente corretto, nel matrimonio gay, nella criminalizzazione della polizia ad opera degli attivisti neri, supportati da esponenti democratici di spicco quali il sindaco di New York De Blasio, nello snobismo delle metropoli emancipate, dove trionfano ideologia gender e cliniche abortiste (per non parlare della California, vera e propria riserva occidentale degli uteri in affitto). In quella fetta di America il malcontento è cresciuto di pari passo alle svolte di Obama: la riforma sanitaria, l’apertura, almeno negli intenti, ai rifugiati siriani, ma anche l’altalenante politica estera, tra successi storici, come l’uccisione di Bin Laden, e clamorosi fallimenti, come le primavere arabe.
Trump è riuscito a canalizzare gli umori bollenti di questa America profonda, che un tempo Nixon avrebbe arringato chiamandola «maggioranza silenziosa». Il tycoon non ha lo stesso profilo da leader confessionale che vanta Ted Cruz, ma il suo messaggio è più efficace. Dallo slogan «Make America great again», che stimola l’orgoglio patriottico di un popolo non disposto al ridimensionamento della potenza statunitense, passando per il pugno duro contro la Cina, le draconiane proposte sui muri anti-immigrati, fino alle promesse di elargizioni a beneficio dei veterani, un classico del repertorio nazionalista di un Paese che in queste sfaccettature ricorda l’ethos civile dell’antica Roma. Nessun altro candidato è riuscito a catturare l’empatia di un elettorato galvanizzato dalle sortite iperboliche di Trump. Il che in fondo è bizzarro, se si considera che l’estremista religioso sostenuto dai liberisti del Tea Party dovrebbe essere Cruz. Dai funzionari di partito come Jeb Bush e il suo delfino Rubio, invece, non ci si poteva aspettare un memorabile successo, in un clima del genere.
Lo scossone anti-sistema assestato dagli elettori repubblicani potrebbe giovare alla Clinton, che dopo aver arrancato un po’ contro il rivale socialista Sanders, sembra lanciata verso la nomination. L’ha già detto all’indomani del Super Tuesday: «All’America serve più dolcezza». Hillary avrà buon gioco nel ridicolizzare l’eccentricità di Trump e nel far leva sul classico repertorio politically correct: le donne, gli immigrati, i poveri, le minoranze, i diritti. D’altronde proprio l’apparente vantaggio potrebbe trasformarsi in un punto debole. Trump ha già brutalizzato gli sfidanti repubblicani con i suoi attacchi frontali,dimostrandosi capacissimo di resistere alla loro martellante propaganda contra personam;l’errore più grande che la Clinton potrebbe commettere sarebbe quello di una campagna elettorale alla Bersani, sotto tono, remissiva, nella malriposta convinzione di vincere a tavolino.
Se ne vedranno delle belle. Intanto, le reazioni scandalizzate dei benpensanti ai toupet di Trump o ai suoi flirt con il duce su Twitter sono già un premio impagabile, per chi vorrebbe castigare la insulsa casta di sacerdoti del progressismo. E poi, se la dobbiamo dire tutta, piuttosto che la Clinton andrebbe bene anche Topo Gigio.http://www.campariedemaistre.com/2016/03/trump-piace-allamerica-profonda-ecco.html
Il ciclone Trump ha fatto irruzione sulla scena politica americana, mietendo vittime soprattutto a destra. L’establishment del Partito Repubblicano, dopo il trionfo del tycoon nel Supermartedì delle primarie, è in fibrillazione. L’apparato si sta compattando nel disperato tentativo di fermare l’avanzata di questo scomodo outsider, per due ragioni principali: primo, Trump ha scardinato la disciplina di partito e i suoi equilibri gerarchici, trasformando il vento antipolitico in un devastante uragano; secondo, la candidatura del miliardario newyorkese sembrerebbe compromettere la conquista repubblicana della Casa Bianca. Stando ai sondaggi, infatti, l’ascesa di Donald Trump avrebbe un effetto paradossale: non ci sarebbero rivali in grado di tenergli testa nello schieramento di destra, ma nella corsa contro la Clinton sia Rubio che Cruz avrebbero buone possibilità di vincere, mentre Trump verrebbe ampiamente sconfitto.
I sondaggi, si sa, lasciano il tempo che trovano e di qui a novembre la strada è ancora lunga. Lo scenario che si va delineando conferma però i successi strategici guadagnati dai democratici grazie a Obama e le corrispettive difficoltà dei repubblicani. Sia sul fronte economico che su quello dei temi eticamente sensibili,le politiche risolutamente di sinistra dell’amministrazione Obama, unitamente all’egemonia culturale liberal che negli ultimi anni si è consolidata oltremisura,hanno radicalizzato l’elettorato conservatore. C’è una fetta di America che non si riconosce nel politicamente corretto, nel matrimonio gay, nella criminalizzazione della polizia ad opera degli attivisti neri, supportati da esponenti democratici di spicco quali il sindaco di New York De Blasio, nello snobismo delle metropoli emancipate, dove trionfano ideologia gender e cliniche abortiste (per non parlare della California, vera e propria riserva occidentale degli uteri in affitto). In quella fetta di America il malcontento è cresciuto di pari passo alle svolte di Obama: la riforma sanitaria, l’apertura, almeno negli intenti, ai rifugiati siriani, ma anche l’altalenante politica estera, tra successi storici, come l’uccisione di Bin Laden, e clamorosi fallimenti, come le primavere arabe.
Trump è riuscito a canalizzare gli umori bollenti di questa America profonda, che un tempo Nixon avrebbe arringato chiamandola «maggioranza silenziosa». Il tycoon non ha lo stesso profilo da leader confessionale che vanta Ted Cruz, ma il suo messaggio è più efficace. Dallo slogan «Make America great again», che stimola l’orgoglio patriottico di un popolo non disposto al ridimensionamento della potenza statunitense, passando per il pugno duro contro la Cina, le draconiane proposte sui muri anti-immigrati, fino alle promesse di elargizioni a beneficio dei veterani, un classico del repertorio nazionalista di un Paese che in queste sfaccettature ricorda l’ethos civile dell’antica Roma. Nessun altro candidato è riuscito a catturare l’empatia di un elettorato galvanizzato dalle sortite iperboliche di Trump. Il che in fondo è bizzarro, se si considera che l’estremista religioso sostenuto dai liberisti del Tea Party dovrebbe essere Cruz. Dai funzionari di partito come Jeb Bush e il suo delfino Rubio, invece, non ci si poteva aspettare un memorabile successo, in un clima del genere.
Lo scossone anti-sistema assestato dagli elettori repubblicani potrebbe giovare alla Clinton, che dopo aver arrancato un po’ contro il rivale socialista Sanders, sembra lanciata verso la nomination. L’ha già detto all’indomani del Super Tuesday: «All’America serve più dolcezza». Hillary avrà buon gioco nel ridicolizzare l’eccentricità di Trump e nel far leva sul classico repertorio politically correct: le donne, gli immigrati, i poveri, le minoranze, i diritti. D’altronde proprio l’apparente vantaggio potrebbe trasformarsi in un punto debole. Trump ha già brutalizzato gli sfidanti repubblicani con i suoi attacchi frontali,dimostrandosi capacissimo di resistere alla loro martellante propaganda contra personam;l’errore più grande che la Clinton potrebbe commettere sarebbe quello di una campagna elettorale alla Bersani, sotto tono, remissiva, nella malriposta convinzione di vincere a tavolino.
Se ne vedranno delle belle. Intanto, le reazioni scandalizzate dei benpensanti ai toupet di Trump o ai suoi flirt con il duce su Twitter sono già un premio impagabile, per chi vorrebbe castigare la insulsa casta di sacerdoti del progressismo. E poi, se la dobbiamo dire tutta, piuttosto che la Clinton andrebbe bene anche Topo Gigio.http://www.campariedemaistre.com/2016/03/trump-piace-allamerica-profonda-ecco.html
La sinistra psichiatrica e Trump
La sinistra non è solo un’idea politica. È uno stato d’animo. Un modo di intendere la vita. In alcuni casi una condizione psichiatrica. Non me ne vogliano i lettori di sinistra. C’è una sinistra tollerante, intelligente e critica che fa scuola. Ma non è una mia idea balzana che ne esista anche una clinica. L’autorevolissimo Washington Post ha pubblicato un sondaggio secondo il quale il 69 per cento dei cittadini statunitensi vive con l’ansia che Donald Trump diventi presidente. Fin qui ci sta. Anche se l’ansia sembra un sentimento oggettivamente esagerato. C’è vita anche oltre la politica. Ma la psicoterapeuta Alison Howard ha rincarato la dose spiegando – sempre al quotidiano della capitale – che nelle ultime settimane più di un paziente ha impiegato la costosa ora di terapia per parlare dei fantasmi e delle paure che l’exploit del miliardario gli ha provocato.
“Ci è stato detto per tutta la vita di non dire cose brutte delle persone, di non comportarci da bulli, di non ostracizzare le persone sulla base del colore della pelle – spiega la Howard – ma lui infrange tutti questi costumi morali, ed ha successo. Così le persone si chiedono perché lui
la faccia franca”. In poche parole: il politicamente scorretto nuoce gravemente alla salute. Anche se sarebbe più giusto dire che il politicamente corretto nuove gravemente al cervello, a giudicare dalle lamentele dei suoi pazienti. Perché questo “stress da Trump” – così lo hanno ribattezzato i giornali a stelle e strisce – non è nient’altro che paura del diverso. Intolleranza al cambiamento. E capisco che possa sembrare un paradosso in una società nella quale “il diverso” viene normalmente considerato – per esempio – l’extracomunitario. Ma da un po’ di tempo a questa parte l’extracomunitario del pensiero è il politicamente scorretto che, in quello che qualcuno chiamerebbe un contrappasso, viene emarginato e ostracizzato. Anche quando dice cose di buon senso, come talvolta – non sempre – capita a Trump. Nei suoi confronti non c’è un’opposizione ragionevole e ragionata. Ma una reazione isterica. C’è una sinistra emotiva che al sol pensiero di una vittoria del tycoon finisce sul lettino dell’analista, si strappa i capelli, batte i piedi e cerca di ribaltare il tavolo.
Sempre abituati a vincere e a stare della parte della ragione, sempre viziati, ora si accorgono di non avere più l’appoggio popolare. E non riescono a spiegarselo. Non lo capiscono. Non si adattano. Non si adeguano. Vorrebbero portare via il pallone e interrompere la partita. Solo che il pallone è la democrazia. E con quella non si scherza. Quindi si prendessero le loro pastigliette e accettassero la democrazia anche quando non vincono loro…
http://blog.ilgiornale.it/delvigo/2016/03/04/la-sinistra-psichiatrica-e-trump/
“Ci è stato detto per tutta la vita di non dire cose brutte delle persone, di non comportarci da bulli, di non ostracizzare le persone sulla base del colore della pelle – spiega la Howard – ma lui infrange tutti questi costumi morali, ed ha successo. Così le persone si chiedono perché lui
la faccia franca”. In poche parole: il politicamente scorretto nuoce gravemente alla salute. Anche se sarebbe più giusto dire che il politicamente corretto nuove gravemente al cervello, a giudicare dalle lamentele dei suoi pazienti. Perché questo “stress da Trump” – così lo hanno ribattezzato i giornali a stelle e strisce – non è nient’altro che paura del diverso. Intolleranza al cambiamento. E capisco che possa sembrare un paradosso in una società nella quale “il diverso” viene normalmente considerato – per esempio – l’extracomunitario. Ma da un po’ di tempo a questa parte l’extracomunitario del pensiero è il politicamente scorretto che, in quello che qualcuno chiamerebbe un contrappasso, viene emarginato e ostracizzato. Anche quando dice cose di buon senso, come talvolta – non sempre – capita a Trump. Nei suoi confronti non c’è un’opposizione ragionevole e ragionata. Ma una reazione isterica. C’è una sinistra emotiva che al sol pensiero di una vittoria del tycoon finisce sul lettino dell’analista, si strappa i capelli, batte i piedi e cerca di ribaltare il tavolo.
Sempre abituati a vincere e a stare della parte della ragione, sempre viziati, ora si accorgono di non avere più l’appoggio popolare. E non riescono a spiegarselo. Non lo capiscono. Non si adattano. Non si adeguano. Vorrebbero portare via il pallone e interrompere la partita. Solo che il pallone è la democrazia. E con quella non si scherza. Quindi si prendessero le loro pastigliette e accettassero la democrazia anche quando non vincono loro…
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