L’infallibilità del papa
Tutti i giornali parlano della lettera di Francesco ad Hans Kung, grande avversario, teologicamente parlando, di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
In tale lettera dice che si può ben discutere il dogma dell’infallibilità pontificia.
Discutere un dogma, nella Chiesa, non è possibile. Mettere in discussione tutto, di continuo, affidando tutto alla imperizia dei giornali plaudenti, crea enorme confusione e smarrimento. Ma discutere su cosa sia l’infallibilità, è oggi più che opportuno.
Il dogma dell’infallibilità pontificia, generò infatti da subito molte discussioni, anche in chi lo approvava. Perché si temette che potesse essere inteso in modo sbagliato.
Ci fu chi lo avversò, chi lo difese, e chi, difendendolo, disse che andava spiegato e ben compreso.
Se andava spiegato nell’Ottocento, immaginiamoci oggi, in un’epoca in cui la personalizzazione
la fa da padrona in ogni campo, complice la potenza dei media.
Allora bisognerà comprendere un fatto: che l’infallibilità del papa, in quanto vicario di Cristo, appartiene alla fede della Chiesa anche prima della proclamazione del dogma.
Ma in cosa consiste? Questo è più difficile da capire, perchè appartiene ai misteri della fede. Quella fede che fa sì che i cattolici abbiano sempre creduto, giustamente, alla santità della Chiesa, anche di fronte a preti, vescovi, cardinali e papi pessimi.
Il fondamento sta nel Vangelo: “le porte degli Inferi non prevarranno contro di Essa”. Questo è certo.
Ciò non significa che il papa non sbagli: Pietro, il I papa, rinnegò Cristo, e fu ripreso da san Paolo, che gli “resistette in faccia”, salvando la Chiesa, già con i suoi problemi, dunque, sin dal principio.
Il papa può sbagliare sia nella vita personale (può anche essere un grande peccatore, un fariseo, un vanesio…), sia come teologo privato.
Vi sono vari casi, nella storia, in cui i papi hanno detto cose sbagliate, senza però impegnare la loro infallibilità.
Anche oggi un documento come Amoris laetitia, così discusso, non è presentato, da chi lo ha scritto, come dottrinale: non è dunque infallibile.
Scriveva san Vincenzo da Lerino: “Dio alcuni papi li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge”.
La storia mostra quanto questo sia vero; e mostra anche che i papi inflitti, hanno fatto grandi guai, ma non sono riusciuti mai a distruggere la Chiesa.
Nè quelli che davano scandalo con la loro vita privata, nel Rinascimento, nè quelli che ne hanno fatto scempio, in verità assai di rado, con le loro dottrine errate.
Il cardinal Gicomo Biffi, grande amico ed estimatore di Giovanni Paolo II, raccontava spesso, come cosa normale e giusta, di averlo criticato apertamente più volte, anche in privato. In particolare riguardo a come Giovanni Paolo II aveva gestito i mea culpa sulla storia della Chiesa, alimentando tanta confusione, e, soprattutto, riguardo all’ecumenismo.
Assisi 1986 era stata, per Biffi, come per Ratzinger, un involontaria propaganda all’indifferentismo religioso.
Giovanni Paolo II, di fronte a queste considerazioni di Biffi, non se la prese, ma, a quanto risulta, disse addirittura che in quelle critiche c’era del vero.
Nessun papa serio crede nell’infallibilità come onnipotenza: la fede, il Vangelo, non sono del papa, ma gli sono affidati.
Egli è colui che deve tramandare il depositum fidei: tramandare, significa che non crea nulla (tramanda, come scriveva san Paolo, ciò che ha ricevuto); depositum, significa che i dogmi sono già contenuti, esplicitamente o implicitamente, nel Vangelo.
E’ per questo che nella Chiesa ci si è posti spesso, nei secoli, la domanda: e se il papa non fosse cattolico?
Per Erasmo da Rotterdam, Giulio II non era papa; e il grande teologo, esprimendo il pensiero comune della Chiesa, sosteneva che quando il papa non ha la vera fede, non è papa, e decade, ipso facto, dalla sua carica. Il papa Paolo IV, infatti, sempre nel Cinquecento, nella bolla Cum ex apostolatus officio del 15 marzo 1559, affermava l’impossibilità di essere a capo della Chiesa, senza possederne la fede. Più avanti nel tempo San Roberto Bellarmino, nel De Romano Pontifice, scriverà: «un papa che sia eretico manifesto, per quel fatto cessa di essere papa e capo, poiché a causa di quel fatto cessa di essere un cristiano e un membro del corpo della Chiesa. Questo è il giudizio di tutti gli antichi Padri, che insegnano che gli eretici manifesti perdono immediatamente ogni giurisdizione»
Questo decadere è però molto problematico, perchè prima sedes a nemine indicatur: poichè il papa è superiore ai cardinali, o ai concili, non può essere da loro deposto.
Come conciliare la possibilità che un papa non sia papa, che decada ipso facto, e il fatto che non possa essere deposto da altri?
Qui sta evidentemente il caso, che nessun teologo, a quanto consta, ha mai risolto, da un punto di vista pratico.
Così anche il vecchio codice di diritto canonico parlava di decadenza ipso facto, e lì si fermava.
Ma torniamo all’infallibilità, e ai suoi limiti. Si sentono spesso commenti di questo genere: non si può criticare un documento del papa, una sua affermazione…
Non è così: in politica, nel campo scientifico, quando propone soluzioni pastorali… un papa può, senza dubbio, sbagliare, e di grosso. Se poi si contrappone ad un suo predecessore, non è lecito sfuggire al dilemma posto dalla ragione: chi ha ragione?
In caso di errore non è doverso obbedirgli, anzi. Si tratta di una dottrina che la Chiesa riconosce, per analogia, in ogni ambito: bisogna obbedire all’autorità dei genitori, ma non quando comandano qualcosa contro la legge di Dio (ad es. di rubare); bisogna obbbedire al potere politico, ma si deve avere il coraggio di opporsi, nel giusto modo, quando esso dia ordini iniqui (ad esempio uccidere l’innocente).
I medievali, che avevano del Vicario di Cristo un sommo rispetto, lo sapevano assia bene: Dante mette all’inferno diversi papi, eppure non smette mai di credere nel potere delle Somme Chiavi e nella Chiesa come Istituzione divina.
Come lui tutti i suoi contemporanei, se è vero come è vero che nessuno mai ebbe da dire, in punta di dottrina, contro le sua posizione, o quella di un Iacopone da Todi, che stimava Bonifiacio VIII ancora meno di quanto faceva Dante.
Un ultimo esempio dal lontano passato, tra i tanti possibili: Santa Caterina da Siena. Come si rivolgeva al papa?
Così: “Santissimo e carissimo e dolcissimo padre in Cristo dolce Gesù….”; eppure, nella stessa lettera lo invitava ad essere “uomo virile e non timoroso“, senza “timore servile“, e gliele suonava e gliele cantava…
E attingendo a tempi più recenti, come non ricordare il beato cardinal Newman, che dalla Chiesa anglicana a quella di Roma era tornato, che del Papato era grande difensore, quando difendendo il dogma dell’infallibilità pontificia, nella lettera al duca di Norfolk, scriveva: “Con tutto ciò sono lontano dall’affermare che i papi non abbiano mai torto; che non ci si debba mai oppore a loro, oppure che le loro scomuniche abbiano sempre effetto. Non sono tenuto a difendere la politica e gli atti di singoli Papi...”
Il papa elogia Scalfari, Kung, Bonino, Pannella, Napolitano, Martin Lutero…?
In nessuno di questi atti o giudizi Egli gode dell’infallibiltà.
Chi toglie al Papa le sue prerogative (magari quando si chiama Benedetto ed è avversato da mondo), come chi gliele aggiunge (quando gli torna utile unirsi al coro), fa un pessimo servizio al Papato.
28 aprile 2016
Discutere un dogma, nella Chiesa, non è possibile. Mettere in discussione tutto, di continuo, affidando tutto alla imperizia dei giornali plaudenti, crea enorme confusione e smarrimento. Ma discutere su cosa sia l’infallibilità, è oggi più che opportuno.
Il dogma dell’infallibilità pontificia, generò infatti da subito molte discussioni, anche in chi lo approvava. Perché si temette che potesse essere inteso in modo sbagliato.
Ci fu chi lo avversò, chi lo difese, e chi, difendendolo, disse che andava spiegato e ben compreso.
Se andava spiegato nell’Ottocento, immaginiamoci oggi, in un’epoca in cui la personalizzazione
la fa da padrona in ogni campo, complice la potenza dei media.
Allora bisognerà comprendere un fatto: che l’infallibilità del papa, in quanto vicario di Cristo, appartiene alla fede della Chiesa anche prima della proclamazione del dogma.
Ma in cosa consiste? Questo è più difficile da capire, perchè appartiene ai misteri della fede. Quella fede che fa sì che i cattolici abbiano sempre creduto, giustamente, alla santità della Chiesa, anche di fronte a preti, vescovi, cardinali e papi pessimi.
Il fondamento sta nel Vangelo: “le porte degli Inferi non prevarranno contro di Essa”. Questo è certo.
Ciò non significa che il papa non sbagli: Pietro, il I papa, rinnegò Cristo, e fu ripreso da san Paolo, che gli “resistette in faccia”, salvando la Chiesa, già con i suoi problemi, dunque, sin dal principio.
Il papa può sbagliare sia nella vita personale (può anche essere un grande peccatore, un fariseo, un vanesio…), sia come teologo privato.
Vi sono vari casi, nella storia, in cui i papi hanno detto cose sbagliate, senza però impegnare la loro infallibilità.
Anche oggi un documento come Amoris laetitia, così discusso, non è presentato, da chi lo ha scritto, come dottrinale: non è dunque infallibile.
Scriveva san Vincenzo da Lerino: “Dio alcuni papi li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge”.
La storia mostra quanto questo sia vero; e mostra anche che i papi inflitti, hanno fatto grandi guai, ma non sono riusciuti mai a distruggere la Chiesa.
Nè quelli che davano scandalo con la loro vita privata, nel Rinascimento, nè quelli che ne hanno fatto scempio, in verità assai di rado, con le loro dottrine errate.
Il cardinal Gicomo Biffi, grande amico ed estimatore di Giovanni Paolo II, raccontava spesso, come cosa normale e giusta, di averlo criticato apertamente più volte, anche in privato. In particolare riguardo a come Giovanni Paolo II aveva gestito i mea culpa sulla storia della Chiesa, alimentando tanta confusione, e, soprattutto, riguardo all’ecumenismo.
Assisi 1986 era stata, per Biffi, come per Ratzinger, un involontaria propaganda all’indifferentismo religioso.
Giovanni Paolo II, di fronte a queste considerazioni di Biffi, non se la prese, ma, a quanto risulta, disse addirittura che in quelle critiche c’era del vero.
Nessun papa serio crede nell’infallibilità come onnipotenza: la fede, il Vangelo, non sono del papa, ma gli sono affidati.
Egli è colui che deve tramandare il depositum fidei: tramandare, significa che non crea nulla (tramanda, come scriveva san Paolo, ciò che ha ricevuto); depositum, significa che i dogmi sono già contenuti, esplicitamente o implicitamente, nel Vangelo.
E’ per questo che nella Chiesa ci si è posti spesso, nei secoli, la domanda: e se il papa non fosse cattolico?
Per Erasmo da Rotterdam, Giulio II non era papa; e il grande teologo, esprimendo il pensiero comune della Chiesa, sosteneva che quando il papa non ha la vera fede, non è papa, e decade, ipso facto, dalla sua carica. Il papa Paolo IV, infatti, sempre nel Cinquecento, nella bolla Cum ex apostolatus officio del 15 marzo 1559, affermava l’impossibilità di essere a capo della Chiesa, senza possederne la fede. Più avanti nel tempo San Roberto Bellarmino, nel De Romano Pontifice, scriverà: «un papa che sia eretico manifesto, per quel fatto cessa di essere papa e capo, poiché a causa di quel fatto cessa di essere un cristiano e un membro del corpo della Chiesa. Questo è il giudizio di tutti gli antichi Padri, che insegnano che gli eretici manifesti perdono immediatamente ogni giurisdizione»
Questo decadere è però molto problematico, perchè prima sedes a nemine indicatur: poichè il papa è superiore ai cardinali, o ai concili, non può essere da loro deposto.
Come conciliare la possibilità che un papa non sia papa, che decada ipso facto, e il fatto che non possa essere deposto da altri?
Qui sta evidentemente il caso, che nessun teologo, a quanto consta, ha mai risolto, da un punto di vista pratico.
Così anche il vecchio codice di diritto canonico parlava di decadenza ipso facto, e lì si fermava.
Ma torniamo all’infallibilità, e ai suoi limiti. Si sentono spesso commenti di questo genere: non si può criticare un documento del papa, una sua affermazione…
Non è così: in politica, nel campo scientifico, quando propone soluzioni pastorali… un papa può, senza dubbio, sbagliare, e di grosso. Se poi si contrappone ad un suo predecessore, non è lecito sfuggire al dilemma posto dalla ragione: chi ha ragione?
In caso di errore non è doverso obbedirgli, anzi. Si tratta di una dottrina che la Chiesa riconosce, per analogia, in ogni ambito: bisogna obbedire all’autorità dei genitori, ma non quando comandano qualcosa contro la legge di Dio (ad es. di rubare); bisogna obbbedire al potere politico, ma si deve avere il coraggio di opporsi, nel giusto modo, quando esso dia ordini iniqui (ad esempio uccidere l’innocente).
I medievali, che avevano del Vicario di Cristo un sommo rispetto, lo sapevano assia bene: Dante mette all’inferno diversi papi, eppure non smette mai di credere nel potere delle Somme Chiavi e nella Chiesa come Istituzione divina.
Come lui tutti i suoi contemporanei, se è vero come è vero che nessuno mai ebbe da dire, in punta di dottrina, contro le sua posizione, o quella di un Iacopone da Todi, che stimava Bonifiacio VIII ancora meno di quanto faceva Dante.
Un ultimo esempio dal lontano passato, tra i tanti possibili: Santa Caterina da Siena. Come si rivolgeva al papa?
Così: “Santissimo e carissimo e dolcissimo padre in Cristo dolce Gesù….”; eppure, nella stessa lettera lo invitava ad essere “uomo virile e non timoroso“, senza “timore servile“, e gliele suonava e gliele cantava…
E attingendo a tempi più recenti, come non ricordare il beato cardinal Newman, che dalla Chiesa anglicana a quella di Roma era tornato, che del Papato era grande difensore, quando difendendo il dogma dell’infallibilità pontificia, nella lettera al duca di Norfolk, scriveva: “Con tutto ciò sono lontano dall’affermare che i papi non abbiano mai torto; che non ci si debba mai oppore a loro, oppure che le loro scomuniche abbiano sempre effetto. Non sono tenuto a difendere la politica e gli atti di singoli Papi...”
Il papa elogia Scalfari, Kung, Bonino, Pannella, Napolitano, Martin Lutero…?
In nessuno di questi atti o giudizi Egli gode dell’infallibiltà.
Chi toglie al Papa le sue prerogative (magari quando si chiama Benedetto ed è avversato da mondo), come chi gliele aggiunge (quando gli torna utile unirsi al coro), fa un pessimo servizio al Papato.
28 aprile 2016
http://www.libertaepersona.org/wordpress/2016/04/linfallibilita-del-papa/#more-135252
Infallibilità: Kung interpreta (a suo modo) il Papa
Infallibilità: Kung interpreta (a suo modo) il Papa
Lo scorso marzo Hans Kung, teologo tedesco “dissidente”, aveva pubblicato il 5° volume della sua opera omnia e aveva colto l’occasione per fare un appello a papa Francesco. Perché aprisse una “libera discussione” su quello che lui considera «un problema», vale a dire il dogma dell’infallibilità del Papa. La Nuova Bussola quotidiana ne aveva dato notizia intervistando il teologo domenicano padre Roberto Coggi (vedi qui), il quale aveva messo ben in chiaro che nessun dogma, per definizione, è riformabile. Già discuterne è un problema. Ma, ora la questione di Kung torna di attualità, visto che papa Francesco ha risposto con una lettera al suo appello.
Il testo della lettera del Papa a Kung non è stato divulgato – «per la riservatezza che devo al Papa»– ma il teologo ha diffuso in tutto l’orbe cattolico un comunicato stampa dove rende conto di questa lettera e dice che «Francesco non ha fissato alcun limite alla discussione» e «con evidenza ha letto attentamente l’Appello». «Penso che sia ora indispensabile», aggiunge Kung nel comunicato, «utilizzare questa nuova libertà per portare avanti la riflessione sulle definizioni dogmatiche, che sono motivo di polemica all’interno della Chiesa cattolica e nel suo rapporto con le altre chiese cristiane. Non prevedevo tutta questa nuova libertà che Francesco ha aperto nella sua esortazione post-sinodale Amoris laetitia. (…) Francesco non vuole più essere l’unico portavoce della Chiesa. Questo è il nuovo spirito che ho sempre atteso dal magistero».
Di certo, è ben difficile pensare che il Papa voglia aprire una discussione su ciò che non si può discutere, semmai il tema potrebbe essere un altro. Chi segue nei dettagli il pontificato di Francesco sa bene che la sinodalità/collegialità è al cuore della sua azione di riforma del papato. Lo si può capire fin dalla esortazione Evangelii gaudium, ma anche da molti gesti da lui compiuti. Nessuno pensa che il Papa voglia direttamente cambiare, o peggio abolire, ciò che non si può riformare, ma Bergoglio è il Papa della sinodalità, di un nuovo rapporto tra “centro” (Curia romana) e “periferia” (vescovi e Conferenze espicopali); e tenta di aprire porte senza cambiare dottrina, in quella che chiama «conversione pastorale del papato»(Cfr. EV 32).
«Non è opportuno che il Papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori», scriveva in Evangelii gaudium. «In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”». Va sottolineato che questo “mandato” lo aveva ricevuto anche in Conclave dove la sua elezione era maturata, tra l’altro, in un clima di avversione al lavoro della curia romana sommersa da scandali fortemente mediatizzati (Vatileaks, pedofilia). Inoltre, bisogna evidenziare che la spinta verso la “democratizzazione” della Chiesa in chiave sinodale viene da lontano, dagli anni dell’immediato post-concilio in cui gli ambienti più progressisti della Chiesa, tra cui poi il famoso “Gruppo di San Gallo” che comprendeva anche i cardinali Martini, Kasper e Danneels, portavano avanti un’agenda molto ricca in tal senso. Il teologo Kung era certamente una punta avanzata di questi ambienti.
Nell’ambito di una maggior collegialità/sinodalità nella Chiesa vi sono poi diverse considerazioni che derivano in campo ecumenico. Non a caso papa Francesco nell’intervista concessa alla Civiltà Cattolica nel settembre 2013 ha citato il cosiddetto “Documento di Ravenna”, un testo che ha visto la luce proprio in seno al dialogo tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa nel 2007. Il Papa indica quel testo che «pone la reciproca interdipendenza tra primato e conciliarità a livello locale, regionale e universale, per cui il primato deve essere sempre visto nel contesto della conciliarità e, analogamente, la conciliarità nel contesto del primato (n.43). Questa visione», chiosava il Papa, «dà una dinamicità al modo di concepire il ministero pontificio in una proiezione verso un futuro che ogni fedele vorrebbe vedere realizzato». Il riferimento indiretto, al di là delle questioni ecumeniche, è ancora una volta alla collegialità episcopale e alla sua articolazione con il primato di Pietro (e quindi anche con l’infallibilità del Papa).
Proprio la riforma del papato in senso collegiale, che papa Francesco mostra di voler perseguire, potrebbe essere la ragione indiretta della risposta che lo stesso Francesco ha inviato a Kung. Per quanto riguarda Kung, bisogna sottolineare che la sua ecclesiologia è stata già richiamata ufficialmente dalla Congregazione della Dottrina della Fede in un Monitum del 1975. In particolare, si avvertivano i fedeli su alcune opinioni che contrastavano con la dottrina cattolica e che lo stesso Kung aveva manifestato in due suoi libri dai titoli inequivocabili: La Chiesa e Infallibile? Una domanda. L’ecclesiologia che Kung ha sempre caldeggiato convergeva, al netto dei singoli dettagli, su di un primato dottrinale del Papa che avrebbe dovuto presentarsi sotto altra forma e con altra funzione, anche in vista dell’unità ecumenica.
Il sottofondo era quello di una sostanziale democratizzazione della Chiesa in cui il Papa prima di pronunciarsi, specialmente se ex-cathedra, dovrebbe prima consultarsi con i vescovi e non solo. Papa Francesco, invece, nel suo discorso conclusivo al Sinodo 2014 ha citato con molta chiarezza il Codice di Diritto canonico, per dire che il Successore di Pietro è «il garante dell'ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo - per volontà di Cristo stesso - il "Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli" (Can. 749) e pur godendo "della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa" (cf. Cann. 331-334)»
L'infallibilità papale è già demolita 'de factu'. Demolita da Bergoglio stesso. Dal momento in cui un papa si permette di negare, sostituire, contraddire... quanto detto 'ex cathedra' da un papa precedente... Voilà! Il gioco è fatto! Le carte sono sostituite. E l'infallibilità è andata a farsi benedire...
RispondiEliminaCaro mio, già Ratzinger a suo tempo ha parlato della infallibilità papale come fossero quisquilie, come diatribe da cortile che devono essere superate da un primato di sola "carità". Questi soggetti disprezzano il Papato perché disprezzano la Vera Fede Cattolica e per questi motivi Cristo non glielo ha concesso al fine di preservare la Sua Chiesa indenne fino al ritorno di un vero Successore di Pietro!
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