ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 8 aprile 2016

Si fermernno in tempo?

IL TIMONE DELLA CHIESA

    I gesuiti hanno preso il timone della Chiesa, ma per condurla dove? Per 2 volte l'hanno salvata e oggi stanno portando avanti un terzo supremo tentativo con un loro confratello sul soglio di san Pietro ma c’è qualcosa di paradossale 
 F. Lamendola  



 Per due volte i Gesuiti hanno preso in mano le sorti della Chiesa cattolica e l‘hanno praticamente salvata in frangenti estremi: la prima, fra XVI e XVII secolo, quando stava per cadere in pezzi sotto il doppio urto della rivoluzione protestante e di quella scientifica; la seconda, al principio del XX, quando stava per soccombere al modernismo e alla secolarizzazione. Oggi essi stanno portando avanti un terzo, supremo tentativo per salvarla, come essi pensano, dal naufragio definitivo; e lo stanno facendo dopo aver portato un loro confratello sul soglio di san Pietro, cosa mai avvenuta prima, al preciso scopo di giungere a una “normalizzazione” dei rapporti con la massoneria, loro antica amica-nemica, con la quale intrattengono complessi ed ambigui rapporti da due secoli e mezzo (precisamente, da quando la massoneria scozzese si pose al servizio dei tentativi di restaurazione cattolica e giacobita in Inghilterra).

C’è qualcosa di paradossale nell’elezione di un gesuita a sommo Pontefice della Chiesa romana, perché i gesuiti sono stati fondati da Ignazio di Loyola precisamente per costituire l’esercito personale del papa: tanto è vero che essi hanno aggiunto ai tre voti tradizionali di tutti gli altri ordini religiosi – povertà, castità e obbedienza – un quarto voto, la fedeltà assoluta e irremovibile nei confronti del sommo Pontefice. E allora, se essi sono i fedelissimi del papa, e se il loro generale - che è tale a vita, a differenza di tutti gli altri -, ossia il “papa nero”, per statuto, altro non deve fare che guidare codesto esercito di fedelissimi, che senso ha che venga eletto egli stesso “papa bianco” della Chiesa cattolica? Se il loro compito è obbedire perinde ac cadaver, con la stessa obbedienza cieca di un cadavere, a chi obbediranno adesso che il timone della barca di san Pietro si trova nelle loro stesse mani? In altre parole: che uso farà, del suo immenso potere, l’ordine religioso di gran lunga più potente, più ricco, più colto, più duttile, più avventuroso, più scaltro in fatto di esperienza politica e diplomatica, più fornito di entrature e collegamenti con il mondo profano, con le altre religioni e con la stessa massoneria, oltre che con la grande finanza internazionale? Esso, finora, ha sempre obbedito ad una autorità ad esso esterna e superiore; ma ora che la somma autorità è nelle sue mani, che cosa pensa di farne?
In realtà, l’ordine gesuita del terzo millennio, anzi, già a partire dalla seconda metà del XX, è solo esteriormente la stessa cosa dell’ordine gesuita dei secoli passati. Fondato nel 1540, soppresso e disciolto nel 1773 da Clemente XIV (su pressione dei principali sovrani d’Europa), risorto nel 1814 con Pio VII (all’epoca del Congresso di Vienna e della restaurazione), particolarmente impegnato nelle missioni e nel settore educativo, il 13 marzo 2013 esso ha visto eletto al papato un suo membro, Jorge Mario Bergoglio, con il nome di Francesco, già arcivescovo di Buenos Aires, poi fatto cardinale da Giovanni Paolo II, il 21 febbraio 2001. Qualcosa, però, è cambiato in profondità nell’atteggiamento di fondo dei fedelissimi del papa: verso la metà del XX secolo alcuni membri dell’ordine, come il paleontologo e filosofo Pierre Teilhard de Chardin, hanno suscitato polemiche e controversie con le loro audaci prese di posizione teologiche; altri, come Karl Rahner, hanno sostenuto apertamente la necessità di una radicale riforma della Chiesa e hanno spinto energicamente in tale direzione, fin dentro le aule del Concilio Vaticano II. Il quale concilio è stato giudicato, da più di un osservatore, come il tentativo di attuazione della riforma globale auspicata da Rahner e da altri; tendenza poi sviluppata e ulteriormente approfondita sotto lo stimolo della teologia della liberazione. Quest’ultima è nata in America latina nell’ambiente dei gesuiti di quel continente: quasi tutti i suoi esponenti appartengono alla Compagnia di Gesù. E la Compagnia di Gesù non crede più che la sua missione sia quella di difende il cattolicesimo contro tutto e contro tutti, come ai tempi di Ignazio di Loyola, ma, si direbbe, quella di trovare un punto d’incontro con il “mondo”, per ridare fiato a una Chiesa giudicata ormai asfittica, mediante la ricetta di riallacciarla velocemente alle correnti principali del pensiero contemporaneo e della spiritualità non cattolica, massoneria compresa (e si tenga presente che la massoneria è potentissima in America latina, specialmente in Argentina, Paese di Bergoglio; al punto che centinaia di migliaia di cattolici latino-americani sono, contemporaneamente, membri della massoneria, e che, fra loro, vi è un discreto numero di sacerdoti).
In che cosa consisterebbe il “nuovo corso” dei moderni gesuiti, mai apertamente presentato come una rottura con la tradizione, anche se, di fatto, lo è, sia nella strategia di fondo, sia nella tattica? Primo, in una “svolta antropologica”, inaugurata, appunto, da Karl Rahner, che pone l’Uomo, e non più Dio, al centro dell’orizzonte spirituale; secondo, nella priorità della “dignità dell’uomo” rispetto alla Verità; terzo, nella relativizzazione stessa del concetto di verità (si ricordi ciò che disse in proposito Bergoglio a Eugenio Scalfari nella ben nota intervista rilasciata a La Repubblica, poco dopo la sua elezione); quarto (ma l’ordine è nostro, come nostra è la presente sintesi della “svolta” gesuita), l’obbedienza al papa non è più assoluta e incondizionata, ma dipende dal fatto che il papa sostenga, oppure no, codesto processo di riforma; quinto, il papa non deve essere più considerato come il capo della Chiesa, ma come il vescovo di Roma e, al massimo, come un primus inter pares fra i vescovi di tutto il mondo, perché la Chiesa si deve trasformare in una specie di grande assemblea democratica permanente, sul modello “conciliarista” del Vaticano II; sesto, la Chiesa deve lasciar cadere anche le ultime riserve nei confronti delle altre “verità”, comprese quelle irreligiose, e deporre ogni pretesa di superiorità derivante dal possesso di una verità oggettiva (e, anche qui, si ricordi quel “buonasera” pronunciato da Bergoglio, al popolo dei fedeli di Roma, la sera della sua proclamazione, dal balcone del Palazzo vaticano, quasi che non volesse offendere gli atei con un bel: Sia lodato Gesù Cristo); settimo, la Chiesa si deve schierare politicamente al fianco dei “poveri”, quindi anche dei “migranti”, apertamente e incessantemente, persuadendo tutti al “dovere” della solidarietà ed dell’accoglienza. Quest’ultimo elemento proviene dalla teologia della liberazione e, dunque, è un regalino che il cattolicesimo sudamericano fa alla vecchia e stanca Europa, in apparenza per rinvigorirla, aprendola alle “delizie” del multiculturalismo, in realtà sposando la causa delle lobby finanziarie che perseguono la distruzione della identità europea per spianare la strada alla globalizzazione dei mercati e, quindi, delle culture e dei localismi. Ed ecco saldato il cerchio, e spiegata l’apparente incongruenza, fra un ordine gesuita vicino alla massoneria e, mediante lo I.O.R., alle centrali finanziarie mondiali, e l’opzione preferenziale per i poveri, per gli ultimi, per i diseredati; le due cose non configgono affatto, anzi, si completano e si integrano a meraviglia: l’una è la faccia nascosta (e inconfessabile), ma necessaria, dell’altra.
Un ex gesuita, che fu segretario del cardinale Augustin Bea - altro campione dell’ecumenismo e del dialogo ebraico-cristiano -, l’irlandese Malachi Martin, buon conoscitore di molti segreti vaticani, poi emigrato negli Stati Uniti e naturalizzato cittadino americano, ha tracciato un quadro assai significativo di questa evoluzione sommersa della Compagnia di Gesù (cit. in: Galeazzi-Pinotti, Vaticano massone, Milano, Piemme, 2013, pp. 60-61):

Con la vita e con la morte, i gesuiti scrissero la propria storia come “gli uomini del papa” […] come padre Walter Ciszek finito a languire per diciassette anni nel Gulag sovietico; […] o padre Augustin Bea, che percorse in lungo e in largo l’Unione Sovietica del tempo di Stalin per raccogliere un quadro accurato per la Santa Sede; o padre Tacchi Venturi, promotore dei negoziati tra Mussolini e papa Pio XI. In realtà, ciò che li fece agire a grande distanza di spazio e di tempo fu il favoloso attaccamento all’obbedienza, consacrato all’insegna di un voto speciale che ogni loro impresa sarebbe stata all’insegna dell’obbedienza al papa […]. L’ampiezza di vedute continuò ad evolversi fino a che i gesuiti raggiunsero il momento di massima fioritura nella prima metà del ventesimo secolo. Grazie ai loro sforzi, ebbe luogo uno pseudo rinascimento del cattolicesimo sociale e culturale, che rese possibile ai cattolici di essere scienziati, tecnologi, psicologi, sociologi, politologi, capi politici, artisti, studiosi, rimanendo se stessi anche nelle branche più nuove del sapere, sempre in gradi di conciliare tutto con una convinzione solida come la roccia”, Fino al 1965 la Compagnia non aveva mai deviato da questa missione.
Ma con la chiusura dell’ultima delle quattro sessioni del Concilio Vaticano II avvenne ciò che nessuno avrebbe potuto immaginare. Dice Malachi Martin: “Pedro Arrupe de Gondra fu eletto ventisettesimo padre generale dei gesuiti. Sotto la guida di Arrupe e nelle aspettative di un cambiamento autorizzato dal concilio, la visione di natura antipapale e socio-politica che era maturata per più di un secolo fu accolta dalla Compagnia in quanto organizzazione. Il repentino cambiamento non fu casuale, ma un atto deliberato, al quale Arrupe, come padre generale, fornì una guida ispirata ed entusiasta. Ma ci vuole del tempo prima che il modo di considerare una grande istituzione religiosa cambi. La reputazione che la Compagnia si era guadagnata nei secoli era il migliore paravento dietro il quale costruire una Compagnia molto diversa, come quella che si è venuta a creare negli ultimi vent’anni. In effetti la storia, la storia gloriosa della Compagnia fece sì che i fatti attuali risultassero invisibili e che i nuovi capi potessero presentare il loro atteggiamento  verso il mondo come l’estrema e migliore espressione della spiritualità e della lealtà ignaziane.  Per la grande massa dei cattolici, sia laici che ecclesiastici, era impensabile che proprio i gesuiti potessero diffondere una nuova idea della Chiesa; o che muovessero guerra non a un solo papa [cioè a Giovanni Paolo II, reo di averli “commissariati quando padre Arrupe fu colpito da trombosi, nel 1981: nota nostra], ma addirittura a tre [cioè Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI], ingannandoli, disubbidendoli, aspettando la morte di ciascuno  con la speranza che il prossimo avrebbe lasciato loro mano libra. Inevitabilmente, la guerra dei gesuiti contro il papato è venuta alla luce durante il pontificato di Karol Wojtyla. Quest’uomo carismatico e ostinato giunse al soglio pontificio con l’esperienza diretta del marxismo in Polonia […]. Dal momento dell’elezione, fu chiaro che Giovanni paolo II avrebbe incontrato l’opposizione di molti membri della burocrazia vaticana che aveva ereditato. Ciò che fu meno chiaro, anche per i consumati osservatori vaticani, era che anche i gesuiti avrebbero sfidato la sua autorità in materia politica. Niente di ciò che Giovanni paolo II ha tentato dal momento in cui è arrivato alla cattedra di san Pietro nel 1978 è servito a dissipare o almeno ad attenuare l’opposizione gesuita.

Insomma: i gesuiti sono sempre stati, fino al Concilio Vaticano II, i fedelissimi del papa; ma sono anche stati l’ordine religioso più direttamente a contatto con le logiche del “mondo” in ambito diplomatico e politico (nel XVII secolo erano riuscito a piazzarsi, come consiglieri o ministri, accanto a quasi tutti i principali sovrani cattolici d’Europa, e anche presso alcuni monarchi asiatici, a cominciare dall’imperatore cinese); inoltre, sono stati i primi a far rivivere l’ideale comunista degli Atti degli apostoli, precisamente nellereducciones del Paraguay, donde furono sloggiati nella seconda metà del ‘700, specialmente per la politica del marchese di Pombal a Lisbona (nel 1750 il territorio delle reducciones era stato ceduto dalla Spagna al Portogallo). Quello fu il primo seme da cui sarebbe germogliata la (mala) pianta della teologia della liberazione, che venne formalmente condannata sia da Giovanni Paolo II, sia da Benedetto XVI, ma che, con papa Francesco, sembra sul punto di prendesi la solenne rivincita; così come sembrano sul punto di prendersi la rivincita i fautori del modernismo (già solennemente condannato da Pio X) e gli ammiratori del protestantesimo (si pensi all’elogio di Lutero fatto dal cardinale Carlo Maria Martini: a proposito, un altro gesuita!).
Per completare il quadro della silenziosa, ma radicale “mutazione antropologica” dei gesuiti, a partire dalla metà del XX secolo, si tengano presenti altri due fattori. Il primo è la natura colta della Compagnia: dopo aver dato alla Chiesa e al mondo legioni di teologi, astronomi, matematici, filologi, architetti, storici, geologi, glottologi, oltre che instancabili e intrepidi missionari, i gesuiti hanno finito per assimilare lo spirito della cultura profana, per assorbire elementi di modernismo, laicismo, razionalismo, meccanicismo, evoluzionismo: valga per tutti l’esempio di Teilhard de Chardin, la cui filosofia è assai poco cristiana e molto, invece, panteista. Nietzsche diceva che non si può guardare nell’abisso troppo a lungo, senza che l’abisso guardi dentro di noi.
Il secondo fattore è la stessa obbedienza cieca: che non è mai una virtù. Dopo aver obbedito ciecamente al papa per quattro secoli, i gesuiti hanno incominciato a credere ciecamente in se stessi, nella propria infallibilità, e sia pure riflessa. Alla fine, hanno cominciato a pensare che nemmeno il papa è infallibile (pur se sono stati i più determinati nell’approvazione del dogma sulla infallibilità papale, al Concilio Vaticano I), ma loro sì. Simili, in questo, ai loro avversari comunisti, che però in qualche modo stimavano e segretamente un po’ ammiravano (non si spiega diversamente la fascinazione neomarxista insita nella teologia della liberazione), in tutta la loro storia sono sempre stati pronti a qualunque contrordine, purché venisse dai loro capi: e si mettano a confronto, per averne la prova, le annate de La civiltà cattolica anteriori, e quelle posteriori, al Concilio Vaticano II. È sempre la stessa rivista, sono sempre gli stessi gesuiti; eppure è cambiato tutto, le tesi sono completamente diverse, e anche la linea pastorale è mutata da cima a fondo.
I gesuiti, nel corso del XX secolo, dopo aver fatto così tanta politica, hanno finito per pensare che solo un diretto coinvolgimento a livello politico-sociale può consentire l’instaurazione del regno di Dio in terra: è quanto avevano già cercato di fare, mediante le reduccionesdel Paraguay, fra XVII e XVIII secolo, anticipando di almeno due secoli il comunismo della Internazionale; ed è quanto hanno pensato di fare, ad esempio, i gesuiti siciliani che parteciparono all’esperienza della “primavera di Palermo” nel 1985-1990, e che guardarono con simpatia al movimento della Rete di Leoluca Orlando. Padre Bartolomeo Sorge e Padre Ennio Pintacuda, entrambi gesuiti, venivano dal Centro di Formazione Politica Pedro Arrupe di Palermo; la mafia siciliana era vista, in qualche modo, come i latifondisti brasiliani o salvadoregni, e i bassifondi palermitani erano visti come le favelas: la vecchia e moribonda Democrazia Cristiana, naturalmente, era giudicata come un partito indegno di rappresentare i valori cattolici, e alla quale bisognava sostituire un nuovo movimento, e, forse, un nuovo partito, capace di raccoglierne l’eredità, ma spostandosi su posizioni più accentuatamente di sinistra. È strano come quella stagione sia stata così rapidamente dimenticata; gli storici e i politologi non ne parlano quasi più: eppure è lì, nella cosiddetta “primavera di Palermo”, che si possono trovare tante indicazioni, e persino qualche risposta, agli interrogativi che sorgono oggi, dopo la salita al soglio pontificio di Bergoglio; senza contare tutto quel che si potrebbe capire più in profondità sulle tendenze catto-comuniste dell’odierno Partito Democratico e di un largo settore politico-culturale, oggi egemone in Italia, che va da Matteo Renzi, a Sergio Mattarella, allo stesso papa Bergoglio.
Sbaglierebbe, comunque chi pensasse che questo quadro generale, che abbiamo velocemente cercato di tracciare, è così coerente e lineare nei dettagli, come sembra esserlo nelle linee generali. Bergoglio, tanto per dirne una, è, sì, un gesuita; e, da questo punto di vista è anche il rappresentante della rivincita consumata dalla Compagnia contro la linea di Wojtyla. Però Begoglio, guarda caso, negli anni ruggenti della teologia della liberazione, era contrario ad essa, e si collocava, semmai, su una linea conservatrice in ambito socio-politico. Non era in cattivi rapporti con la giunta dei generali argentini durante la dittatura del triumvirato Videla, Massera e Agosti, e la sua reputazione è rimasta macchiata dalla vicenda di due sacerdoti, Yorio e Jalics (gesuiti pure loro, ma “di sinistra”), sequestrati e torturati per alcuni mesi dalla polizia, che egli non solo non avrebbe aiutato, ma, sembra, avrebbe in qualche modo segnalato ai loro persecutori. Può darsi, quindi, che il progetto iniziale di portare Bergoglio al soglio di san Pietro (si ricordi che già nel conclave successivo alla morte di Giovanni Paolo I, nel 2005, egli sfiorò l’elezione fin dalle prime votazioni; e che, a detta di chi lo conosceva ai tempi in cui era arcivescovo di Buenos Aires, il suo obiettivo era quello di diventare papa), era forse inteso a cercare una mediazione fra le istanze riformatrici dei gesuiti e quelle conservatrici, o ritenute tali, della linea di Wojtyla (e poi di Ratzinger). Così come può esse che i sensi di colpa, o il desiderio di cancellare la vergogna per la vicenda sul caso di Yorio e Jalics, e, più in generale, per il silenzio tenuto sulla tragedia dei desaparecidos (è noto che le madri di Plaza de Mayo hanno accolto con costernazione la sua elezione al pontificato), possano spiegare, almeno in parte, la conversione a “u” di papa Francesco riguardo alla teologia della liberazione, o, quanto meno, riguardo all’approccio della Chiesa alle questioni sociali, specialmente quelle relative ai popoli del Sud della Terra, e, quindi, anche la posizione dell’attuale pontefice riguardo al fenomeno delle migrazioni dirette dal Medio oriente e dall’Africa verso l’Europa.
Sia come sia, resta un grande punto interrogativo: ora che sono arrivati al vertice della Chiesa cattolica, con un loro progetto mondiale, che differisce, su punti non certo secondari, da quello tradizionale,  portato avanti da un Pio XII, da un Giovanni Paolo II, da un Benedetto XVI (costretto ad abdicare, quest’ultimo, dalle pressioni dei gesuiti, oltre che dei media laicisti e mondialisti, della finanza e della massoneria?), che uso faranno del loro potere, del loro prestigio, della loro cultura, della loro abilità diplomatica e della loro spregiudicatezza? Davvero vorranno proseguire sulla linea di un “ecumenismo” che equivale al relativismo religioso; di un populismo che corrisponde a una versione aggiornata e corretta del marxismo; e, soprattutto, di un “umanismo” – in significativa convergenza con la massoneria – che, di fatto, spodesta Dio per mettere, al suo posto, l’uomo, la sua “dignità”, il suo orgoglio, specialmente intellettuale?
Quanto a noi, vogliamo sperare che, su questa china, essi arrivino a comprendere la tremenda responsabilità che si stanno assumendo, e si fermino in tempo, prima del baratro; e che, se necessario, altri settori della Chiesa e del popolo cattolico intervengano per far sentire la loro voce, che poi è la voce perenne del Vangelo, onde evitare danni ancora più gravi di quelli giù causati, specialmente nel disorientare le coscienze, e per rimettere la navicella di san Pietro sulla giusta rotta, evitandole di andare a sfasciarsi contro gli scogli, nel mare in tempesta. 

I gesuiti hanno preso il timone della Chiesa, ma per condurla dove?

di Francesco Lamendola

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