ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 26 maggio 2016

Il Vangelo di Caio o di Tizio

SCIAGURATA VOCE DEI FALSI PASTORI

La loro voce non è quella del Pastore: per questo le pecorelle non la riconoscono. Parlano con parole che scaturiscono da pensieri umani, da intelligenze e volontà umane che non lasciano filtrare la luminosa parola del Pastore divino 
di F. Lamendola  
  

In verità, in verità io vi dico: che non entra per la porta nell’ovile delle pecore, ma vi entra da qualche altra parte, è un ladro e un predone. Chi invece entra per la porta è il pastore delle pecore. Il custode gli apre e le pecore ascoltano la sua voce, ed egli chiama tutte le sue pecore e le mena fuori. Quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a loro e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Non seguiranno invece un estraneo, ma lo fuggiranno, perché non conoscono la voce degli estranei.Con queste bellissime, commoventi similitudini (Giovanni, 10, 1-5), tratte dal mondo della pastorizia nell’antica Palestina, Gesù introdusse ai suoi discepoli la parabola del Buon Pastore, se stesso, proclamano apertamente la sua natura divina: il Padre è in me e io nel Padre.
La voce del buon Pastore è inconfondibile: è la voce di Gesù Cristo: nessuno, che l’abbia udita anche una sola volta, la potrà scordare mai più. È la voce di colui che diede la vita per le sue pecorelle, che le difese contro i lupi che volevano divorarle, e che offrì loro parole di vita eterna.
La sua dottrina era, ed è, la più meravigliosa che mai sia stata annunciata nel corso della storia: Dio ha talmente amato le sue creature, da farsi creatura a sua volta, per scendere in mezzo a loro, indicare la strada che le riconduce al Padre e che dà accesso alla beatitudine eterna. Parole di amore, fratellanza e perdono, quali mai si erano udite prima di allora, quando i sentimenti di benevolenza erano riservati solo ai parenti e agli amici, e solo fino a che perdurasse l’affetto o ve ne fosse la convenienza; e che mai si sono udite poi, o, se pure si sono udite, sono state adoperate con ipocrisia, con doppiezza, con perfidia, per sedurre le masse e poi soggiogarle e sfruttarle a piacimento. Nessuna parola umana è mai giunta alle altezze della parola del buon Pastore, e nessuna è stata accompagnata da una coerenza così perfetta, da una umiltà così assoluta, da una dedizione così totale nei confronti di Dio e, per conseguenza, nei confronti degli uomini. Che esista una fratellanza umana, la quale lega amorevolmente tutti gli abitanti della terra; che esista una solidarietà cosmica, così nel peccato e nei suoi effetti, ma anche nella grazia e nella redenzione; e che il mondo intero, come dice San Paolo, soffra e gema nelle doglie del parto, in attesa della sua liberazione e della sua rinascita nell’amore del Padre, tutto questo è una idea cristiana: non esisteva prima e non è esistita dopo, se non in cento versioni adulterate e menzognere.
Lo scopo della Chiesa è di tramandare fedelmente quelle parole, senza nulla aggiungere o togliere, senza nulla modificare, esplicitamente o implicitamente; senza alcuna riserva mentale, né la sia pur minima pretesa di “migliorale”, integrarle o aggiornarle, perché non vi è proprio nulla, in esse, da migliorare, integrare o aggiornare. Sono parole di vita eterna, e l’eterno non soffre alcun ritocco da parte di ciò che è transitorio. Pure, noi viviamo immersi nel tempo: e da ciò deriva l’opportunità, se non proprio la necessità, di tradurre quelle parole in un linguaggio e in una forma che siano accessibili a tutti, attraverso il mutare dei tempi, delle abitudini, dei modi di pensare. Sono duemila anni che quelle parole vengono tramandate, e, nell’insieme – prescindendo, cioè, dall’infedeltà di singoli uomini – sono state tramandate rettamente e fedelmente, pur attraverso dolorose rotture con alcune parti dell’unica Chiesa di Cristo, le quali hanno ritenuto di separarsi dalla comunione cattolica. Questo, fino a una cinquantina d’anni fa.
Poi, uno spirito nuovo è subentrato fra i pastori del gregge: fra i pastori delegati, perché sia chiaro che il vero Pastore è uno ed uno solo, e non ve ne sono altri all’infuori di Lui. La loro fedeltà nei confronti della Sua parola si è affievolita, si è incrinata, e, in diversi casi, si è spezzata. Essi parlano ancora a nome Suo, ma ciò che odono le pecorelle non è altro che laloro voce, non la Sua. Gonfi di superbia, ma, spesso, sotto apparenza di umiltà e mansuetudine, hanno pensato che il mondo moderno è divenuto troppo diverso da quello che era sino ad alcune generazioni fa, e che non comprenderebbe più le parole del Pastore, senza una radicale revisione del modo di porgerle. Da pastori di anime, si sono fatti attivisti sociali: hanno “deciso” che il cristianesimo è una lotta contro il Male, il che è vero, e che, pertanto, i cristiani hanno il compito di sradicarlo dalla faccia della Terra, il che è falso. Si sono dimenticati delle parole del Maestro: Non c’è servo superiore al padrone. Gesù non è venuto a sradicare il Male, ma a combatterlo, affrontandolo in prima persona: dalle tentazioni nel deserto, fino all’arresto, alla passione e alla morte di croce, la sua vita terrena è stata una lotta ininterrotta contro il Male, una battaglia incessante e amorevole per il Bene. Nemmeno Lui ha preteso di estinguere il Male: ciò avverrà solo alla fine del tempo, quando verrà il Giudizio e tutte le cose saranno vagliate come il grano attraverso il setaccio. Non prima. Così, questi pastori che si son fatti attivisti, che non pregano più, che non hanno tempo per le cose dello spirito, che vogliono “vedere” il risultato concreto della loro azione, che non seminano se non dove son sicuri di mietere e che non parlano se non dove son certi d’essere ascoltati, apprezzati e applauditi, e che pertanto non parlano più del peccato, perché il Male, per essi, è solo di tipo materiale, economico, sociale, e non è più il Male dell’anima: ebbene, questi pastori infedeli hanno seminato lo scandalo fra le pecorelle e ne hanno spinte parecchie fuori dell’ovile. Noi conosciamo personalmente parecchie di codeste pecorelle, le quali, disgustate e nauseate dalle parole di questi falsi pastori, parole puramente umane, dettate da uno spirito luciferino di vanità, orgoglio e superbia intellettuale, si sono allontanate, con infinita tristezza, dall’ovile in cui erano state allevate, in cui avevano riposto ogni loro fiducia, e sole, abbandonate, sconsolate, vagano in un mondo crudele, infestato di belve affamate, secondo le parole di Pietro: il Diavolo, simile a un leone ruggente, si aggira in cerca di anime da divorare.
Ci piace riportare il commento di don Carlo De Ambrogio - nato ad Arsiero, in provincia di Vicenza, il 25 marzo 1921, e morto a Torino il 7 novembre 1979, scrittore, giornalista, musicologo, filosofo, teologo, sacerdote e pastore d’anime, sulle orme del santo curato d’Ars, e uno dei più grandi mariologi del XX secolo, nonché fondatore della Gioventù Ardente Mariana - al decimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni, interamente dedicato alla parabola del Buon Pastore e alla sua spiegazione da parte di Gesù stesso (in: Il Vangelo di San Giovanni, tradizione e commento dal greco di Carlo de Ambrogio, Torino, Centro Mariano Auxilium Christianorum, 1967, 145-147):

GESÙ È IL PASTORE; i Farisei non sono veri pastori. L’immagine è tratta dalla vita quotidiana: alla sera le pecore venivano raccolte in un recinto circondato da un muricciolo di pietra. Nel muro era praticata una porta; lì il pastore montava la guardia. Il vero e autentico pastore entra nel recinto attraverso la porta: l’apre, chiama le pecore per nome, le conosce una per una e le porta fuori. Poi cammina avanti a loro ed esse lo seguono, perché conoscono la sua voce. Il falso pastore non entra dalla porta, ma scavalca il muricciolo come un razziatore, e le pecore fuggono davanti all’estraneo perché non conoscono la sua voce. L’allusione di Gesù è chiarissima. “Ma quelli non capirono ciò che volesse dir loro”.
GESÙ È LA PORTA. Non c’è salvezza se non per mezzo di Gesù. Non c’è altra via per raggiungere la vita, all’infuori di lui. Solo lui può strappare dalla prigionia e portare alla libertà, condurre dalla morte alla vita: infatti è venuto “perché abbiamo la vita e l’abbiano in sovrabbondanza”. I Farisei cercano invece il loro tornaconto e perciò sono ladri e assassini. In quest’immagine della porta è formulata l’ idea della mediazione: per mezzo di Gesù, tramite lui. Solo attraverso Cristo gli uomini giungono al Padre.
GESÙ È IL BUON PASTORE. Il buon Pastore fronteggia il lupo che vuol sbranare il gregge e lotta contro di lui. Un assoldato invece si preoccupa della propria vita; quando il lupo si avvicina, pianta le pecore e fugge.
Gesù è il vero e buon Pastore, che conosce le sue pecore come esse conoscono lui. Dà la vita per il suo gregge, che non è formato solo dal popolo d’Israele, ma da tutta l’umanità.
Ecco un accenno alla sua prossima morte, che non lo coglie alla sprovvista non si abbatte improvvisa su di lui. Egli ha il potere di dare la propria vita e di riprendersela con la risurrezione. Col dono della vita prova il proprio amore per gli uomini e documenta il suo amore verso il Padre di cui adempie il mandato. La manifestazione di Gesù nella festa delle Tende è cominciata con un pensiero al Padre; poi, lungo tutto il discorso, si è avuto un continuo accenno al Padre; la conclusione tratta  della missione che Gesù ha ricevuto dal Padre e dell’amore del Padre.
L’EFFETTO È VARIO: alcuni sono convinti che Gesù sia posseduto dal demonio; altri, scossi dalla guarigione miracolosa del cieco nato, prendono posizione in suo favore. Gli animi sono divisi. […]
L’immagine del buon Pastore ha cinque caratteristiche:
LA CONOSCENZA. “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Alla chiamata di Gesù i suoi fedeli rispondono con una speciale sensibilità dell’anima: la docilità. Una simile conoscenza di Gesù, della voce di Gesù, si acquista con la preghiera.
LA GUIDA. Il buon Pastore “cammina innanzi a loro”. Gesù precede; il cristianesimo consiste nel mettersi al seguito di lui. Ha preceduto i suoi fedeli nell'incomprensione, nel dolore e nella solitudine, nell’angoscia, nel disinganno e nell’abbandono, nella morte e nel sepolcro. Ma li ha preceduti anche nella gloria e nella luce. Precede tutta la Chiesa come la colonna di nebbia e di fuoco che camminava dinanzi a Israele nel deserto.
LA DIFESA. Gesù parla del lupo che vuol sbranare il gregge: il pastore interviene a difendere. Chi non è vero pastore prende la fuga dinanzi al lupo, perché pensa al proprio interesse e non al gregge che gli è stato affidato. Il lupo da cui Gesù protegge è i lupo infernale , di fronte al quale l’uomo si torva in una condizione di inferiorità.
LA VITTIMA. “Il Pastore dà la sua propria vita per le sue pecore”. Gesù ha immolato per gli uomini la sua vita. San Paolo scrive con un’espressione intensa di riconoscenza: “MI ha amato e si è donato per ME”.
L’AMORE UNIVERSALE. Non si tratta solo di un piccolo gregge, di pochi prescelti. La chiamata di Gesù è rivolta a tutti, la salvezza è fondamentalmente aperta a tutti. Nelle parole di Gesù c’è una sfumatura di ansia: “E ho altre pecore, ma non sono di quest’ovile: anche quelle devo condurle; ascolteranno la mia voce e si farà un solo gregge e un solo pastore”. Si profila l’universalità del Regno di Dio. […]
Gesù prende lo spunto dagli ovili della Palestina. Diverse greggi vi passano la notte sotto la sorveglianza di un solo pastore. I ladri e i predoni della strada se vogliono razziare nell’ovile cercano di non segnalare la loro presenza; arrampicandosi sul muro penetrano nel recinto. Il pastore che viene al mattino a cercare le sue pecore per condurle a pascolare, si presenta alla porta. Appena il custode gli ha aperto, le pecore del suo gregge riconoscono la sua voce. Per farle uscire non ha che da chiamarle per nome: gli altri greggi non si muoveranno perché sanno che quello non è il loro pastore. Dalla porta passa il vero pastore: Gesù dichiara che è lui quella porta.  Coloro che pretendono di condurre le pecore in loro nome, senza passare per Gesù, non sono pastori, ma ladri e briganti. Appare chiaro che Gesù fa allusione ai falsi profeti: più d’uno si era fatto passare per il Messia e aveva suscitato delle sedizioni, come Teuda e Giuda il Galileo, citati negli Atti degli Apostoli. Un brano di Sant’Ignazio di Antiochia, che contiene certamente una reminiscenza di San Giovanni, dà questo commento: “Gesù è la porta che conduce al Padre e per la quale passano Abramo, Isacco e Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la Chiesa”. L’espressione “la porta delle pecore” va intesa come la porta dalla quale i veri pastori hanno accesso alle pecore e da cui le fanno passare a loro volta. Ai pastori che hanno fatto o faranno pascere il gregge di Cristo nel suo nome, si applicano le parole: Chi entrerà per me sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo”. C’è contrasto fra i “ladri” che sono venuti per appagare  se stessi a danno delle pecore, e Gesù, venuto per portare loro il dono della Vita”.

Come sarebbe bello se quei pastori superbi e infedeli si leggessero queste parole.
Sono parole severe: come dice lo stesso Gesù, chi non entra nell’ovile dalla porta, non è il vero pastore, ma è un ladro e un brigante. Parole che dovrebbero far rabbrividire qualcuno, se solo riflettesse sul loro intimo significato.
Forse capirebbero il loro errore; o forse no. Quando la superbia intellettuale penetra nei cuori, è difficilissimo estirparla, perché è difficilissimo riconoscerla. Gli altri la vedono, ma non chi ne è affetto. Il pastore insuperbito si è scordato di essere solamente un aiutante, un servo, anzi, un “servo inutile”, per adoperare le parole del Maestro: si è dimenticato che il segreto è farsi niente davanti a se stessi e davanti al mondo, affinché sia Lui, il Pastore vero, l’unico Pastore, ad agire attraverso di noi, a parlare con la nostra bocca, a pensare con i nostri pensieri. I pastori che si ricordano di questa verità, sono veri uomini di Dio: è impossibile trovarsi alla loro presenza e non percepire qualcosa di grande, di luminoso; senza intuire, attraverso di essi, la presenza ineffabile dell’unico, del solo Pastore, che ama infinitamente tutte le sue pecorelle.
Conosciamo personalmente alcuni di codesti falsi pastori, i quali, davanti alle perplessità e alle rimostranze di alcune delle loro pecorelle, hanno replicato che, se il loro modo di fare e di predicare non piace loro, esse sono libere di andare a cerarsi un altro pastore. Sciagurati! Non sanno che allontanare anche solo una delle pecore del gregge, è un peccato che grida al cospetto di Dio, del quale dovranno rendere conto? Ed essi non stanno allontanando le pecore per riguadagnarle a Dio; non le ammoniscono, per farle ravvedere: no, le allontanano perché non ricevono da esse le soddisfazioni che si attendevano, la gratitudine cui pensano d’aver diritto. Le allontanano per orgoglio e vanità: sono infastiditi dalla loro presenza, che mette in crisi le loro superbe certezze; e pensano che sia meglio avere un gregge “scremato” secondo i loro personali gusti in fatto di Vangelo. Il Vangelo che predicano, infatti, non è il Vangelo di Gesù Cristo: è il Vangelo di Caio o di Tizio; oh, per carità, brave persone, niente da dire, piene di zelo e di ottime intenzioni, però… si sono scordate della cosa essenziale. La cosa essenziale è l’amore, che si traduce nella fedeltà radicale, assoluta, umile e paziente, all’unico Vangelo esistente, all’unico Vangelo possibile: quello di Gesù Cristo, figlio di Dio. Tutto il resto, viene dal Diavolo.
Per questo le pecorelle non riconosco più la loro voce: perché parlano con voce umana, troppo umana. Parlano con parole che scaturiscono da pensieri umani, da intelligenze umane, da volontà umane. Non sono più parole trasparenti, che lasciano filtrare esclusivamente la luminosa parola del Pastore divino…

La loro voce non è quella del Pastore: per questo le pecorelle non la riconoscono

di Francesco Lamendola


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