Francesco: "Io posso dire: sì. Punto"
È così che il papa ha risposto alla domanda se è cambiato qualcosa rispetto alla disciplina precedente sulla comunione ai divorziati risposati. Un teologo domenicano spiega qual è questa novità. Ma come sarà messa in pratica?
di Sandro Magister
di Sandro Magister
ROMA, 16 maggio 2016 – A distanza di quasi due settimane, non una sola riga è ancora apparsa su "L'Osservatore Romano" riguardo al monumentale discorso pronunciato dal cardinale Gerhard L. Müller il 4 maggio a Oviedo per una retta interpretazione dell'esortazione postsinodale:
> Esercizi di lettura. La "Amoris laetitia" del cardinale Müller
Mentre viceversa quasi ogni giorno trovano inutile spazio sul giornale della Santa Sede i panegirici dell'uno o dall'altro cardinale o vescovo in lode del documento papale.
Eppure Müller è il prefetto della congregazione per la dottrina della fede. E in quel suo discorso non fa che esercitare al meglio il suo ruolo di "strutturazione teologica" del magistero di Francesco, cioè di "collaborazione attiva al ministero proprio del papa", a beneficio del "popolo di Dio" tutto.
Quello che segue è un altro intervento che si muove nella stessa linea di lettura, puntuale e costruttiva, della "Amoris laetitia", e in particolare di quella sua piccola nota a piè di pagina che ne è diventata la croce interpretativa.
È la nota 351, salutata dai progressisti come l'apriti Sesamo della comunione ai divorziati risposati, ma in realtà non così assertiva come essi pretendono.
La nota va in coda a questo passaggio del paragrafo 305 dell'esortazione:
"A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa".
E testualmente dice:
"In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, 'ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore' (Esort. ap. 'Evangelii gaudium' [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia 'non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli' (ibid., 47: 1039)".
Come va inteso questo punto chiave della "Amoris laetitia"? A rispondere a questa domanda, qui di seguito, è padre Thomas Michelet, dell'ordine di san Domenico, francese, studi teologici a Friburgo in Svizzera, docente alla pontificia università San Tommaso d'Aquino di Roma, nota come "Angelicum".
Questo suo commento è apparso inizialmente in francese su "Riposte Catholique":
> Thomas Michelet analyse la note 351 d'"Amoris laetitia"
Un elemento chiave dell'analisi di padre Michelet è il credito che egli dà alla risposta di papa Francesco – nella conferenza stampa sul volo di ritorno dall'isola di Lesbo – alla domanda se davvero ci sono ora nuove possibilità concrete che non esistevano prima, a sostegno dell'accesso ai sacramenti per i divorziati risposati.
Francesco rispose testuale, e Michelet lo fa notare: "Io posso dire: sì. Punto". E non importa che poco dopo, interpellato proprio sulla nota 351, il papa abbia anche detto: "Io non ricordo quella nota".
Perché il dato di fatto inoppugnabile resta: a giudizio di Francesco qualcosa di nuovo c'è. E quindi non si può più sostenere che continua a valere, immutato, quanto detto nella "Familiaris consortio" di Giovanni Paolo II, e basta.
Padre Michelet individua precisamente ciò che di nuovo avrebbe introdotto Francesco nella pastorale dei divorziati risposati, senza rompere esplicitamente con la dottrina di sempre sull'eucaristia e il matrimonio.
Ma come poi questo cammino – vagamente fatto intravedere dal papa – sarà compreso e messo in pratica nella Chiesa, è tutto da verificare. Gli inizi sono quelli di una Babele.
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"Amoris laetitia", nota 351
di Thomas Michelet O.P.
I commenti si moltiplicano, sempre più contrastanti, a proposito di una semplice nota dell'esortazione apostolica postsinodale "Amoris laetitia" sull'amore nella famiglia, l'ormai celebre nota 351.
Da una parte il vescovo Athanasius Schneider, il professor Robert Spaemann, il professor Roberto de Mattei e alcuni altri denunciano un cambiamento di disciplina contrario alla dottrina cattolica, che consisterebbe nell'accordare la comunione ai divorziati risposati; cosa che in effetti certi pastori imprudenti e mal consigliati dichiarano ormai possibile.
Ciò porterebbe dunque a dire che si può ricevere l'eucaristia in stato di peccato grave, oppure che il risposarsi dopo un divorzio non è un peccato grave, il che significherebbe quindi che il matrimonio non è un impegno esclusivo e indissolubile. La tappa successiva sarebbe di procedere a benedizioni delle seconde nozze civili, o anche a dei secondi matrimoni sacramentali.
Inutile dire che tutto ciò è perfettamente contrario all'insegnamento della Chiesa, fondato sulla Parola di Dio. Su questo non c'è questione.
Dall'altra parte il cardinale Müller, il cardinale Burke e la maggior parte dei vescovi affermano invece che il documento non ha cambiato in nulla la dottrina e la disciplina della Chiesa, quale esposta da papa Giovanni Paolo II nella "Familiaris consortio", n. 84.
È ciò che sostiene anche il cardinale Schönborn, incaricato della presentazione ufficiale del documento in sala stampa, al quale ha rinviato papa Francesco nella conferenza stampa al ritorno dall'isola di Lesbo.
Tuttavia, nella stessa occasione il papa ha risposto in maniera affermativa alla domanda se il documento cambiava concretamente qualcosa riguardo all'accesso alla comunione dei divorziati risposati: "Io posso dire: sì. Punto". È quindi difficile sostenere il contrario e tener fermo che niente è cambiato, contro il papa stesso.
In realtà, entrambe le posizioni sono vere. Da una parte il documento non ha cambiato la dottrina e la disciplina in ciò che ha di fondato sulla Parola di Dio, poiché non poteva farlo. Non serve a niente affermare che l'ha fatto, poiché non ne aveva il potere.
D'altra parte, qualcosa è pur cambiato, ma solo in ciò che poteva esserlo, senza toccare la dottrina e la disciplina che ne consegue. Come minimo si tratta di un cambiamento pastorale, nell'accoglienza e nell'accompagnamento a lungo termine. Ma c'è di più, a detta del papa.
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La nota 351 fa seguito al numero 305 della "Amoris laetitia", che ricorda che in una situazione oggettiva di peccato è possibile non essere soggettivamente colpevoli.
È una dottrina ben stabilita, perché per fare un peccato mortale non basta una materia grave; ci vogliono anche una piena consapevolezza e un deliberato consenso (Catechismo della Chiesa cattolica 1415).
I confessori sanno bene che un penitente può non confessare un atto oggettivamente grave perché non ha idea che sia un peccato. Ora, non si può trasformare un "peccato materiale" in un "peccato formale". Se questo è il caso (ma bisogna accertarsene), il penitente può allora ricevere validamente l'assoluzione.
Ma il confessore ha al tempo stesso il dovere di rischiarare la coscienza deformata, al fine di riformarla; la cosa può prendere del tempo e richiede dunque un accompagnamento spirituale adeguato. Non basta ricordare la legge dall'esterno: occorre anche che la persona la comprenda e l'accolga veramente dall'interno. Il documento non dice niente di diverso.
Questo caso è già ben stabilito nella dottrina e nella pratica della Chiesa, anche se fa parte di quella "scienza del confessionale" che i fedeli si immagina non conoscano, poiché presuppone una buona formazione di teologia morale e una buona pratica del confessionale. La novità del documento è soprattutto qui: nel fatto di presentare in piena luce una pratica che prima restava nell'ombra, nel segreto del confessionale. Non perché essa fosse vergognosa, ma perché suppone delle chiavi di comprensione che molti non hanno e non possono avere.
Allora oggi questa pratica perfettamente legittima e fondata dottrinalmente si estende anche ai divorziati risposati? La nota 351 non lo dice espressamente. Ma neppure lo esclude.
Ora, se lo escludesse, ciò non cambierebbe in nulla la pratica attuale, quale esposta dalla "Familiaris consortio". Ma se uno afferra ciò che dice il papa, che cioè qualcosa che non esisteva prima è ora possibile, è allora lì che bisogna andare.
In un punto, il regime della "Familiaris consortio" è effettivamente cambiato. Non nel senso che dei peccatori coscienti del loro peccato grave vanno a ricevere la comunione: questo non è possibile e non lo sarà mai. Ma nel senso che delle persone che non sanno di essere nel peccato possono ricevere "l'aiuto dei sacramenti" fino a che prendono coscienza di questo peccato nell'accompagnamento spirituale. Esse cesseranno allora di riceverli, finché non avranno cambiato il loro stato di vita per conformarsi pienamente alle esigenze del Vangelo, secondo la "Familiaris consortio". Non si tratta di fare per loro un'eccezione; ma piuttosto di applicare a loro il regime generale già stabilito per tutti gli altri casi.
La "Familiaris consortio" stabiliva che non era possibile dare la comunione ai divorziati risposati, poiché si stimava che una tale ignoranza fosse impossibile nella loro situazione. In effetti, così come non si fa peccato senza saperlo né volerlo, allo stesso modo non c'è matrimonio senza che lo si sappia e lo si voglia. E quindi, o ogni attentato alla fedeltà del matrimonio era necessariamente colpevole, oppure, se la persona davvero aveva agito inconsapevolmente, ciò significava a colpo sicuro che il suo matrimonio sacramentale era nullo "ab initio", che non era mai esistito, mancando un vero consenso a ciò che è il matrimonio.
Ora, i progressi della psicologia e nello stesso tempo i "progressi" di una società confusa e senza punti di riferimento fanno sì che sempre più persone ignorino ciò che una volta era evidente per tutti. Con l'effetto che ciò che valeva per tutte le altre categorie di peccati lo diventa anche per i divorziati risposati. Non si può non constatare che questo accade. Anche se le condizioni sono estremamente strette, i casi sono sempre più numerosi, in proporzione con l'allontanamento dalla Chiesa.
Pur distinguendo le situazioni, Giovanni Paolo II aveva mantenuto la regola, per un motivo pastorale e dunque per una scelta prudenziale, al fine di evitare lo scandalo. Non è dunque contrario alla dottrina e alla legge divina che papa Francesco faccia un'altra scelta prudenziale, tenendo conto di queste possibilità di distorsione della coscienza, pur tenendo ferma la regola di evitare lo scandalo (AL 299).
Non è che si permetta ai peccatori di "arrangiarsi con la loro coscienza"; è che bisogna ormai partire da molto più lontano per poter riconciliare un peccatore con la Chiesa. Perché le coscienze sono sempre più deformate, e bisogna dunque anzitutto riformarle per permettere loro di avanzare su un cammino di perfezione.
Ma il papa è chiaro sul fatto che tutti sono chiamati alla conversione: "conversione missionaria" per i pastori; conversione alle esigenze del Vangelo per i peccatori. Semplicemente, questa conversione non può essere presentata come un preliminare e un ostacolo insormontabile; essa deve essere la meta mirata, verso la quale dirigersi risolutamente, anche se per questo ci vogliono tempo e tappe. Dio ha sempre fatto così con il suo popolo.
Quello che è sicuro è che questo documento è incomprensibile nel quadro di una "morale della legge" che è quella di Kant o dei giansenisti. Ma è perfettamente ricevibile nel quadro di una "morale della virtù" che è quella di san Tommaso d'Aquino, "doctor communis".
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A questa nota di padre Michelet ha reagito, sempre su "Riposte Catholique", il teologo Claude Barthe:
> "Amoris laetitia": l'abbé Barthe répond au Père Michelet
E questa è la controreplica:
> "Amoris laetitia": le RP Michelet répond à l'abbé Barthe
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351299
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