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mercoledì 25 maggio 2016

Una Chiesa laicizzata e secolarizzata

CHIESA E DOTTRINA SOCIALE

 A proposito della dottrina sociale della Chiesa e del rapporto dei cristiani con la società. Gesù Cristo ebbe mai una sua dottrina sociale? Le due anime sociali della Chiesa: quella modernizzatrice e quella conservatrice 
di Francesco Lamendola  



 Vi sono delle idee che appartengono al nostro bagaglio mentale e culturale, perché sono state messe lì una volta, da qualcuno, e poi le abbiamo sentite ripetere dieci, cento, mille altre volte, per cui siamo cresciuti insieme ad esse, ci siamo familiarizzati con esse e non ci siamo mai sognati di sottoporle a verifica, di domandarci se la loro presenza nel nostro orizzonte concettuale sia legittima, se sia perfettamente logica e naturale, insomma se esse abbiano davvero diritto di cittadinanza nel nostro modo di pensare e di sentire.
Una di queste idee è la dottrina sociale della Chiesa; un’altra, il logico presupposto di essa, ossia che essere cristiani non significa mortificare la natura, ma esaltarla: e, di conseguenza, partecipare in pienezza alla vita del mondo, anche e soprattutto nella dimensione relazionale e sociale; e ciò, proprio per non cadere in quella separazione dell’uomo interiore dall’uomo esteriore, che è stata la grande eresia di Lutero e la grande umiliazione che l’idea protestante ha inflitto alla fiducia rinascimentale, e anche cattolica, dell’uomo in se stesso, sospingendolo indietro non di secoli, ma di millenni: per la precisione, fino all’Antico Testamento.

Ci siamo mai domandati se sia logico, se sia naturale, se sia legittimo, che la Chiesa elabori e proponga ai fedeli, come parte integrante della concezione cristiana della vita, una sua dottrina sociale? Di fatto, la Chiesa non ha mai avuto una propria dottrina sociale fin verso la fine del XIX secolo: fino a tutto il pontificato di Pio IX, la Chiesa si era guardata bene dal proporre una propria soluzione ai problemi posti dallo sviluppo dell’economia; solo sotto l’incalzare degli effetti della Rivoluzione industriale, e anche, bisogna pur dirlo, davanti al “pericolo” di vedersi sottrarre l’influenza sulle masse lavoratrici a favore della nuova ideologia socialista, solo allora la Chiesa si precipitò a recuperare il tempo perduto ed elaborò, in fretta e furia, una sua dottrina sociale: quella che è stata esposta nellaRerum novarum di Leone XIII, del 1891.
Fu un bene, fu un male? Certo il nuovo orientamento della Chiesa creò un precedente, dal quale essa non avrebbe più potuto tornare indietro, neanche se lo avesse voluto. Eppure, che in tutto ciò fosse insito un pericolo, lo vide con chiarezza Pio X, se è vero che nel 1904 egli si affrettò a sciogliere l’Opera dei Congressi, nata trent’anni prima, nel 1874, davanti alla drammatica lacerazione fra “novatori” e “conservatori”. Al suo posto, vennero create tre nuove organizzazioni, direttamente legate alla gerarchia cattolica: l’Unione popolare, l’Unione economica e sociale dei cattolici italiani, l’Unione elettorale cattolica. Ma ormai il danno, se così vogliamo chiamarlo, era fatto: a partire da quel momento, la Chiesa si sarebbe trascinata dietro, per sempre (e fino ai nostri giorni), il contrasto latente o esplicito frale sue due anime sociali, quella modernizzatrice e quella conservatrice: cosa che fu una diretta conseguenza dell’aver voluto prendere una esplicita posizione sul terreno della dottrina e dell’azione sociale ed economica.
Ora, la domanda che ci poniamo non è se i cristiani, se i cattolici, se gli esponenti della cultura religiosa, come il professor Giuseppe Toniolo, avessero o non avessero il diritto, e forse perfino il dovere, di pronunciarsi su tali questioni, specie considerando la gravità e l’urgenza dei problemi sollevati dalla Rivoluzione industriale e dall’insorgere della cosiddetta questione operaia: cioè l’inurbamento, la disoccupazione, l’emigrazione, il pauperismo, lo sfruttamento del lavoro di donne e bambini, eccetera; perché è chiaro che l’avevano. Quel che ci domandiamo, ma che mai ci è stato spiegato o giustificato, è se sia cosa saggia, prudente, e, soprattutto, rispettosa del messaggio di Gesù, il fatto che la Chiesa, ad un certo punto della sua storia, dopo milleottocento anni di silenzio, abbia deciso di formulare in prima persona una dottrina sociale, qualificandola, specificamente, di “cattolica”, quasi che altre concezioni e altre proposte siamo da ritenersi, da allora, come illegittime dal punto di vista cattolico, o dotate di minor dignità e minor fondamento evangelico.
Possiamo affrontare la questione anche da un’altra angolatura e domandarci, semplicemente: Gesù Cristo ebbe mai una sua dottrina sociale? E, se sì, la formulò apertamente? La insegnò ai suoi discepoli, e la trasmise come parte integrante, o, quanto meno, come naturale conseguenza del suo insegnamento religioso e morale? La risposta a tali domande, per quel che ne sappiamo e per quel che riportano i Vangeli e gli altri testi del Nuovo Testamento, è del tutto negativa: no, Gesù non ebbe una sua dottrina sociale, o, se la ebbe, non la rese pubblica; soprattutto, non pensò affatto ad imporla come parte integrante della sua dottrina religiosa e morale. Gesù chiedeva la conversione del cuore, il ritorno all’amore di Dio e del prossimo, le beatitudini, il perdono, l’umiltà e la semplicità interiore, contro la superbia, la malizia e l’arroganza del legalismo farisaico; l’adesione al suo Vangelo portava e porta con sé, necessariamente, l’adozione di un certo stile di vita, la mitezza, la benevolenza, la carità, la sollecitudine per le cose di Dio e per il prossino bisognoso. In nessun modo, però, Egli è venuto a bandire una particolare idea sociale, a esporre una specifica modalità delle relazioni umane, oltre a quella insita nella legge dell’amore. Se preferiva la compagnia degli ultimi, non necessariamente in senso sociale (i pubblicani, ad esempio, dei quali accettava sovente l’invito, erano tutt’altro che dei poveri), non lo faceva perché “preferisse” i poveri in senso economico-sociale, ma perché, come Lui stesso affermava, sono i malati ad avere bisogno del medico, e i peccatori, della conversione. Sulla questione veramente cruciale del suo tempo, quella nazionale giudaica, egli non volle mai dire una sola parola: si limitò a dichiarare che si doveva rendere a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio. Raccomandò la giustizia e la giusta paga all’operaio, ma non predicò, a quel che sappiamo, alcuna riforma agraria, alcuna redistribuzione delle ricchezze.  Non era questo il punto che lo interessava; e, per essere ben certo di non venire frainteso, dichiarò a chiare lettere, fino all’ultimo, cioè davanti al tribunale di Ponzio Pilato, che il Suo regno non è di questo mondo. Disse anzi che il mondo è sotto il dominio del Signore delle Tenebre, e che non si possono servire due padroni: Dio e il mondo.
Eppure, a partire dagli ultimi anni del XIX secolo, e poi, via via, con la Quadragesimo anno di Pio IX (1931); la Mater et magistra e laPacem in terris di Giovanni XXIII, del 1961 e del 1963; con la Populorum progressio e la Octogesima adveniens, del 1967 e del 1971; con la Laborem exercens, la Sollicitudo rei socialis e la Centesimus annus di Giovanni Paolo II, rispettivamente del 1981, 1987 e 1991; infine con la Caritas in veritate di Benedetto XVI del 2009, alle quali si può aggiungere la Laudato si di papa Francesco del 2015, la Chiesa cattolica, per bocca di questi diversi pontefici, ha imboccato sempre più decisamente la strada della puntuale definizione teorica dell’impegno sociale dei cristiani. E lo ha fatto con una decisione ancor maggiore di quanto non abbia fatto nello stesso ambito teologico: perché, mentre il tomismo è stato, almeno fino a ieri, la linea teologica preferenziale del Magistero ecclesiastico, senza però mai divenire la sola interpretazione possibile della teologia cattolica, la dottrina sociale della Chiesa, così come è stata impostata dallaRerum novarum e sviluppata dalle successive encicliche sociali, si pone, effettivamente, come la “giusta” interpretazione del fatto sociale in senso cattolico, e, come tale, avente valore normativo, quanto meno al livello della concezione complessiva del cattolicesimo nei confronti della società. Per usare la parole di Giovanni XXIII (nella Mater et magistra), l’azione sociale cattolica si prefigge l’obiettivo di trovare e di percorrere le vie sicure per ricomporre i rapporti della convivenza secondo  criteri universali, rispondenti alla natura e agli ambiti diversi dell’ordine temporale e ai caratteri  della società contemporanea, “vie sicure” che il magistero, appunto, in virtù dell’ispirazione divina, è in grado di indicare agli uomini. Come dire che un buon cattolico è tenuto ad attenersi alle linee maestre della dottrina sociale della Chiesa, per tutto quel che riguarda l’ambito sociale. Ora, ci permettiamo sommessamente una domanda: è un compito della Chiesa, questo? Non sarebbe stato più saggio, più giusto e naturale, lasciare che gli esponenti del pensiero cattolico si pronunciassero in materia, senza vincolare il Magistero in quanto tale, senza impegnarlo in prima persona nella definizione degli orientamenti sociali cattolici?
Una classica impostazione della dottrina sociale della Chiesa è quella svolta da Santo Quadri, nella monografia Impegno cristiano a servizio dell'uomo (Roma, Editrice A.V.E., 1985, pp. 73; 77-78):

Il fine generale dell'azione sociale cristiana viene così indicato da Giovanni XXIII nella “Mater et magistra” e “Pacem in terris”: a) "ricomporre i rapporti della convivenza secondo criteri universali, rispondenti alla natura e agli ambiti diversi dell'ordine temporale..."; b), "ricomporre i rapporti della convivenza nella verità,  nella giustizia, nell'amore, nella libertà". La “Gaudium et spes”, con altre parole, esprime gli stessi pensieri. [...]
Il rispetto dei contenuti propri, e quindi il dovere della competenza dev'essere norma fondamentale di ogni azione, assieme a una correttezza morale ineccepibile. Parlando dei fini abbiamo ricordato anche la necessità che l'azione sia svolta in un quadro completo e ordinato di valori. Il cristiano deve rispettare più degli altri queste esigenze. Ma non basta: egli è chiamato  a fare tutto come espressione di carità, cioè dell'amore soprannaturale al Padre celeste e ai fratelli. Vediamo brevemente cosa significa.
Amore significa anzitutto agire per impulso proprio, non per sole esigenze esterne. L'amore al padre e al Cristo diventa la radice profonda di un vero amore al prossimo, anche ingiusto e peccatore, considerato come attuale o potenziale figlio adottivo di Dio, oltre che sua creatura, e quindi come suo fratello.
Quest'amore è una forza che sorpassa a dismisura la forza dell'odio; è capace d'iniziare il dialogo e di condurre azioni energiche, non confondendo forza e fermezza con odio e maleducazione.  Soprattutto ha il coraggio d'innovare e riformare persone e situazioni.
Tale capacità di rinnovamento è sentita come esigenza di un amore sincero al Padre che, essendo giustizia e perfezione infinite, comanda, anche nella vita terrena, di progredire nell'amore verso la giustizia. La passione per l'economia, il diritto, la vita sociale, le conquiste e il progresso viene assunta dal cristiano ed elevata nell'amore del Padre e del prossimo.
Essere cristiano non significa mortificare, ma esaltare la natura. Amare il Padre e i fratelli non significa perdere il mordente d'ordine temporale, ma accettarne uno nuovo che perfeziona quello naturale e ha in sé una forza maggiore.
L'azione sociale deve aver paura dei cristiani falsi o incompetenti, non dei veri cristiani. Il mondo, anche per i suoi interessi terreni, ha tutto da guadagnare dalla presenza operante di autentici cristiani.

Fra le altre cose, da questa impostazione ottimistica e quasi trionfalistica dell’impegno sociale dei cattolici in quanto cattolici (e non in quanto cittadini che sono anche dei credenti) deriva, in modo esplicito, l’affermazione che il cristiano è chiamato non a “mortificare”, ma ad esaltare la “natura”: laddove, per natura, si intende la “passione” umana verso l’economia, il diritto, la vita sociale e le conquiste del progresso. Ora, non vi è il minimo dubbio che l’impegno sociale della Chiesa nasca da motivazioni nobili e si inserisca naturalmente in una prospettiva di vita che ha nel Vangelo il suo centro propulsore e nella speranza cristiana il suo motivo dominante. Non ne consegue, però, che la Chiesa dovesse assumere su di sé, in prima persona, un tale impegno: perché è chiaro che, quanto più essa vi prodiga le sue energie, tanto più viene risucchiata, per così dire, nelle logiche e nelle pratiche del “mondo”, cosa che inevitabilmente la allontana dalla sua essenziale missione spirituale. I cattolici impegnati e progressisti sussulteranno davanti a una simile affermazione e replicheranno che no, che il loro impegno sociale non li allontana affatto dalla spiritualità e dall’amor di Dio, anzi, che questo si esprime pienamente in esso. Ma è proprio così? Come la Chiesa medievale, preoccupata di tutelare la sua indipendenza spirituale, finì per invischiarsi nelle contraddizioni insanabili del potere temporale, così la Chiesa moderna, tutta presa dal nobile intento di portare avanti un suo progetto sociale, finisce per farsi assorbire e catturare nelle contraddizioni dell’azione sociale, e da questa, in maniera naturale e pressoché inevitabile, nell’azione politica. Ma la Chiesa, in tal modo, si mondanizza, cioè si laicizza e si secolarizza. E una Chiesa laicizzata e secolarizzata è ancora credibile, autorevole ed efficace, nel perseguire la sua fondamentale missione spirituale?


A proposito della dottrina sociale della Chiesa e del rapporto dei cristiani con la società

di Francesco Lamendola

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