Il problema, prima ancora che giuridico, è di carattere teologico. Di certo ci si trova di fronte ad una novità assoluta, per cui non esistono facili criteri di lettura. Ad onor del vero la questione era già emersa in tutta la sua portata al momento della rinuncia di Benedetto XVI nel febbraio 2013, con un dibattito che fece intervenire diversi studiosi.
«Che la rinuncia di papa Benedetto XVI sia legittima», dice alla Nuova BQ il teologo barnabita Padre Giovanni Scalese, «direi che è fuori di ogni dubbio. La possibilità di rinuncia è prevista dal can. 332 § 2. Le uniche condizioni previste per la validità della rinuncia sono la sua piena libertà e la sua debita manifestazione. Per quanto riguarda, invece, il titolo di “papa emerito”, di cui parla chiaramente Mons. Gänswein, anche in questo caso direi che si potrebbero trovare delle ragioni per cui nulla osta. Però si dovrebbe chiaramente indicare che il “papa emerito” non è più Papa».
A questo proposito anche un altro canonista contattato dalla Bussola, sostiene che in sé si potrebbero trovare ragioni per il titolo di “papa emerito”, purché si sottolinei, appunto, che non ci sono due papi. «Sono d'accordo - dice Scalese - si dovrebbe dire che non ci sono due Papi, come non ci sono due Vescovi in una diocesi, quando uno va in pensione. Non ci sono due Papi: il Papa è uno solo; l'altro è "emerito", cioè è stato Papa, ma non lo è più. Che poi continui a pregare e a far penitenza per la Chiesa, mi sembra non solo possibile, ma doveroso: lo fa, penso, qualsiasi Vescovo emerito per la propria diocesi; così come lo fa qualsiasi religioso in pensione nei confronti del proprio istituto (i gesuiti, ad esempio, nel loro annuario, accanto al nome dei religiosi quiescenti scrivono: "Prega per la Compagnia")».
Rimane però la questione di cui accennavamo all'inizio. Non ci sono due papi, ma, secondo Ganswein, c'è un “ministero [petrino] allargato”. Quindi?
«Le espressioni usate da Mons. Gänswein mi sembrano sinceramente eccessive. Parlare di una "dimensione collegiale e sinodale" del munus petrinum; parlare di un "ministero in comune" o di un "ministero allargato" con un membro attivo e uno contemplativo, mi sembra davvero troppo. Non so se ci si renda conto della portata di certe affermazioni: non mi meraviglia che poi qualcuno possa giungere a conclusioni estreme. Così come mi sembra del tutto fuori luogo parlare di "una nuova tappa nella storia del papato" o affermare che “con un atto di straordinaria audacia [Benedetto XVI] ha rinnovato quest'ufficio ... e con un ultimo sforzo lo ha potenziato”. Che la rinuncia al supremo pontificato sia una eventualità prevista dall'ordinamento canonico, d'accordo; ma fare di essa un rinnovamento e un potenziamento del ministero petrino, mi sembra semplicemente una sciocchezza. Anche la citazione di Scoto, «Decuit, potuit, fecit», mi sembra fuori luogo: non c'è dubbio che poteva farlo (e lo ha fatto); ma che fosse conveniente, si potrebbe discuterne a lungo».
In effetti da tempo che alcuni teologi stanno tentando di trovare una giustificazione ad un duplice modo di esercizio del munus petrino: uno sarebbe esclusivamente spirituale e l'altro, invece, amministrativo-esecutivo. Per cui Ratzinger avrebbe rinunciato al secondo modo, rimanendo, invece, partecipe del “munus” per quanto riguarda il primo. Ma, secondo altri, ciò non risolve il problema, anzi, semmai lo aggrava. Infatti, sono molte le domande che vengono a galla. Dopo l'abdicazione, il Papa che lascia rimane in qualche modo Papa? Se il Papa è colui che governa la Chiesa, come può rimanere tale rinunciando al governo? Da cosa è dato, allora, il carattere pontificale, cioè: perchè è ancora Papa dopo l'abdicazione?
A questo proposito nei sacri palazzi non mancano coloro che criticano le parole di Mons. Gänswein. Parole che aprono fronti molto caldi, e per cui sarebbe auspicabile arrivasse un qualche chiarimento. Perchè, dicono i critici, il ministero petrino è uno, il Papa è uno. E Benedetto XVI non è Papa, perchè non esiste un munus petrino che possa essere in qualche modo allargato.
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