Ci siamo finalmente!
Il matrimonio religioso, il Sacramento della Chiesa Cattolica, quello che rende – o meglio: quello che rendeva - il vincolo coniugale santo ed indissolubile davanti a Dio e agli uomini, è stato annullato, con editto “estempore” o più correntemente, “a braccio”, dal regnante Papa che, debellata la dottrina millenaria quale ciarpame ingombrante ed inutile, stabilisce, in termini di prassi, essere preferibile una convivenza in cui sia praticata una laica ed umana reciproca fedeltà, piuttosto che un matrimonio religioso celebrato da sposi privi della consapevolezza di compiere un atto sacro.
Leggete: “Spesso ci si sposa per fatto sociale, pensando alle bomboniere, al pranzo, al vestito della sposa… A Buenos Aires io ho proibito di fare matrimoni religiosi nei casi che noi chiamiamo matrimonios de apuro, cioè ‘di fretta’, quando è in arrivo il bambino. Ho proibito di farli perché non sono liberi. Forse si amano. E ho visto dei casi belli, in cui poi, dopo due-tre anni, si sono sposati, e li ho visti entrare in chiesa papà, mamma e bambino per mano. Ma sapevano bene quello che facevano” (Corriere della Sera on line 18/6/2016 – Convegno annuale della Diocesi di Roma).
Tradotto: meglio vivere in peccato che nello stato di grazia ingenua, cioè quello stato di candore, quello stato di ignoranza teologica che ha caratterizzato, ad esempio, i miei rurali genitori i quali, al momento di proferire il ‘sì’, con l’aggiunta delle promesse reciproche, non conoscevano codici, canoni, scolii e commi, non sapevano di essere essi stessi i ministri del Sacramento, che insomma non erano “cristiani adulti” con all’attivo un’esperienza di convivenza prematrimoniale, ma che nella loro semplice fede tipica dei “poveri di spirito”, pur “non sapendo quello che facevano” come osserva il Papa, seppero egualmente assumersi responsabilità ed oneri, allevando una folta nidiata di figli e sopportando, nella semplice fedeltà, traversìe e sventure, superando incomprensioni, assaporando amarezze e rimettendo intera fiducia nel Signore.
Meglio, invece, contrarre esperienze prematrimoniali col corredo di un concepimento ché questo, sì, dà consapevolezza e maturità. “Non dite subito: Perché non ti sposi in chiesa? No. Accompagnarli, aspettare e far maturare. E fare maturare la fedeltà”. Ecco il mantra della pastorale del cammino, della sfida, da cui discende essere quanto mai pedagogico, istruttivo e degno di ammirazione vivere lo stato del concubinaggio con l’aggravante di un figlio a cui non è stato amministrato il Sacramento del Battesimo.
Una vera e proditoria rottamazione della dottrina della Chiesa fatta passare per logica e buon senso e, soprattutto, per atto di misericordia. “Pecca fortiter sed ama fortius” – pecca fortemente ma ama più fortemente - variante del luterano “Pecca fortiter sed crede fortius” che, stante l’empatìa ecumenistica reciproca tra Papa Bergoglio e gli scismatici eretici luterani, è di facile accostamento.
Qualcuno, come l’ingenuo Renato Farina (Il Giornale, 20 giugno 2016) scrive che il Papa, nel predicare un matrimonio consapevole e convinto, non invita di certo alla convivenza. Ma allora, come deve interpretarsi l’estemporanea tirata con cui conclude la sua allocuzione? : “Ho visto tanta fedeltà in queste convivenze e sono sicuro (!) che questo è un matrimonio, hanno la grazia del matrimonio, proprio per la fedeltà che hanno”. Se non è invito alla convivenza questo, ci dica l’ingenuo Farina che cosa sia. Se la fedeltà è il fondamento primario della convivenza, a che pro’ la Chiesa ha posto il matrimonio santificato e ratificato sotto il segno del Sacramento e rendendolo indissolubile in terra tale da farne peccato il suo indebito scioglimento?
Secondo Papa Bergoglio una convivenza, cioè il concubinaggio, se vissuto nella pratica di una fedeltà meramente laica, brilla della grazia di Dio. Ora, che dal peccato possa sgorgare il merito, possa darsi esemplarità pedagogica è dottrina che non può ritenersi solo eretica quanto demenziale. Non è lo stesso Pontefice che ci ha rivelato esistere “nelle coppie omosessuali elementi positivi ed affettivi” scorgendo anche in questa immondizia morale, la sodomia, una sfida alla capacità pastorale della Chiesa?
Il Papa, venuto dalla fine del mondo, sta, con l’applicazione del metodo evoluzionistico darwiniano al dogma, portando il gregge di Cristo all’estinzione della fede tramutando l’intero ‘corpus’ della dottrina in un dispositivo di relativistico contenuto – la teorìa della situazione - altamente gradito dal mondo che, secondo le previsioni augurali del dannato massone/carbonaro Nubius, ha finalmente trovato nella Chiesa chi fa il lavoro di Satana. Il verme nella polpa del frutto.
Ora, arriva il Pastore della Chiesa cattolica che predica, a lume di buon senso, come essendo la convivenza “un fatto ordinario”, un mozartiano “così fan tutti/e”, essa si configura come un dato di fatto di cui accettare la presenza. “Un’altra mia esperienza a Buenos Aires: i parroci nei corsi di preparazione al matrimonio la prima domanda che facevano era “Quanti siete conviventi?”. La maggioranza alzava la mano. Preferiscono convivere, e questa è una sfida, chiede lavoro”.
Ecco che ritorna ‘la sfida’, uno dei tanti termini del vocabolario bergogliano che tende, subdolamente, a mascherare un accomodamento col mondo, un termine che ha prodotto, nello scenario della Chiesa, un’inversione dei ruoli tale che se prima era Cristo a lanciare la sola, ineludibile ed onnicomprensiva sfida - “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc. 9, 23) – ora è la pastorale (!) di Jorge Mario Bergoglio, in arte Papa Francesco I, che concede al mondo diritto e facoltà di lanciare le sue sfide a una Chiesa ridottasi alla difensiva, in condizione di questuante. Eppure, a dar retta a Matteo (4, 1/11), non pare che Gesù abbia accettato le sfide di Satana, che con spirito amichevole le abbia discusse, che ne abbia approvato il dato in sé. A leggere Matteo – e dubitiamo che il Papa lo legga – è Gesù che tronca l’approccio suadente di Satana congedandolo con un perentorio: “Vattene, Satana”, indicando e chiarendo che con il male non si entra in dialogo.
Non diversamente il Signore insegna, per bocca del profeta, a fuggire il male, ad evitarlo, a non entrarci in contesa, ché Satana, in quanto spirito “loico” (Inf. XXVII, 123), non trova difficoltà alcuna a prevalere su una debole intelligenza umana.
“Chi di noi può rimanere presso un fuoco divoratore? Chi di noi può restare presso un braciere continuo? Chi cammina santamente e parla con giustizia, chi respinge un guadagno avuto con la violenza, chi scuote la sua mano per non trattenere il dono mirante a corrompere, chi si tura gli orecchi per non sentire propositi di sangue e chiude gli occhi per non vedere il male…” (Is. 33, 14/16).
Eppure, nonostante siffatti ammonimenti, oggi il pastore della Chiesa, su sollecitazione del Concilio Vat. II, invita ad entrare in dialogo, ad accettare la sfida col mondo, con quel male che tale si manifesta, ad esempio, nella convivenza prematrimoniale.
Ma è naturale perché il Papa, che non si considera ‘Vicarius Christi’ ma solo ‘Vescovo di Roma’, disdegna di seguire la metodologìa del Figlio di Dio e la verità del profeta, per affermare una pastorale meramente umana che, a dirla chiara e fuori dai denti e nello stile del parlar Si Si No No, altro non è che paura, viltà, codardìa, servilismo, tiepidezza che si concludono nel tradimento, nell’eresìa e nell’apostasìa.
Nel commentare questa ennesima uscita papale emessa a bassa quota, il nostro intendimento non era tanto fornire l’informazione in sé quanto metter in evidenza le silenziose, impalpabili ma velenose conseguenze di ordine teologico-morale che ne scaturiscono.
Prima di darne conto, è bene rammentare la nozione di matrimonio che così viene definita: “Il Matrimonio è il Sacramento in cui l’uomo e la donna si uniscono in una comunità di vita allo scopo di propagare la specie umana e ricevono da Dio la grazia per adempiere bene i doveri del proprio stato” (Bernardo Bartman: Teologia Dogmatica, pag. 1512 – Ed. Paoline 1950).
Dalla precedente definizione ne deriva che:
Ora, avendo il Papa affermato che, di sicuro, una convivenza vissuta nella fedeltà reciproca – una fedeltà laica, diciamo noi – è un vero matrimonio illuminato dalla grazia di stato, fa capire, e non troppo velatamente, che:
Aggiungiamo un’altra considerazione. Dice il Papa che, se non c’è nei nubendi consapevolezza e maturità di ciò che si va a celebrare, non si deve amministrare il sacramento. Siffatto criterio, che non ci vietiamo di accettare come sacrosanto applicato alla fattispecie del matrimonio, potrebbe portare, se non limitato a questo solo àmbito, ad altre drastiche conseguenze, una delle quali sarebbe la sospensione del battesimo ai neonati i quali non sono, ovviamente, in grado di capire il prodigio che ricevono, così come i fanciulli che si accostano alla prima Comunione o alla Cresima.
Che facciamo, Santità: tutto a maturità conseguita?
Se non è eversione questa miseria, chiediamo ai lettori, e soprattutto ai pastori della Chiesa, che inerti e in pavido silenzio consentono il diffondersi di un relativismo, di dirci che cosa sia. Ma non è difficile scorgere in questa ulteriore picconata alla mole della Chiesa, il tentativo di sgretolamento portato avanti con passetti, gradualmente, via via allacciando e impastando verità con eresìe con il mastice di una mielosa e ambigua formalità linguistica improntata al “buon senso”. Solo che questo buon senso è di marca umana e non divina.
Exsurge Domine!
Il matrimonio religioso, il Sacramento della Chiesa Cattolica, quello che rende – o meglio: quello che rendeva - il vincolo coniugale santo ed indissolubile davanti a Dio e agli uomini, è stato annullato, con editto “estempore” o più correntemente, “a braccio”, dal regnante Papa che, debellata la dottrina millenaria quale ciarpame ingombrante ed inutile, stabilisce, in termini di prassi, essere preferibile una convivenza in cui sia praticata una laica ed umana reciproca fedeltà, piuttosto che un matrimonio religioso celebrato da sposi privi della consapevolezza di compiere un atto sacro.
Leggete: “Spesso ci si sposa per fatto sociale, pensando alle bomboniere, al pranzo, al vestito della sposa… A Buenos Aires io ho proibito di fare matrimoni religiosi nei casi che noi chiamiamo matrimonios de apuro, cioè ‘di fretta’, quando è in arrivo il bambino. Ho proibito di farli perché non sono liberi. Forse si amano. E ho visto dei casi belli, in cui poi, dopo due-tre anni, si sono sposati, e li ho visti entrare in chiesa papà, mamma e bambino per mano. Ma sapevano bene quello che facevano” (Corriere della Sera on line 18/6/2016 – Convegno annuale della Diocesi di Roma).
Tradotto: meglio vivere in peccato che nello stato di grazia ingenua, cioè quello stato di candore, quello stato di ignoranza teologica che ha caratterizzato, ad esempio, i miei rurali genitori i quali, al momento di proferire il ‘sì’, con l’aggiunta delle promesse reciproche, non conoscevano codici, canoni, scolii e commi, non sapevano di essere essi stessi i ministri del Sacramento, che insomma non erano “cristiani adulti” con all’attivo un’esperienza di convivenza prematrimoniale, ma che nella loro semplice fede tipica dei “poveri di spirito”, pur “non sapendo quello che facevano” come osserva il Papa, seppero egualmente assumersi responsabilità ed oneri, allevando una folta nidiata di figli e sopportando, nella semplice fedeltà, traversìe e sventure, superando incomprensioni, assaporando amarezze e rimettendo intera fiducia nel Signore.
Meglio, invece, contrarre esperienze prematrimoniali col corredo di un concepimento ché questo, sì, dà consapevolezza e maturità. “Non dite subito: Perché non ti sposi in chiesa? No. Accompagnarli, aspettare e far maturare. E fare maturare la fedeltà”. Ecco il mantra della pastorale del cammino, della sfida, da cui discende essere quanto mai pedagogico, istruttivo e degno di ammirazione vivere lo stato del concubinaggio con l’aggravante di un figlio a cui non è stato amministrato il Sacramento del Battesimo.
Una vera e proditoria rottamazione della dottrina della Chiesa fatta passare per logica e buon senso e, soprattutto, per atto di misericordia. “Pecca fortiter sed ama fortius” – pecca fortemente ma ama più fortemente - variante del luterano “Pecca fortiter sed crede fortius” che, stante l’empatìa ecumenistica reciproca tra Papa Bergoglio e gli scismatici eretici luterani, è di facile accostamento.
Qualcuno, come l’ingenuo Renato Farina (Il Giornale, 20 giugno 2016) scrive che il Papa, nel predicare un matrimonio consapevole e convinto, non invita di certo alla convivenza. Ma allora, come deve interpretarsi l’estemporanea tirata con cui conclude la sua allocuzione? : “Ho visto tanta fedeltà in queste convivenze e sono sicuro (!) che questo è un matrimonio, hanno la grazia del matrimonio, proprio per la fedeltà che hanno”. Se non è invito alla convivenza questo, ci dica l’ingenuo Farina che cosa sia. Se la fedeltà è il fondamento primario della convivenza, a che pro’ la Chiesa ha posto il matrimonio santificato e ratificato sotto il segno del Sacramento e rendendolo indissolubile in terra tale da farne peccato il suo indebito scioglimento?
Secondo Papa Bergoglio una convivenza, cioè il concubinaggio, se vissuto nella pratica di una fedeltà meramente laica, brilla della grazia di Dio. Ora, che dal peccato possa sgorgare il merito, possa darsi esemplarità pedagogica è dottrina che non può ritenersi solo eretica quanto demenziale. Non è lo stesso Pontefice che ci ha rivelato esistere “nelle coppie omosessuali elementi positivi ed affettivi” scorgendo anche in questa immondizia morale, la sodomia, una sfida alla capacità pastorale della Chiesa?
Il Papa, venuto dalla fine del mondo, sta, con l’applicazione del metodo evoluzionistico darwiniano al dogma, portando il gregge di Cristo all’estinzione della fede tramutando l’intero ‘corpus’ della dottrina in un dispositivo di relativistico contenuto – la teorìa della situazione - altamente gradito dal mondo che, secondo le previsioni augurali del dannato massone/carbonaro Nubius, ha finalmente trovato nella Chiesa chi fa il lavoro di Satana. Il verme nella polpa del frutto.
Ora, arriva il Pastore della Chiesa cattolica che predica, a lume di buon senso, come essendo la convivenza “un fatto ordinario”, un mozartiano “così fan tutti/e”, essa si configura come un dato di fatto di cui accettare la presenza. “Un’altra mia esperienza a Buenos Aires: i parroci nei corsi di preparazione al matrimonio la prima domanda che facevano era “Quanti siete conviventi?”. La maggioranza alzava la mano. Preferiscono convivere, e questa è una sfida, chiede lavoro”.
Ecco che ritorna ‘la sfida’, uno dei tanti termini del vocabolario bergogliano che tende, subdolamente, a mascherare un accomodamento col mondo, un termine che ha prodotto, nello scenario della Chiesa, un’inversione dei ruoli tale che se prima era Cristo a lanciare la sola, ineludibile ed onnicomprensiva sfida - “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc. 9, 23) – ora è la pastorale (!) di Jorge Mario Bergoglio, in arte Papa Francesco I, che concede al mondo diritto e facoltà di lanciare le sue sfide a una Chiesa ridottasi alla difensiva, in condizione di questuante. Eppure, a dar retta a Matteo (4, 1/11), non pare che Gesù abbia accettato le sfide di Satana, che con spirito amichevole le abbia discusse, che ne abbia approvato il dato in sé. A leggere Matteo – e dubitiamo che il Papa lo legga – è Gesù che tronca l’approccio suadente di Satana congedandolo con un perentorio: “Vattene, Satana”, indicando e chiarendo che con il male non si entra in dialogo.
Non diversamente il Signore insegna, per bocca del profeta, a fuggire il male, ad evitarlo, a non entrarci in contesa, ché Satana, in quanto spirito “loico” (Inf. XXVII, 123), non trova difficoltà alcuna a prevalere su una debole intelligenza umana.
“Chi di noi può rimanere presso un fuoco divoratore? Chi di noi può restare presso un braciere continuo? Chi cammina santamente e parla con giustizia, chi respinge un guadagno avuto con la violenza, chi scuote la sua mano per non trattenere il dono mirante a corrompere, chi si tura gli orecchi per non sentire propositi di sangue e chiude gli occhi per non vedere il male…” (Is. 33, 14/16).
Eppure, nonostante siffatti ammonimenti, oggi il pastore della Chiesa, su sollecitazione del Concilio Vat. II, invita ad entrare in dialogo, ad accettare la sfida col mondo, con quel male che tale si manifesta, ad esempio, nella convivenza prematrimoniale.
Ma è naturale perché il Papa, che non si considera ‘Vicarius Christi’ ma solo ‘Vescovo di Roma’, disdegna di seguire la metodologìa del Figlio di Dio e la verità del profeta, per affermare una pastorale meramente umana che, a dirla chiara e fuori dai denti e nello stile del parlar Si Si No No, altro non è che paura, viltà, codardìa, servilismo, tiepidezza che si concludono nel tradimento, nell’eresìa e nell’apostasìa.
Nel commentare questa ennesima uscita papale emessa a bassa quota, il nostro intendimento non era tanto fornire l’informazione in sé quanto metter in evidenza le silenziose, impalpabili ma velenose conseguenze di ordine teologico-morale che ne scaturiscono.
Prima di darne conto, è bene rammentare la nozione di matrimonio che così viene definita: “Il Matrimonio è il Sacramento in cui l’uomo e la donna si uniscono in una comunità di vita allo scopo di propagare la specie umana e ricevono da Dio la grazia per adempiere bene i doveri del proprio stato” (Bernardo Bartman: Teologia Dogmatica, pag. 1512 – Ed. Paoline 1950).
Dalla precedente definizione ne deriva che:
1 – sacramento essendo, esso si riceve in stato di grazia;
2 – solo in esso gli atti e gli effetti sono buoni;
3 - è vincolo indissolubile che neppure l’adulterio di uno dei due sposi scioglie;
4 - l’adempimento degli obblighi e delle promesse è sostenuto dalla grazia;
5 - l’unione coniugale fuori di esso è peccato grave di concubinaggio.
2 – solo in esso gli atti e gli effetti sono buoni;
3 - è vincolo indissolubile che neppure l’adulterio di uno dei due sposi scioglie;
4 - l’adempimento degli obblighi e delle promesse è sostenuto dalla grazia;
5 - l’unione coniugale fuori di esso è peccato grave di concubinaggio.
Ora, avendo il Papa affermato che, di sicuro, una convivenza vissuta nella fedeltà reciproca – una fedeltà laica, diciamo noi – è un vero matrimonio illuminato dalla grazia di stato, fa capire, e non troppo velatamente, che:
1 - la fedeltà, un effetto della grazia, diventa valore antecedente alla grazia stessa;
2 – il concubinaggio non è peccato finché i conviventi rimangono fedeli;
3 - non vi sarà necessità, in caso di successivo matrimonio religioso, di confessare il precedente stato di peccato in quanto peccato non fu in virtù della fedeltà mantenuta;
4 - se matrimonio debba darsi, è sempre meglio farlo precedere da una convivenza che faccia da tirocinio durante il quale si possa verificare la maturità degli affetti e degli impegni;
5 - non vi sarà necessità di matrimonio religioso dacché, perdurando la convivenza nella reciproca fedeltà laica, la grazia è di fatto presente a legittimare anche un’unione irregolare.
2 – il concubinaggio non è peccato finché i conviventi rimangono fedeli;
3 - non vi sarà necessità, in caso di successivo matrimonio religioso, di confessare il precedente stato di peccato in quanto peccato non fu in virtù della fedeltà mantenuta;
4 - se matrimonio debba darsi, è sempre meglio farlo precedere da una convivenza che faccia da tirocinio durante il quale si possa verificare la maturità degli affetti e degli impegni;
5 - non vi sarà necessità di matrimonio religioso dacché, perdurando la convivenza nella reciproca fedeltà laica, la grazia è di fatto presente a legittimare anche un’unione irregolare.
Aggiungiamo un’altra considerazione. Dice il Papa che, se non c’è nei nubendi consapevolezza e maturità di ciò che si va a celebrare, non si deve amministrare il sacramento. Siffatto criterio, che non ci vietiamo di accettare come sacrosanto applicato alla fattispecie del matrimonio, potrebbe portare, se non limitato a questo solo àmbito, ad altre drastiche conseguenze, una delle quali sarebbe la sospensione del battesimo ai neonati i quali non sono, ovviamente, in grado di capire il prodigio che ricevono, così come i fanciulli che si accostano alla prima Comunione o alla Cresima.
Che facciamo, Santità: tutto a maturità conseguita?
Se non è eversione questa miseria, chiediamo ai lettori, e soprattutto ai pastori della Chiesa, che inerti e in pavido silenzio consentono il diffondersi di un relativismo, di dirci che cosa sia. Ma non è difficile scorgere in questa ulteriore picconata alla mole della Chiesa, il tentativo di sgretolamento portato avanti con passetti, gradualmente, via via allacciando e impastando verità con eresìe con il mastice di una mielosa e ambigua formalità linguistica improntata al “buon senso”. Solo che questo buon senso è di marca umana e non divina.
Exsurge Domine!
di L. P.
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