ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 25 giugno 2016

«Ma che diavolo state facendo?»

DUE CHIESE DUE PAESI DUE MONDI

    Quella di Fratta di Oderzo è una perfetta parabola visiva dell’Italia dell’Europa e della Chiesa cattolica di questi nostri anni: un Paese disarticolato appiattito omologato decerebrato cui è stata strappata l’anima 
di Francesco Lamendola  


È come una parabola visiva dell’Italia di oggi, dell’Europa di oggi e della Chiesa cattolica dei nostri giorni. Il viaggiatore che percorre la strada provinciale 102, detta Postumia Romana, perché ripercorre, in alcuni tratti, l’antica e gloriosa via consolare romana (che andava da Genova ad Aquileia), subito dopo aver oltrepassato Oderzo in direzione di Portogruaro, si trova ad attraversare la frazione della prima di queste due città, denominata Fratta; e può darsi che non se ne accorga neppure. In effetti, il vecchio centro della frazione si trova sulla destra della provinciale, cioè a sud di essa, ma non lo si nota affatto: tutto quel che si vede è un cartello stradale e un bar situato all’altezza di una strada secondaria che s’immette sulla provinciale, descrivendo un’ampia curva. I fitti vigneti e i campi di granturco, bellissimi, e i filari di salici, laggiù, in direzione del fiume Monticano, che scorre poco lontano con le sue curve dolci e le sue acque tranquille, nascondono alla vista il campanile, non molto alto, e piatto in cima, dell’antica chiesa parrocchiale.

Per entrare nella vecchia frazione bisogna lasciare la provinciale, internarsi nella strada secondaria e percorrere circa un chilometro nel verde, in mezzo a villette con giardino; poi si gira ancora a destra e si arriva ad un breve viale alberato, che è il “centro”. Non ci sono più le piccole botteghe a conduzione familiare, non c’è nemmeno un’osteria: per qualsiasi cosa, gli abitanti devono prendere la macchina, o la bicicletta, e tornare sulla provinciale, dove, verso Oderzo, sorgono i soliti, immancabili ipermercati. Ma la vita sociale del paese, così, senza una sola bottega o un solo locale pubblico, è praticamente spenta; e gli anziani, per fare la spesa, devono farsi accompagnare dai figli o dai nipoti. Sono cambiate le abitudini, mano a mano che cambiava il paesaggio e il volto stesso della nostra società, anche in senso geografico: è accaduto negli ultimi decenni, quasi in punta di piedi, e si direbbe che non ce ne siamo accorti. Poi, un bel giorno (o piuttosto un brutto giorno), ci siamo svegliati e abbiamo visto che la campagna era diventata città, che i piccoli centri rurali si erano svuotati, che l’ufficio postale aveva chiuso, il posto telefonico pubblico anche - tanto, ormai tutti avevano sia il telefono fisso, che il telefonino cellulare – e perfino il parroco era sparito, si era spostato nel centro più grosso, e per celebrare la Messa veniva solo alla domenica, se pure ci veniva; finché non è venuto più del tutto: tanto, per quattro nonnine…
Su di un lato del vialetto centrale di Fratta, all’ombra dei tigli, sorgono le ex scuole elementari, ora adibite a Centro sociale, come tante altre romantiche scuolette di paese, complice il calo - o meglio, il crollo- demografico, e anche la “razionalizzazione” del territorio e l’introduzione del servizio degli scuolabus, che portano i bambini fino alla scuola del capoluogo, magari a qualche chilometro di distanza; sull’altro lato, c’è la sede di Oderzo del C.A.I. (Club Alpino Italiano), sempre in una ex scuola. In fondo al vialetto, una minuscola piazzuola, con una fontana di acqua abbondante e freschissima, detta “la fontana degli innamorati” (evidentemente, un ricordo ed un “dono” del santo patrono), un giardino con la Grotta di Lourdes, e l’antica chiesa parrocchiale. Questa, ben proporzionata, anche se di dimensioni non imponenti, è dedicata ai santi Filippo e Giacomo, sebbene il santo patrono della fazione sia San Valentino, la cui sagra si svolge – come è noto - il 14 febbraio. Un tempo era cappella della Pieve di Oderzo, poi parrocchia a sé stante (è citata per la prima volta in un documento del 1176; strana coincidenza, è l’anno della celebre battaglia di Legnano, fra i comuni della lega Lombarda e l’imperatore Federico Barbarossa). Esisteva anche una seconda chiesa, dedicata a santa Caterina, ancora più piccola, eretta nel 1600: segno che, all’epoca, la comunità era piuttosto viva e tendeva ad espandersi demograficamente.
La chiesa dei santi Filippo e Giacomo, sempre aperta al visitatore, così appartata e quasi fuori del tempo, ha qualcosa di profondamente suggestivo e quasi di commovente. L’edificio attuale, benché attestato, come si è detto, almeno dal XII secolo, risale, a quanto pare, agli inizi del 1400: divenne curazia nel 1709 e fu eretto a parrocchia il 13 dicembre 1947, per decreto del vescovo di Vittorio Veneto (alla cui diocesi appartiene), Giuseppe Zaffonato. Ha subito, purtroppo, profonde modifiche e rimaneggiamenti; basti dire che l’orientamento attuale è addirittura rovesciato rispetto a quello originario, con la facciata là dove era l’abside, e viceversa (per cui la luce del mattino entrava da dietro l’altar maggiore, mentre ora entra dal portale, con buona pace dell’antico simbolismo mistico, di cui non importa più niente ad alcuno); era interamente decorata con affreschi, che sono andati tutti perduti, tranne uno, e anche quell’unico, che reca la data del 1428, è quasi irriconoscibile. L’altare, consacrato ai santi Filippo e Giacomo, venne consacrato dal vescovo Eugenio Beccegato il 15 giugno 1928, festa del Sacro Cuore di Gesù (si tenga presente che, durante la Prima guerra mondiale, in questa zona si era combattuto aspramente, perché il fronte del Piave non era molto lontano, e parecchi edifici civili e religiosi erano andati distrutti, o erano rimasti gravemente danneggiati dai tiri della stessa artiglieria italiana, schierata sulla riva destra; il Comando austro-ungarico del generale Svetozar Boroevic aveva posizionato un osservatorio perfino in cima al Duomo di Oderzo, per seguire gli sviluppi della battaglia del Solstizio del giugno 1918). Anche qui, purtroppo, è arrivata la riforma liturgica decisa dal Concilio Vaticano II ed un nuovo altare, orientato verso l’assemblea, è stato costruito davanti al precedente, alterando gravemente le proporzioni delle linee e dei volumi architettonici.
Dicevamo che, entrando nel piccolo, ma armonioso edificio sacro, passando dalla luce abbagliante dell’esterno, circondato dalla verde campagna, alla fresca penombra dell’interno, si prova una sensazione assai piacevole, come di ritorno ai luoghi dell’infanzia: nella piccola chiesa di paese, silenziosa, appartata, rallegrata dai raggi del sole che piovono smorzati dai finestroni, ci si sente partecipi di un’atmosfera quieta e raccolta, come se il tumulto della società moderna, i suoi ritmi convulsi, le sue abitudini sbagliate, fossero rimasti fuori. Il pavimento, i banchi, le vetrate, ogni cosa è pulitissima e ordinata; una signora cordiale, di una certa età, che evidentemente si occupa di aprirla e di tenerla in ordine, lamentava che il prete non si facesse mai vedere e che avesse tempo solo per i giovani; chiedemmo se venisse almeno a dire Messa la domenica, ma rispose di no. La semplicità delle linee e la sobrietà quasi spartana degli arredi creano un senso di raccoglimento mistico, tanto che si stenta a credere che, a poche centinaia di metri, scorre una strada piuttosto trafficata, percorsa da migliaia di veicoli frettolosi. Ciò che balza subito all’occhio sono le due statue lignee, addossate ai pilastri che sostengono l’arco trionfale, bordati di tessuto rosso: la statua di San Valentino sulla destra, e quella della Madonna, col Bambino in braccio, sulla sinistra. Sono statue moderne, del XX secolo; l’autore è ignoto, ma s’intuisce lo stile degli scultori in legno della Val Gardena, che tante opere simili hanno realizzato per decine di chiese dell’area veneta: in ogni caso, s’ineriscono benissimo nell’insieme dell’edificio  tardo medievale e gli conferiscono una nota di vivacità fresca e schietta, di sapore quasi popolare. Al di sopra dell’altar maggiore, un trittico parimenti anonimo, con il sacri Cuore di Gesù al centro e i due Santi titolari della chiesa, ai lati. Affisse ai due pilastri del presbiterio, all’altezza dell’altare nuovo, ci sono due tele del pittore opitergino Giulio Ettore Erler (1876-1964), rispettivamente San Giuseppe e Sant’Antonio col Bambino Gesù. Così la descrive la Breve guida della Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, pubblicata dalla associazione Fratta Unita e curata dalla dottoressa Irene Samassa (Oderzo, 2016, pp. 5-6):

A semplice aula, con il tetto a due falde e facciata dal profilo a capanna, la Chiesa di Fratta presenta nella parte più antica, ancora oggi visibile nella zona prossima all’argine del fiume Monticano, degli elementi decorativi propri del XV secolo. La facciata, un tempo rivolta ad ovest, e quindi opposta a quella attuale (ad est), risulta partita da quattro sottili lesene (elemento decorativo a fusto e pianta rettangolare addossato alla parete) terminanti in una cornice composta da due archi a sesto acuto che seguono il profilo del tetto. All’interno delle tre specchiature (porzione di muro tra una lesena ed un’altra) si aprivano n quella centrale il portale d’ingresso – oggi murato – e il rosone, elemento decorativo tipico delle chiese romaniche e gotiche, oggi nascosto da uno spesso strato d’intonaco che ricopre l’intera superficie muraria, ma documentato nei disegni del 1689 e del 1734. Nella cornice di sottogronda, lungo i fianchi della chiesa, si dispongono una serie di archetti pensili trilobati arricchiti da elementi fitomorfi e floreali affrescati di cui oggi rimangono solo alcuni lacerti. Come l’antica facciata anche i fianchi laterali (quello a nord oggi risulta intonacato e quello a sud con i soli mattoni faccia vista) presentano la stessa partizione a sottili lesene terminanti a nord con il motivo a doppi archi a sesto acuto a doppio intradosso, poggianti nella parte centrale su picco peducci, mentre nella fiancata posta a sud nella specchiatura tra le lesene vi sono due archi singoli  a tutto sesto. Entrambi i fianchi presentavano delle aperture oggi tamponate – due finestre e una porta centrale (quest’ultima solo sul lato sud) – documentate nei disegni del 1689 e del 1734. La chiesa poi era chiusa ad est del presbiterio che terminava con un’abside poligonale a cinque lati, come testimonia un disegno del 1811, che presentava delle monofore sui lat lunghi.

Usciamo da questa piccola oasi di pace e di bellezza, ripercorriamo la strada secondaria in senso inverso, torniamo sulla provinciale e proseguiamo avanti per poche centinaia di metri, poi giriamo a sinistra ed eccoci arrivati alla “nuova” Fratta, Fratta Alta (mentre la vecchia, automaticamente, è diventata la “Bassa”). Un intero paese si direbbe che sia slittato di un paio di chilometri, da un lato all’altro della strada provinciale, così come si potrebbe trapiantare un albero, un vivaio, un vigneto: che cosa è mai successo, dunque? Semplice: le teste fine degli anni Cinquanta e Sessanta, gli amministratori e gli urbanisti degli anni del boom economico, avevano previsto chi sa quale esplosione demografica e, quindi, una immensa fame di abitazioni, e avevano individuato nella zona a nord della Postumia il luogo adatto per offrire una adeguata capacità residenziale. Furono costruiti alcuni piccoli condomini, furono aperti alcuni esercizi commerciali, e, naturalmente, venne edificata una nuova parrocchiale, che sostituì la vecchia, e una nuova casa canonica, ove immediatamente si trasferì il parroco, per non più ritornare. Adesso, come si è detto, nella chiesa vecchia non si celebra più neanche la Messa della domenica. Questa fu la ciliegina sulla torta, e venne posta nel 1973. La popolazione residente veniva da fuori, ma il previsto assalto alle case non c’è mai stato: e così Fratta Alta, che non ha niente a che fare con il paese di Fratta, quale è esistito per secoli e secoli, si è semplicemente affiancata alla vecchia, senza che le due comunità s’integrassero. Non sappiamo in base a quali calcoli qualcuno avesse previsto una poderosa esclation nelle richieste di unità abitative: la popolazione del comune di Oderzo è passata, assai gradualmente, dai 12.800 abitanti del 1951, ai 12.100 del 1961 (crescita zero, quindi, proprio nel decennio centrale del boom), ai 14.400 del 1971, ai 16.300 del 1981, ai 16.600 del 1991, ai 17.300 del 2001, ai 20.000 del 2011. Un aumento più che contenuto, quindi, che si spiega con la perdurante vocazione agricola del territorio e con il modello delle piccole industrie diffuse, che non attirano certo una gran popolazione esterna. Ci si chiede se valeva la pena di creare una nuova Fratta, visto che non è mai decollata, è stata un flop totale, e visto che è servita quasi solo a sottrarre servizi alla “vecchia”.
Ah, c’è un’ultima cosa da dire. La chiesa nuova è semplicemente orrida: la tipica chiesa post-conciliare, di una bruttezza architettonica assoluta, oltretutto anonima, sciatta, banale, per cui non possiede nemmeno la spiccata personalità dei brutti “interessanti”, ma solo la misera piattezza conformista di cento e cento altri simili edifici “religiosi” (le virgolette sono d’obbligo), dai volumi squadrati, geometrici, di uno pseudo-funzionalismo d’accatto, tanto di moda in quegli anni, quanto ridicolo e insulso dopo che l’onda progressista è passata. Che cosa ci stia a fare quello scatolone di cemento, in un angolo così bello della Marca trevigiana, con quel portone che pare l’ingresso di un campo di concentramento, con quelle poche e avare finestre che lasciano l’interno sempre in ombra, con quella spirale dello spazio sacro che pare un fortilizio in stato d’assedio, laddove ci sarebbe tutta la superficie edificabile che si vuole e un paesaggio ameno, che invita all’apertura e alla convivialità, davvero non si capisce. Oscar all’architetto per la peggior chiesa del circondario.
Quella di Fratta di Oderzo è, come dicevamo, una perfetta parabola visiva dell’Italia e dell’Europa di questi nostri anni: un Paese disarticolato, appiattito, omologato, decerebrato, cui è stata strappata l’anima, per sostituirla con qualche cubo di cemento e qualche chilometro d’asfalto in più. E come ci son due chiese e due paesi, ci sono pure due mondi che s’ignorano a vicenda: della tradizione e del Progresso. Il secondo era dato da tutti per vincente: ma come mai, allora, zoppica sempre di più?


Due chiese, due paesi, due mondi…

di Francesco Lamendola

http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9026:2-chiese-2-paesi-2-mondi&catid=94:autonomismo&Itemid=122

MAMME CHE STATE FACENDO ?

    Mamme ma che diavolo state facendo? Mamme, quelle di voi che sono cristiane, che hanno ancora un briciolo di amore e di timor di Dio: avevate mai letto e meditato un certo passo di Gesù? Non capite che de vobis fabula narratur? 
di Francesco Lamendola  



L’espressione interrogativa: «Ma che diavolo stai facendo?», nell’uso corrente, non ci appare altro che un rafforzativo di quell’altra, più comune, diretta a esprimere stupore, incredulità e una sfumatura, più o meno esplicita, di contrarietà o disapprovazione: «Ma che cosa stai facendo?»; oppure: «Si può sapere che cosa stai combinando?».
Adesso proviamo, servendocene per iscritto (mentre, di solito, la si adopera nel parlare quotidiano), a scriverla così: «Ma che Diavolo stai facendo?», con la lettera maiuscola per la parola “diavolo”; oppure proviamo a scriverla adoperando, per quella parola, non l’iniziale maiuscola, ma il carattere corsivo, in modo da evidenziarla e staccarla dal resto: «Ma insomma, si può sapere che cosa diavolo stai combinando?». Non ci sembra che vi siano dubbi: fa tutto un altro effetto. Ci si accorge che quella parola, “diavolo”, non era stata buttata lì per caso, come un qualunque rafforzativo, ma sottintendeva un significato molto più profondo – e infinitamente più inquietante. Forse, senza neanche rendercene conto, esprimendoci in quella maniera avevamo dato forma e voce ad un pensiero semplicemente terribile, anche se implicito: e cioè che certe azioni, certi comportamenti, anche se possono sembrare abbastanza casuali, e, come tali, tutto sommato, anche innocenti, traggono origine da un abisso di tenebre in cui è pressoché impossibile spingere lo sguardo sino al fondo. Una parte di noi, probabilmente, intuisce, afferra al volo, che, dietro taluni gesti o talune scelte, apparentemente normali, solo perché condivisi da tantissime altre persone, vi è qualcosa di oscuro, d’indicibile, qualcosa che mette paura: una vera e propria ispirazione dell’Inferno; un vero e proprio  affidarsi dell’anima al Diavolo.
Questa riflessione ci saliva alla mente l’altro giorno, mentre, guardando distrattamente il telegiornale (e come non difendersi con la distrazione dal quotidiano, metodico lavaggio del cervello?), l’annunciatrice, di punto in bianco, è passata dalle notizie “serie”, drammatiche, inquietanti, a quelle “leggere”: la prima delle quali era una sfilata di moda per l’estate. Che c’è di strano?, si potrebbe chiedere qualcuno. Nulla, a prima vista; o forse sì, qualcosa di strano c’era: perché non si trattava di una filata di moda estiva per adulti, ma per bambini. E, infatti, le immagini che scorrevano sullo schermo, con assoluta normalità e disinvoltura, mostravano dei bambini e delle bambine di pochi anni, più o meno dell’età delle scuole elementari, sfilare su e giù lungo le passerelle, fra due ali di pubblico, ancheggiando e dimenandosi – più o meno - come se fossero stati dei modelli o delle modelle di professione: con la stessa andatura dinoccolata e provocante, con la stessa aria (apparentemente) spavalda, e con lo stesso sorriso idiota, assurdo, stampato sulle labbra e nell’espressione dello sguardo. Certo non avevano improvvisato, né avevano imparato da soli e da sole: senza ombra di dubbio, e già per il solo fatto di essere lì, invece che a casa, o a scuola, o con gli amici, a giocare, o con i genitori, a fare la spesa, a recarsi in visita dai nonni,  insomma tutto indicava sin troppo chiaramente il cattivo genio che doveva averli trascinati in quel luogo, a fare quelle cose, a guardare verso le telecamere in quella maniera, a sorridere con quella espressione smaliziata, di chi conosce il mondo e non si stupisce più di nulla (cioè, esattamente al contrario di come dovrebbe essere la normale espressione d’un bambino): le loro mamme.
Dio sa quante ambizioni, più o meno frustrate, quanti sogni di rivalsa, quante veglie, quante pene, quante raccomandazioni, quante telefonate, quante ore di prova, quante pose davanti al fotografo, quanti provini, quanti tentativi; e Dio sa quante tensioni, quanti contrasti, quanti litigi e quanti musi con i mariti che non capiscono, con i nonni che disapprovano, con le sorelle che si mangiano le unghie per l’invidia, con le amiche che crepano di gelosia perché le loro figlie son rimaste indietro, non hanno avuto la spinta giusta, non sono state apprezzate dalla giuria, eccetera; Dio sa quale strada infernale di sacrifici, di maldicenze, di veleni, di cinismi, di bugie (a cominciare da quella sull’età dei pargoletti: come far diventare dodicenne una bambina di nove, otto anni; e come truccare una figlia di sette anni, in modo tale che ne dimostri almeno dieci, undici se possibile); insomma, Dio sa quali e quante paranoie, intrallazzi, ammiccamenti, bassezze e offerte sottintese di disponibilità sessuale, insomma di prostituzione, per dir le cose come stanno, beninteso se proprio si rivela necessario, indispensabile: che cosa non farebbe, una mamma di questo tipo, pur di vedere il pargoletto o la pargoletta che calcano la passerella, che incedono conturbanti tra due ali di folla stupita e ammirata, in mezzo ai flash dei fotografi, con la musica da spiaggia che scandisce la sfilata e con l’adrenalina che sale alle stelle perché, finalmente, è arrivato il momento tanto atteso – e, mio Dio, tanto meritato! -, il momento della verità, dove si fa la conta e buonanotte, chi è dentro è dentro, e chi è fuori, è  fuori.
Gesù, su questo punto, era stato chiarissimo; aveva parlato non per metafore o per parabole, ma in maniera quanto mai esplicita e diretta (Matteo, 18, 3-7 ):
“In verità vi dico: se  non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei Cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei Cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me. Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata dall’asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!
Mamme, quelle di voi che sono cristiane, che hanno ancora un briciolo di amore e di timor di Dio: avevate mai letto e meditato questo passo? Non vi sembra che faccia proprio al caso vostro? Come: domandate perché? Non vi sembra che l’esporre i vostri bambini, così, a tutti gli sguardi, non sempre casti, non sempre innocenti, degli adulti; non vi sembra che insegnar loro a mostrarsi, a esibire il corpo, ad ancheggiare come modelli di professione, a stuzzicarle fantasie morbosette, da pedofili, degli adulti, sia una maniera più che mai esplicita di dare scandalo, sia ai vostri figli, sia anche al pubblico presso cui li fate sfilare? Non vi sembra di aver tradito la vostra vocazione di madri: che non è quella di far primeggiare i vostri bambini in simili sfilate, di farli fotografare, di farli vede al pubblico televisivo, di farli notare dalle agenzie pubblicitarie per qualche provino, chissà, magari per assicurare loro una carriera televisiva come modelli o attori o presentatori o come - in qualsiasi altro modo e forma - personaggi di spettacolo, equivalga a perpetrare un vero e proprio tradimento rispetto alla vostra missione educativa, che è quella di proteggere i vostri figli dalla malizia degli adulti e fornire loro, semmai, un solido codice di valori e di riferimenti, una norma etica limpida e coerente, una coscienza pulita e trasparente?
Come dite: che non lo avete fatto per vanità, per narcisismo, per esibizionismo, né per risarcire voi stesse delle vostre delusioni e dei vostri sogni frustrati e avvizziti, ma, semplicemente, per i soldi, soldi che vi siete affrettate a mettere sul libretto di risparmio dei vostri figli, per assicurare loro un domani, in tempi così difficili? E questa, secondo voi, sarebbe una giustificazione, una attenuante? Non capite che è un’aggravante, e che rende ancora più sordido, ancora più squallido quel che state facendo: servirvi dei corpi dei vostri figli ancora piccoli? Li state prostituendo, né più, né meno; questo arrivate a comprenderlo? Chiunque adoperi il proprio corpo, o il corpo di un’altra persona, per raggiungere un guadagno economico, si comporta come una prostituta o una ruffiana, su ciò non vi è dubbio. E dunque, non capite che de vobis fabula narratur?
Sì, stiamo parlando proprio di voi, care signore, care mammine: è inutile che vi guardiate in giro, cercando all’intorno chissà chi o che cosa: vedete qualcun altro, qui, adesso, che si stia servendo del corpo del proprio figlioletto o della propria figlioletta, per stuzzicare il lato inconfessabile della personalità adulta, oltre che per far emergere il lato oscuro delle sue stesse creature, retaggio immancabile del Peccato originale? Sì: perché anche in fondo al cuore di un bambino o di una bambina di sei anni, di nove anni, di dodici anni, vi è una oscura, limacciosa attrazione verso il male: una tendenza a esibirsi eroticamente; una perversa, diabolica intuizione che quel corpicino può essere adoperato in maniera poco casta, per ammiccare, per invogliare, per strappare occhiate di desiderio, sia facendo leva sulla infinita vanità delle mamme, sia sulla smodata ambizione di stilisti e disegnatori di moda, che in quei bimbi vedono solo dei manichini sui quali appendere le loro creazioni. E anche costoro sono delle anime perse, gonfie di vanità e ambizione, totalmente prive di rispetto e di dolcezza verso il mistero dell’infanzia; anime brutte, che si servono dei bambini con il massimo cinismo, bruciando la loro innocenza, il loro stupore, la loro visione incantata del mondo, per trasformarli precocemente in adulti senz’anima, in mercenari che badano solo al proprio tornaconto, derubandoli – così - della sola cosa di cui sono ricchi tutti i bambini del mondo: la loro stessa infanzia.
Mamme incoscienti e divorate dall’ambizione, stilisti amorali e pervertiti, organizzatori di eventi mondani che sono impastati di ributtante cinismo: è il Diavolo in persona che deve avere ispirato costoro e averli fatti congiurare fra di loro, per inquinare l’innocenza infantile e per instillare nell’animo dei bambini sentimenti e atteggiamenti maliziosi, e, nell’animo del pubblico, sentimenti e passioni ancor più disordinati, addirittura inconfessabili. Per cui è proprio il caso di domandare a quelle madri snaturate: Ma che Diavolo vi siete messe in testa di fare? Quale demonio è venuto a tentarvi, per spingervi ad abusare così turpemente della fiducia istintiva dei vostri figli; e, quel che è peggio – se possibile – a farlo con assoluta disinvoltura, anzi, come se steste facendo qualcosa di bello e di buono, qualcosa che valorizza i vostri bambini e di cui voi e loro dovreste andar tutti fieri e a testa alta, mentre è vero il contrario, che dovreste arrossire e rabbrividire di voi stesse e della turpitudine delle vostre ambizioni?
D’altra parte, il caso dei modelli e delle modelle bambini, spinti davanti ai riflettori da mamme (e da padri) snaturati – ne aveva già parlato il regista Luchino Visconti in un film impietoso e sarcastico, Bellissima, girato nel 1951 – non è che uno dei cento, dei mille volti che assume l’odierno capovolgimento dei valori nella società edonista e permissiva, dopo che i cerchioni della morale sono saltati – più esattamente, sono stati fatti saltare, scientemente e deliberatamente - e dopo che una pletora di cattivi maestri e d’intellettuali eunuchi e cortigiani, stolti o disonesti, ha proclamato le nuove Tavole della Legge, o piuttosto dell’Anti-Legge, nichilista e relativista: Fa’ ciò che vuoi! Non rinunciare a nulla di quel che puoi afferrare senza troppa fatica, e che può assicurarti un vantaggio! Non badare ai mezzi, punta dritto allo scopo, anche se dovessi calpestare la tua stessa madre o il tuo stesso padre! Tutto è lecito, quello che piace! Tutto è buono, quel che si ha voglia di fare! E tutto questoè diventato “normale”, benché equivalga ad una vera e propria follia istituzionalizzata: ma una follia non cessa d’essere tale, per il fatto che è condivisa da un grandissimo numero di persone. Eppure questa è la forza, si fa per dire, delle società democratiche: il numero. La giustizia, la verità, non interessano più a nessuno; l’importante è che si consulti il “popolo” e che la maggioranza esprima le sue preferenze. Un uomo, un voto.
Quando una società sprofonda in queste tenebre, è difficile che ne possa uscire. Il male si diffonde silenzioso e non viene percepito come tale; quel che fanno alcuni viene imitato dagli altri; quel che la televisione o il cinema fanno vedere, diventa il modello da imitare, l’esempio da seguire; e ben pochi si prendono il disturbo di ragionare con la propria testa o di consultare la propria coscienza. Ma guai a dirlo a voce alta: immediatamente si viene subissati da un coro di fischi e urla; si viene apostrofati come superbi e intolleranti; si viene additati al pubblico disprezzo e al pubblico ludibrio, come persone retrograde e incivili, che non sanno apprezzare le meraviglie della modernità e, pertanto, che meritano di essere isolate, emarginate, ridotte al silenzio. E, se non tacciono, le si fa tacere con una bella denuncia, perché ormai il legislatore è tutto dalla parte del “popolo”, della “democrazia”, cioè del gregge manipolato e strumentalizzato ad arte dai poteri occulti che controllano l’informazione, la cultura e la politica stessa.
Un solo esempio, proprio di ieri, varrà a chiarire il concetto. In una scuola cattolica di Trento, il contratto di lavoro non è stato rinnovato ad un’insegnante lesbica, che convive con una donna e che, in un colloquio coi dirigenti, ha rifiutato di “ravvedersi”. Certo, era un suo diritto; come era diritto di quella scuola, privata e confessionale, tutelare il codice morale dei suoi insegnanti. E invece no. È scattata una denuncia, e la scuola è stata condannata a pagare 25.000 euro di multa. Il che, dati i magri bilanci degli istituiti privati, equivale, se non alla chiusura, quasi. Messaggio chiaro: bisogna adeguarsi alla cultura del Progresso; e chi si oppone, va trattato come merita: da nemico pubblico...


Mamme, ma che diavolo state facendo?

di Francesco Lamendola

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