The right Church
Eletti i nuovi vertici della chiesa cattolica americana. I vescovi non votano l’agenda di Francesco
foto LaPresse
Roma. Gli esperti di chiesa americana suggerivano di tenere gli occhi aperti sul nome del vicepresidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti che sarebbe uscito premiato dall’urna, nel corso dell’Assemblea generale in corso a Baltimora. Da lì, dicevano, si sarebbe capito l’orientamento delle centinaia di vescovi d’oltreoceano, investiti dalla profonda rivoluzione che il Papa ha avviato sul loro terreno: nomine che rappresentano una cesura netta rispetto al passato, nuove priorità (più attenzione al sociale e meno battaglie in strada rivendicando i cosiddetti princìpi non negoziabili) e auspicio d’un generale ravvedimento rispetto alle linee di quel conservatorismo muscolare che per lustri ha dominato la scena. Il vicepresidente eletto – e in teoria, almeno secondo la prassi, destinato a divenire presidente fra tre anni – è mons. José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles, la più grande diocesi statunitense. Nato a Monterrey, in Messico, è sacerdote dell’Opus Dei.
ARTICOLI CORRELATI Caro Papa ti scrivo Cattolici per Trump. The Donald ha fatto meglio perfino di Bush I vescovi americani pronti all’elezione del loro nuovo capo. I nomi in campoPur avendo richiamato anche in questi giorni la necessità di integrare gli immigrati anziché di costruire muri lungo il confine, come del resto hanno fatto i suoi colleghi, se non altro per richiamo allo spirito evangelico – “Vi prometto che non vi lasceremo mai soli”, ha detto pochi giorni dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – Gómez è considerato tra i presuli più conservatori degli Stati Uniti, in totale discontinuità con il predecessore, il cardinale Roger Mahony. Non pochi interrogativi aveva suscitato la scelta del Papa di non includerlo nella lista dei futuri cardinali che otterranno la porpora sabato prossimo in San Pietro, considerato anche il rilievo della diocesi di cui è pastore.
Scelta la continuità
Il presidente eletto è il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e anch’egli con un solido profilo conservatore (è tra i firmatari della lettera inviata al Papa durante il Sinodo per lamentare procedure non corrette). La sua elezione era quasi scontata, essendo il vicepresidente uscente – solo nel 2010 il vice uscente, mons. Gerald Kicanas, vescovo di Tucson dal profilo progressista, fu beffato nel segreto dell’urna, quando si vide superato da mons. Timothy Dolan. “Non sono sorpreso che i vescovi americani abbiano proseguito sulla linea corrente”, dice al Foglio Robert Royal, direttore del Catholic Thing: “Si vedeva all’ultimo Sinodo che gli statunitensi erano più vicini agli africani che agli europei per quanto riguarda le questioni più calde. L’unica eccezione è mons. Cupich, di Chicago, che però non ha molta influenza all’interno della nostra conferenza episcopale. Di misericordia si parla nella chiesa americana, ma non nel senso che intende Francesco”.
L’elemento da rilevare è che al ballottaggio per la vicepresidenza contro Gómez – indizio per comprendere la linea politica futura dell’episcopato – non è andato un presule di vedute opposte o un vescovo dal profilo più pastorale (i nomi c’erano, da mons. Thomas Wenski, arcivescovo di Miami attento alle questioni del cambiamento climatico – ha dedicato un ciclo di omelie domenicali all’enciclica Laudato si’, a mons. John Wester, arcivescovo di Santa Fe), bensì mons. Gregory Aymond, di New Orleans, “un tradizionalista, punto e basta”, dice Royal. Tra le altre cose, fu tra i firmatari di una lettera di protesta inviata alla Notre Dame University di South Bend, in Indiana, contro la decisione di conferire a Barack Obama una laurea honoris causa, considerate le sue posizioni favorevoli all’aborto e alla ricerca sulle cellule staminali. Una linea che, aggiunge il direttore del Catholic Thing, è quella di mons. Charles Chaput, arcivescovo di Philadelphia.
di Matteo Matzuzzi | 15 Novembre 2016
Di Nardo e Gómez, chi sono i
nuovi vertici (conservatori) della Conferenza episcopale Usa
La Chiesa cattolica americana ha scelto il suo nuovo vertice. Si tratta del nuovo presidente della Conferenza episcopale americana, il cardinale di Galverston-Houston, Daniel Di Nardo (nella foto), 67 anni, per tre anni vicepresidente (eletto alla prima votazione) e del nuovo numero due, l’arcivescovo di Los Angeles, José Horacio Gómez, 65 anni (eletto alla terza votazione).
Di Nardo è figlio di un immigrato italiano dall’Abruzzo e Gomez è nato in Messico. È la prima volta che un ispanico arriva così in alto nelle gerarchie cattoliche in Usa. Quindi entrambi conoscono per esperienza diretta quanto sia necessaria l’integrazione dei migranti in una nazione in cui lo stesso stemma presidenziale contiene il motto “E pluribus unum”.
Questo non fa di loro, e nemmeno di Gomez, una scelta che si possa semplicisticamente definire come “contraria” al presidente eletto Donald Trump. Semmai, una scelta bilanciata e insieme di pungolo alla nuova amministrazione.
Dal punto di vista ecclesiale sia Di Nardo che Gómez sono teologicamente “conservatori”. Di Nardo è uno dei tredici cardinali che nel 2015 ha firmato una lettera al Papa per ‘contestare’ i lavori del Sinodo sulla famiglia, è un esponente pro-life. Di Nardo è stato fatto cardinale da Benedetto XVI, ed è stato sempre Benedetto XVI che ha nominato nel 2010 Gómez coadiutore e, l’anno successivo, arcivescovo di Los Angeles (più a destra del suo predecessore, Roger Mahony). Gomez inoltre proviene dalle fila dell’Opus Dei (ordinato prete dell’Opera, nel 1978).
Ma sull’immigrazione Gomez, che nei tre anni passati, è stato il presidente del relativo Comitato dei vescovi, è completamente sulla stessa lunghezza d’onda del Papa. Lo ha ripetuto più volte, anche il 4 ottobre alla Radio Vaticana.
Nell’elezione di Trump il voto cattolico è stato importantissimo. Circa 68 milioni negli Usa, i cattolici costituiscono un quarto dell’elettorato e il tycoon ne ha conquistato il 52 per cento (contro il 45 per cento di Hillary Clinton), compresi i latinos della Florida che sono stati essenziali per la vittoria del candidato repubblicano. Quindi adesso il nuovo vertice della Conferenza episcopale americana dovrà interfacciarsi sia con i propri fedeli e il loro odore di pecore, che con il nuovo Presidente.
Il sito ufficioso vaticano, Il Sismografo, a firma del direttore editoriale Luis Badilla, ha illustrato il videomessaggio inviato martedì 15 novembre da Papa Francesco ai vescovi statunitensi riuniti nella loro plenaria d’autunno a Baltimora, con un titolo significativo: “Francesco e il ‘volto mutevole della Chiesa americana’” (espressione, quest’ultima, tratta dal videomessaggio) e con un’illustrazione che lo è ancora di più: l’immagine di un ponte fatto con i lego, ma un ponte accidentato e spezzato.
Il Papa ha detto: “Durante tutta la sua storia, la Chiesa nel vostro Paese ha accolto e integrato nuove ondate di immigrati. Nella ricca varietà delle loro lingue e tradizioni culturali, essi hanno forgiato il volto mutevole della Chiesa americana”. E ha esortato a tenere conto “del contributo che la comunità ispanica dà alla vita della nazione”. Il Papa delinea un orizzonte pastorale: “La nostra grande sfida – dice – è creare una cultura dell’incontro, che incoraggi gli individui e i gruppi a condividere la ricchezza delle loro tradizioni ed esperienze, ad abbattere muri e a costruire ponti. La Chiesa in America, come altrove, è chiamata ad “uscire” dal suo ambiente sicuro e ad essere un fermento di comunione. Comunione tra noi, con gli altri cristiani e con tutti coloro che cercano un futuro di speranza”.
foto LaPresse
Roma. Gli esperti di chiesa americana suggerivano di tenere gli occhi aperti sul nome del vicepresidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti che sarebbe uscito premiato dall’urna, nel corso dell’Assemblea generale in corso a Baltimora. Da lì, dicevano, si sarebbe capito l’orientamento delle centinaia di vescovi d’oltreoceano, investiti dalla profonda rivoluzione che il Papa ha avviato sul loro terreno: nomine che rappresentano una cesura netta rispetto al passato, nuove priorità (più attenzione al sociale e meno battaglie in strada rivendicando i cosiddetti princìpi non negoziabili) e auspicio d’un generale ravvedimento rispetto alle linee di quel conservatorismo muscolare che per lustri ha dominato la scena. Il vicepresidente eletto – e in teoria, almeno secondo la prassi, destinato a divenire presidente fra tre anni – è mons. José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles, la più grande diocesi statunitense. Nato a Monterrey, in Messico, è sacerdote dell’Opus Dei.
ARTICOLI CORRELATI Caro Papa ti scrivo Cattolici per Trump. The Donald ha fatto meglio perfino di Bush I vescovi americani pronti all’elezione del loro nuovo capo. I nomi in campoPur avendo richiamato anche in questi giorni la necessità di integrare gli immigrati anziché di costruire muri lungo il confine, come del resto hanno fatto i suoi colleghi, se non altro per richiamo allo spirito evangelico – “Vi prometto che non vi lasceremo mai soli”, ha detto pochi giorni dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – Gómez è considerato tra i presuli più conservatori degli Stati Uniti, in totale discontinuità con il predecessore, il cardinale Roger Mahony. Non pochi interrogativi aveva suscitato la scelta del Papa di non includerlo nella lista dei futuri cardinali che otterranno la porpora sabato prossimo in San Pietro, considerato anche il rilievo della diocesi di cui è pastore.
Scelta la continuità
Il presidente eletto è il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e anch’egli con un solido profilo conservatore (è tra i firmatari della lettera inviata al Papa durante il Sinodo per lamentare procedure non corrette). La sua elezione era quasi scontata, essendo il vicepresidente uscente – solo nel 2010 il vice uscente, mons. Gerald Kicanas, vescovo di Tucson dal profilo progressista, fu beffato nel segreto dell’urna, quando si vide superato da mons. Timothy Dolan. “Non sono sorpreso che i vescovi americani abbiano proseguito sulla linea corrente”, dice al Foglio Robert Royal, direttore del Catholic Thing: “Si vedeva all’ultimo Sinodo che gli statunitensi erano più vicini agli africani che agli europei per quanto riguarda le questioni più calde. L’unica eccezione è mons. Cupich, di Chicago, che però non ha molta influenza all’interno della nostra conferenza episcopale. Di misericordia si parla nella chiesa americana, ma non nel senso che intende Francesco”.
L’elemento da rilevare è che al ballottaggio per la vicepresidenza contro Gómez – indizio per comprendere la linea politica futura dell’episcopato – non è andato un presule di vedute opposte o un vescovo dal profilo più pastorale (i nomi c’erano, da mons. Thomas Wenski, arcivescovo di Miami attento alle questioni del cambiamento climatico – ha dedicato un ciclo di omelie domenicali all’enciclica Laudato si’, a mons. John Wester, arcivescovo di Santa Fe), bensì mons. Gregory Aymond, di New Orleans, “un tradizionalista, punto e basta”, dice Royal. Tra le altre cose, fu tra i firmatari di una lettera di protesta inviata alla Notre Dame University di South Bend, in Indiana, contro la decisione di conferire a Barack Obama una laurea honoris causa, considerate le sue posizioni favorevoli all’aborto e alla ricerca sulle cellule staminali. Una linea che, aggiunge il direttore del Catholic Thing, è quella di mons. Charles Chaput, arcivescovo di Philadelphia.
di Matteo Matzuzzi | 15 Novembre 2016
Di Nardo e Gómez, chi sono i
nuovi vertici (conservatori) della Conferenza episcopale Usa
La Chiesa cattolica americana ha scelto il suo nuovo vertice. Si tratta del nuovo presidente della Conferenza episcopale americana, il cardinale di Galverston-Houston, Daniel Di Nardo (nella foto), 67 anni, per tre anni vicepresidente (eletto alla prima votazione) e del nuovo numero due, l’arcivescovo di Los Angeles, José Horacio Gómez, 65 anni (eletto alla terza votazione).
Di Nardo è figlio di un immigrato italiano dall’Abruzzo e Gomez è nato in Messico. È la prima volta che un ispanico arriva così in alto nelle gerarchie cattoliche in Usa. Quindi entrambi conoscono per esperienza diretta quanto sia necessaria l’integrazione dei migranti in una nazione in cui lo stesso stemma presidenziale contiene il motto “E pluribus unum”.
Questo non fa di loro, e nemmeno di Gomez, una scelta che si possa semplicisticamente definire come “contraria” al presidente eletto Donald Trump. Semmai, una scelta bilanciata e insieme di pungolo alla nuova amministrazione.
Dal punto di vista ecclesiale sia Di Nardo che Gómez sono teologicamente “conservatori”. Di Nardo è uno dei tredici cardinali che nel 2015 ha firmato una lettera al Papa per ‘contestare’ i lavori del Sinodo sulla famiglia, è un esponente pro-life. Di Nardo è stato fatto cardinale da Benedetto XVI, ed è stato sempre Benedetto XVI che ha nominato nel 2010 Gómez coadiutore e, l’anno successivo, arcivescovo di Los Angeles (più a destra del suo predecessore, Roger Mahony). Gomez inoltre proviene dalle fila dell’Opus Dei (ordinato prete dell’Opera, nel 1978).
Ma sull’immigrazione Gomez, che nei tre anni passati, è stato il presidente del relativo Comitato dei vescovi, è completamente sulla stessa lunghezza d’onda del Papa. Lo ha ripetuto più volte, anche il 4 ottobre alla Radio Vaticana.
Nell’elezione di Trump il voto cattolico è stato importantissimo. Circa 68 milioni negli Usa, i cattolici costituiscono un quarto dell’elettorato e il tycoon ne ha conquistato il 52 per cento (contro il 45 per cento di Hillary Clinton), compresi i latinos della Florida che sono stati essenziali per la vittoria del candidato repubblicano. Quindi adesso il nuovo vertice della Conferenza episcopale americana dovrà interfacciarsi sia con i propri fedeli e il loro odore di pecore, che con il nuovo Presidente.
Il sito ufficioso vaticano, Il Sismografo, a firma del direttore editoriale Luis Badilla, ha illustrato il videomessaggio inviato martedì 15 novembre da Papa Francesco ai vescovi statunitensi riuniti nella loro plenaria d’autunno a Baltimora, con un titolo significativo: “Francesco e il ‘volto mutevole della Chiesa americana’” (espressione, quest’ultima, tratta dal videomessaggio) e con un’illustrazione che lo è ancora di più: l’immagine di un ponte fatto con i lego, ma un ponte accidentato e spezzato.
Il Papa ha detto: “Durante tutta la sua storia, la Chiesa nel vostro Paese ha accolto e integrato nuove ondate di immigrati. Nella ricca varietà delle loro lingue e tradizioni culturali, essi hanno forgiato il volto mutevole della Chiesa americana”. E ha esortato a tenere conto “del contributo che la comunità ispanica dà alla vita della nazione”. Il Papa delinea un orizzonte pastorale: “La nostra grande sfida – dice – è creare una cultura dell’incontro, che incoraggi gli individui e i gruppi a condividere la ricchezza delle loro tradizioni ed esperienze, ad abbattere muri e a costruire ponti. La Chiesa in America, come altrove, è chiamata ad “uscire” dal suo ambiente sicuro e ad essere un fermento di comunione. Comunione tra noi, con gli altri cristiani e con tutti coloro che cercano un futuro di speranza”.
I vescovi americani pronti all’elezione del loro nuovo capo. I nomi in campo
Come cambia l’agenda dei vescovi americani dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca
di Matteo Matzuzzi | 10 Novembre 2016
Foto della diocesi di Saginaw in Michigan (via Flickr)
Roma. Il primo commento è arrivato a metà mattina, poco dopo il discorso della vittoria di Donald Trump e con qualche stato ancora da assegnare. “Prima di tutto, prendiamo nota con rispetto della volontà espressa dal popolo americano, in questo esercizio di democrazia che mi dicono sia stato caratterizzato anche da una grande affluenza alle urne. E poi facciamo gli auguri al nuovo presidente, perché il suo governo possa essere davvero fruttuoso”, ha detto il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano, a proposito dell’esito elettorale negli Stati Uniti. “E assicuriamo anche la nostra preghiera, perché il Signore lo illumini e lo sostenga a servizio della sua patria, naturalmente, ma anche a servizio del benessere e della pace nel mondo”, ha aggiunto il prelato, dimostrando fin da subito la disponibilità a instaurare un normale e corretto rapporto diplomatico con Washington. Soprattutto, si tratta di parole che fermano sul nascere ogni possibile interpretazione dell’atteggiamento della Santa Sede riguardo il prossimo presidente americano, in particolare dopo le frasi dei mesi scorsi con cui il Papa – parlando in aereo con i giornalisti – definiva “non cristiano chi vuole solo muri”, riferendosi implicitamente proprio a Trump e ai suoi propositi di innalzare barriere al confine con il Messico. The Donald non sorvolò e rispose al Pontefice, aprendo un “caso” che sarebbe stato risolto solo dall’intervento dell’allora direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. In mezzo, tra il Vaticano e la Casa Bianca, c’è la Conferenza episcopale statunitense, che la prossima settimana si ritroverà a Baltimora per definire i piani strategici per il triennio 2016-2019 e, cosa più rilevante, per eleggere i nuovi vertici, essendo venuto a scadenza il mandato di mons. Joseph Kurtz.
ARTICOLI CORRELATI L'America invisibile Perché la chiesa dovrebbe andare a lezione da chi l’ha rinnegata? The right ChurchE’ un appuntamento che inevitabilmente si intreccia con la svolta politica del paese, che dopo otto anni di Amministrazione democratica tornerà ad avere in Pennsylvania Avenue un presidente repubblicano. La chiesa americana ha cercato di mantenere, almeno ufficialmente, una posizione equidistante rispetto ai candidati in lizza. Dietro le quinte, però, la preferenza era per Donald Trump. Non tanto per il profilo del candidato, quanto per la piattaforma che sta alle sue spalle, teoricamente capace di far dimenticare i complessi (eufemismo) rapporti con l’Amministrazione liberal di Barack Obama circa la bioetica. Una linea di condotta, quella della conferenza episcopale, non semplice da mantenere nei mesi della campagna elettorale. Solo qualche settimana fa, proprio mons. Kurtz aveva invitato (senza fare nomi) i candidati ad assumere un atteggiamento più disponibile e meno aggressivo nei confronti degli immigrati e delle donne: “Il Vangelo è offerto a tutti, per sempre. Esso ci invita ad amare i nostri vicini e a vivere in pace l’uno con l’altro. Per questa ragione – aggiungeva – la verità di Cristo non è mai inaccessibile. Il Vangelo serve il bene comune, non le agende politiche”. Quanto alle donne, il capo dei vescovi americani aggiungeva che troppe cose “nel nostro discorso politico attuale hanno svilito le donne. Questo deve cambiare”. Per il resto, poco altro, anche perché era ben presente nella mente dei presuli d’oltreoceano l’invito papale – pronunciato nel settembre del 2015 nella cattedrale di San Matteo a Washington – ad abbandonare il “recinto delle paure” e a smetterla di “leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna”. Tradotto, meno battaglie a difesa di un fortino ormai sempre più sguarnito e più prossimità pastorale. Parole d’ordine che hanno trovato applicazione nella gran parte delle successive nomine episcopali effettuate a Roma, finalizzate a ridisegnare progressivamente la mappa della chiesa americana. Ne sono palese esempio le creazioni cardinalizie (appuntamento in San Pietro sabato 19 novembre) di mons. Blase Cupich, arcivescovo di Chicago, e di mons. Joseph Tobin, nuovo vescovo di Newark dopo il limbo a Indianapolis.
Le votazioni della prossima settimana, dunque, serviranno anche a valutare quanto l’agenda di Francesco sia stata recepita dall’episcopato americano. La lista dei candidati alla presidenza e alla vicepresidenza della conferenza episcopale, però, è dominata da rappresentanti di quella che Robert Royal, direttore di The Catholic Thing, ha definito “la linea di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI”. E anche quelli che non ne fanno parte (come mons. Thomas Wenski, vescovo di Miami e noto per la sua attenzione alla lotta contro il cambiamento climatico e il ciclo di catechesi sull’enciclica Laudato Si’) ha aggiunto al National Catholic Register, “sono comunque personalità davvero solide che si situano a metà tra il vecchio e il nuovo corso”. Nessuna fuga in avanti, dunque. Favorito, se non altro perché la prassi di eleggere il vicepresidente uscente è quasi sempre stata rispettata, è il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e tra i firmatari della celebre lettera inviata al Papa nelle giornate sinodali in cui si lamentavano preoccupazioni circa l’organizzazione dei lavori. Altri nomi forti sono quelli di mons. José Gomez, arcivescovo di Los Angeles (la più grande diocesi degli Stati Uniti) e mons. Charles Chaput (arcivescovo di Philadelphia e organizzatore dell’Incontro mondiale delle famiglie del 2015). Ben posizionati sono anche William Lori (arcivescovo di Baltimora) e Allen Vigneron (arcivescovo di Detroit). A segnare una svolta più in linea con l’orientamento di Francesco sarebbe invece mons. John Wester, arcivescovo di Santa Fe.
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